Ministero del lavoro e delle politiche sociali
Direzione generale per l’Attività Ispettiva
Prot. 37/0005914
Agli indirizzi in allegato
Oggetto: L. n. 92/2012 (c.d. riforma lavoro) – art. 24 bis D.L. n. 83/2012 (conv. da L. n. 134/2012) – call center – contratto di collaborazione coordinata e continuativa – indicazioni operative per il personale ispettivo.
Il Legislatore ha introdotto recentemente, con l’art. 24 bis del D.L. n. 83/2012 (conv. da L. n. 134/2012), una specifica disciplina del contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto nel settore dei call-center.
Gli interventi hanno inciso, da un lato, sui requisiti necessari per la stipula del contratto e, dall’altro, sulle conseguenze legate ad una “delocalizzazione” delle attività.
Su tali aspetti appare opportuno fornire alcune indicazioni di carattere operativo al personale ispettivo, anche in ragione del fatto che detti interventi incidono sulla stessa legittimità di ricorso alla co.co.pro. qualora abbia ad oggetto una “attività di vendita diretta di beni e di servizi realizzate attraverso call-center outbound”.
Collaborazioni coordinate e continuative a progetto nei call center
Il nuovo art. 61, comma 1, del D.Lgs. n. 276/2003 evidenzia anzitutto la specificità della disciplina sia degli agenti e rappresentanti di commercio, sia delle “attività di vendita diretta di beni e di servizi realizzate attraverso call-center outbound”.
Al riguardo va tuttavia osservato che, mentre la disciplina degli agenti e rappresentanti di commercio è rinvenibile sia nel codice civile (art. 1742 c.c.) che in altre fonti primarie (principalmente L. n. 204/1985), per le attività “realizzate attraverso call-center outbound” occorre far riferimento ad una disciplina che nasce nell’ambito della prassi amministrativa, alla quale il Legislatore ha evidentemente voluto far riferimento con la disposizione in esame.
Più in particolare occorre far riferimento alle indicazioni fornite da questo Ministero con circ. n. 17/2006, con la quale sono stati forniti i criteri di legittimo utilizzo del contratto di collaborazione nel settore dei call-center e che, salvo quanto si dirà in ordine alla individuazione di uno specifico progetto, occorre qui richiamare per orientare l’attività di vigilanza.
La circolare ha anzitutto definito le attività outbound come quelle “nell’ambito delle quali il compito assegnato al collaboratore è quello di rendersi attivo nel contattare, per un arco di tempo predeterminato, l’utenza di un prodotto o servizio riconducibile ad un singolo committente”. Ciò a differenza di quanto avviene nell’inbound, in cui “l’operatore non gestisce (…) la propria attività, né può in alcun modo pianificarla giacché la stessa consiste prevalentemente nel rispondere alle chiamate dell’utenza, limitandosi a mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie psicofisiche per un dato periodo di tempo”.
La circ. n. 17/2006 ha dunque evidenziato la necessaria autonomia che deve caratterizzare la prestazione e, a tal fine, ha chiesto al personale ispettivo di “verificare l’esistenza di postazioni di lavoro attrezzate con appositi dispositivi che consentano al collaboratore di autodeterminare il ritmo di lavoro”. Ne consegue che il collaboratore può essere considerato autonomo a condizione che possa “unilateralmente e discrezionalmente determinare, senza necessità di preventiva autorizzazione o successiva giustificazione, la quantità di prestazione da eseguire e la collocazione temporale della stessa”.
Ciò implica che il collaboratore deve poter decidere, nel rispetto delle forme concordate di coordinamento, anche temporale, della prestazione:
a) se eseguire la prestazione ed in quali giorni;
b) a che ora iniziare ed a che ora terminare la prestazione giornaliera;
c) se e per quanto tempo sospendere la prestazione giornaliera.
Da un punto di vista organizzativo ne consegue che l’assenza non deve mai essere giustificata e la presenza non può mai essere imposta.
