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Un caso particolare di estorsione
a cura del dott. Giuseppe Caristena
 
Nel settembre 2011 il Tribunale di Caltanissetta aveva confermato l’ordinanza con la quale il g.i.p. aveva, due mesi prima, applicato la misura degli arresti domiciliari nei confronti di un datore di lavoro, indagato per estorsione nei confronti dei suoi dipendenti.
Avverso tale provvedimento l’indagato proponeva ricorso.
Prima di procedere oltre, è bene ricordare che ai sensi dell’art. 629 cod. pen. commette delitto di estorsione “[c]hiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno…”.
Nel caso di specie, i giudici della seconda sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza emessa l’11 dicembre 2011 (dep. 1 febbraio 2012) n. 4290, hanno ribadito il seguente principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità: “integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato di lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringa i lavoratori, con la minaccia di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi” (Cass. 36642/2007; Cass. 48868/2009; Cass. 16656/2010).
E’ bene ricordare che il diritto al lavoro è costituzionalmente garantito e all’art. 36, co. 1, Cost. si legge che “[i]l lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ognicaso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”. Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di statuire che il principio dell’irriducibilità della retribuzione è ricavabile sia dall’art. 2103 cod. civ. sia dalla suddetta disposizione di rango costituzionale “ossia dal divieto di assegnazione a mansioni inferiori e dalla necessaria proporzione tra l’ammontare della retribuzione e la qualità e quantità del lavoro prestato”. (Cass. 20310/2008; Cass. 20339/2006).
I giudici di Piazza Cavour nella sentenza in esame hanno anche apprezzato il richiamo operato dal Tribunale di Caltanissetta a un altro principio sancito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui è idonea a configurare la fattispecie criminosa in questione anche la minaccia larvata o implicita o ancora indiretta (ex plurimis Cass. 19724/2010).
In conclusione la Suprema Corte, ritenendo sussistenti nel caso specifico sia l’elemento oggettivo (la minaccia) sia quello dell’ingiusto profitto dell’autore della stessa, come già acclarato dal Tribunale, ha rigettato il ricorso del datore di lavoro e lo ha condannato al pagamento delle spese processuali.


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