Quanto alle forme consentite di coordinamento la circ. n. 17/2006 ha chiarito che “il fondamentale requisito dell’autonomia può essere contemperato con le esigenze di coordinamento della prestazione con l’organizzazione produttiva dell’azienda”. A tal fine, secondo la circolare, possono rientrare tra le forme di coordinamento:
a) la previsione concordata di fasce orarie nelle quali il collaboratore deve poter agire con l’autonomia sopra specificata. Le fasce orarie individuate per iscritto nel contratto non possono essere unilateralmente modificate dal committente né questo può assegnare il collaboratore ad una determinata fascia oraria senza il suo preventivo consenso;
b) la previsione concordata di un numero predeterminato di giornate di informazione finalizzate all’aggiornamento del collaboratore. La collocazione di tali giornate di informazione deve essere concordata nel corso di svolgimento della prestazione e non unilateralmente imposta dall’azienda;
c) la previsione concordata della presenza di un assistente di sala la cui attività consista nel fornire assistenza tecnica al collaboratore;
d) la previsione concordata di un determinato sistema operativo utile per l’esecuzione della prestazione. È in ogni caso escluso sia l’esercizio del potere disciplinare che l’esercizio del potere di variare unilateralmente le condizioni contrattuali originariamente convenute.
Deroghe in ordine alla sussistenza dei requisiti di cui all’art. 61, comma 1, del D.Lgs. n. 276/2003
In via generale l’art. 61, comma 1, del D.Lgs. n. 276/2003 prevede alcuni requisiti in capo al contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto (uno o più progetti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore; collegamento a un determinato risultato finale; divieto di mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente; divieto di svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi; cfr. circ. n. 29/2012), evidenziando tuttavia la specificità – come detto – anche delle “attività di vendita diretta di beni e di servizi realizzate attraverso call-center outbound per le quali il ricorso ai contratti di collaborazione a progetto è consentito sulla base del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento”.
Al riguardo va subito chiarito che l’inciso opera in relazione alle attività “realizzate attraverso call-center outbound”, a prescindere dal requisito dimensionale dell’azienda. Come sarà chiarito meglio in seguito, il comma 1 dell’art. 24 bis del D.L. n. 83/2012 ha inteso introdurre un limite dimensionale (“attività svolte da call-center con almeno venti dipendenti”) in relazione alle sole “misure” volte a frenare il fenomeno della delocalizzazione, fenomeno che coinvolge principalmente proprio le aziende di maggiori dimensioni.
Tale specificità – che riguarda sia le attività di vendita di beni, sia le attività di servizi – comporta dunque una vera e propria esclusione dall’applicazione dei citati requisiti dell’art. 61, comma 1, del D.Lgs. n. 276/2003, che normalmente sono richiesti ai fini di un ricorso legittimo al contratto di collaborazione a progetto.
L’esclusione è disposta, peraltro, alla condizione che il contratto di collaborazione preveda la corresponsione del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento, che viene dunque ad assumere, nella sostanza, una funzione “autorizzatoria” del ricorso a questa tipologia contrattuale, a prescindere dal requisito della predisposizione di un progetto specifico.
Ciò tuttavia non comporta, per le attività in questione, una deroga alle successive disposizioni contenute nel Titolo VII, Capo I, del D.Lgs. n. 276/2003 atteso che, da un lato, le attività di call-center outbound trovano la propria disciplina – come detto – nella prassi amministrativa e, dall’altro lato, la collaborazione coordinata e continuativa in discorso è pur sempre ricondotta dalla norma alla fattispecie della “collaborazione a progetto”.
A parte, dunque, l’esclusione dai requisiti di cui all’art. 61, comma 1, del D.Lgs. n. 276/2003, non v’è ragione di non applicare ai collaboratori a progetto impegnati nello svolgimento di attività di call-center outbound le altre norme che integrano la disciplina del rapporto di collaborazione a progetto, prevedendo in particolare dei livelli minimi di garanzie – quali ad esempio quelle concernenti gli “altri diritti del collaboratore a progetto” di cui all’art. 66 – che sarebbe irragionevole non estendere ai collaboratori in questione.
Si creerebbe, altrimenti, un vuoto di garanzie che non sarebbe colmabile neppure col rinvio alla contrattazione collettiva, che è interessata dal Legislatore esclusivamente in relazione alla previsione di un corrispettivo minimo nei termini precisati.
Ciò premesso, in relazione alle collaborazioni concluse per lo svolgimento di attività di vendita di beni e alle attività di servizi realizzate attraverso call center outbound, si ritiene che possano trovare applicazione:
le disposizioni di cui all’art. 61, comma 4;
l’art. 62, escluso evidentemente il riferimento alla “descrizione del progetto, con individuazione del suo contenuto caratterizzante e del risultato finale che si intende conseguire”;
l’art. 64, recante l’“obbligo di riservatezza”;
l’art. 65, recante le “invenzioni del collaboratore a progetto”;
l’art. 66, recante gli “altri diritti del collaboratore a progetto”;
l’art. 67 sulla “estinzione del contratto e preavviso”;
l’art. 69, limitatamente ai commi 2 e 3, relativi all’ipotesi in cui sia accertata, dietro lo “schermo” di una collaborazione a progetto, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.
Il coinvolgimento della contrattazione collettiva
Rispetto alle attività di call center in questione il Legislatore stabilisce, come già evidenziato, che “il ricorso ai contratti di collaborazione a progetto è consentito sulla base del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento”.
Si è già detto della speciale funzione “autorizzatoria” della collaborazione coordinata e continuativa, prescindendo quindi dal requisito della predisposizione di un progetto specifico, data dal prevedere, da parte del committente, la corresponsione di un corrispettivo non inferiore a quello definito dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento.
Ciò conferisce alla previsione in oggetto un significato del tutto diverso da quanto è previsto, a proposito del regime del corrispettivo dei collaboratori a progetto, dall’art. 63. Infatti, mentre la violazione dell’art. 63 comporta soltanto il diritto del collaboratore al riconoscimento di un “differenziale economico”, senza tuttavia incidere sulla natura del rapporto posto in essere, nel settore dei call center la mancata pattuizione di corrispettivi “definiti dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento”, comporta la violazione di una norma inderogabile di natura “autorizzatoria”, cosicché il ricorso alla co.co.pro. potrà ritenersi illegittimo con conseguente riconduzione del rapporto a quella che costituisce “la forma comune di rapporto di lavoro” e cioè il lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Va tuttavia chiarito che, nelle more della introduzione di specifiche clausole da parte della contrattazione collettiva di riferimento che diano indicazioni sui corrispettivi in questione ed al fine di non impedire l’utilizzo della tipologia contrattuale, il contratto di collaborazione coordinata e continuativa nell’ambito dei call-center appare comunque consentito nel rispetto di quanto stabilito in via generale dall’art. 63, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003, secondo il quale “in assenza di contrattazione collettiva specifica, il compenso non può essere inferiore, a parità di estensione temporale dell’attività oggetto della prestazione, alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi nazionali di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza e di esperienza sia analogo a quello del collaboratore a progetto”. In tal caso sarà pertanto necessario garantire contrattualmente che il compenso legato alle prestazioni effettivamente rese dal collaboratore non sia inferiore alle retribuzioni minime previste dalla citata contrattazione collettiva ai fini della legittimità del rapporto di collaborazione, ferma restando la natura autonoma dello stesso.
In altri termini, in attesa di una specifica determinazione della contrattazione collettiva, la tipologia contrattuale in questione è altresì applicabile alle “attività di vendita diretta di beni e di servizi realizzate attraverso call center outbound” nel rispetto delle indicazioni di cui alla circ. n. 17/2006 nonché delle citate disposizioni del D.Lgs. n. 276/2003 (ivi compreso l’art. 63, comma 2), fatta eccezione per l’individuazione di uno specifico progetto.
Call center e delocalizzazione delle attività
L’art. 24 bis del D.L. n. 83/2012 ha inoltre introdotto ulteriori “misure” che vanno a regolamentare il settore dei call center, perlomeno, così come prevede il comma 1 dello stesso articolo, a regolamentare le “attività svolte da call-center con almeno venti dipendenti”. Sul punto si precisa che tale limite dimensionale va calcolato sia tenendo conto del personale dipendente che del personale in servizio con contratti di collaborazione coordinata e continuativa; una interpretazione letterale della disposizione sarebbe infatti poco compatibile con le finalità evidenziate dal Legislatore che, nell’ambito dello stesso art. 24 bis, autorizza peraltro lo svolgimento dell’attività di call-center anche con contratti di collaborazione, sebbene alle condizioni sopra specificate.
Le aziende interessate dalle misure sono poi quelle che svolgono in via assolutamente prevalente (core business aziendale) una attività di call-center e che, pertanto, operano in regime di appalto, restando viceversa escluse quelle attività di call-center che vanno semplicemente ad integrare lo svolgimento dell’impresa rappresentando, il più delle volte, una mero “sportello di front office”.
Ciò premesso, il Legislatore prevede che “qualora un’azienda decida di spostare l’attività di call-center fuori dal territorio nazionale deve darne comunicazione, almeno centoventi giorni prima del trasferimento, al Ministero del lavoro e delle politiche sociali indicando i lavoratori coinvolti. Inoltre deve darne comunicazione all’Autorità garante per la protezione dei dati personali, indicando quali misure vengono adottate per il rispetto della legislazione nazionale, in particolare del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e del registro delle opposizioni. Analoga informativa deve essere fornita dalle aziende che già oggi operano in Paesi esteri”.
La problematica di carattere interpretativo legata alla applicazione della disposizione concerne la “delocalizzazione” della attività, in quanto tale nozione va necessariamente interpretata in relazione alla specifica realtà dei call-center in cui il principale “fattore produttivo” è evidentemente il servizio, rappresentato dal lavoro degli operatori rispetto, ad esempio, alle attrezzature.
Da ciò consegue che potrà ritenersi delocalizzata una attività di call-center qualora le commesse acquisite da una azienda con sede legale in Italia e già avviate nel territorio nazionale siano trasferite – prima della naturale scadenza del relativo contratto – a personale operante all’estero, sia attraverso la successiva apertura di nuove filiali fuori dal territorio nazionale, sia attraverso un meccanismo di subappalto.
In tali casi, almeno 120 giorni prima del trasferimento, occorre effettuare una comunicazione (anche) a questo Ministero, indicando almeno il numero dei “lavoratori coinvolti”, secondo modalità che saranno indicate con successiva nota. Una lettura finalisticamente orientata della disposizione porta a ritenere che detti lavoratori siano coloro i quali (a prescindere dall’inquadramento, subordinato o autonomo), in conseguenza della delocalizzazione della attività di call-center, siano ritenuti in esubero dal datore di lavoro e pertanto interessati da un minor impiego o addirittura da procedure di licenziamento (saranno pertanto significative eventuali richieste di cassa integrazione o riduzioni di personale a qualsiasi titolo).
Tenuto conto della ratio della disciplina richiamata, evidentemente volta a favorire il mantenimento di standard occupazionali, si ritiene inoltre che gli obblighi di comunicazione in questione non ricorrano nel caso in cui, nel corso di svolgimento di uno specifico appalto, l’azienda delocalizzi senza generare esuberi o un minor impiego del personale sino a quel momento impegnato su tale commessa.
Va poi ricordato quanto prevede il comma 3 dell’art. 24 bis, secondo il quale “in attesa di procedere alla ridefinizione del sistema degli incentivi all’occupazione nel settore dei call-center, i benefici previsti dalla legge 29 dicembre 1990, n. 407, non possono essere erogati ad aziende che delocalizzano attività in Paesi esteri”. Al riguardo sembra possibile sostenere che tale disposizione trovi applicazione quando la delocalizzazione nei termini sopra indicati avvenga verso Paesi extracomunitari. Tale orientamento è del resto conforme sia ai principi di libera concorrenza di matrice comunitaria, sia ad una più attenta lettura del dettato normativo. La previsione del comma 3 dell’art. 24 bis, infatti, fa riferimento ad una delocalizzazione “in Paesi esteri” – che la stessa legislazione U.E. identifica abitualmente nei Paesi extracomunitari – mentre il comma 2 dello stesso articolo, che riguarda l’indicato obbligo di comunicazione, fa riferimento ad una delocalizzazione
“fuori dal territorio nazionale”.
Il Direttore generale per l’Attività Ispettiva
(f.to Paolo Pennesi)
DP