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Istituto stragiudiziale ex art. 1454 c.c. Riflessioni.
a cura della redazione
 

Articolo 145 c.c. ""Alla parte inadempiente l’altra può intimare per iscritto di adempiere in un congruo termine, con dichiarazione che, decorso inutilmente detto termine, il contratto s’intende senz’altro risoluto (1662,1901).
Il termine non può essere inferiore a quindici giorni, salvo diversa pattuizione delle parti o salvo che, per la natura del contratto o secondo gli usi, risulti congruo un termine minore.
Decorso il termine senza che il contratto sia stato adempiuto, questo risoluto di diritto.""


Riteniamo di interesse occuparsi dell'argomento stante l'importanza dello stesso nei comuni rapporti sociali.
Nella diffida ad adempiere deve essere espressamente stabilito un congruo termine affinché il debitore possa adempiere.
La diffida esprime un diritto potestativo attribuito ex lege al creditore, in virtù del quale il creditore può provocare immediatamente e unilateralmente una modificazione del rapporto, introducendo nella struttura della diffida un termine di adempimento, che, sostituendosi eventualmente a quello previsto in origine, si caratterizza per la sua perentorietà[1].
Questo potere dato ex lege al creditore è perciò circondato di alcune cautele, tra cui, oltre alla già esaminata sussistenza della non scarsa importanza dell’inadempimento ex art. 1455 c.c., anche la fissazione del termine ex art. 1454 c.c..
Si afferma che l’art. 1454 c.c., nel fissare la congruità del termine con riguardo ad un minimo di tempo di quindici giorni, contiene un’eccezione alla disciplina generale sul tempo dell’adempimento di cui all’art. 1183 c.c., eccezione che è stabilita a favore del debitore quando si tratta di esporlo a conseguenze sfavorevoli, legate alla risoluzione del contratto[2].
La norma stabilisce che il termine non può essere inferiore a quindici giorni; tuttavia tale termine è stabilito in modo unico per la diffida relativa all’adempimento di qualsiasi prestazione, sia essa la consegna di un piccolo bene mobile o la costruzione di un villaggio turistico, o la realizzazione di un abito sartoriale, o ancora la realizzazione di un programma software.
È ovvio che i quindici giorni fissati possono risultare sufficienti per alcuni casi, per altri no.
Il secondo comma consente allora un’abbreviazione del termine tenendo conto del diverso accordo delle parti, o della natura del contratto, o degli usi; invece, va escluso che il termine possa ridursi solo perché il diffidante aveva in precedenza già richiesto la prestazione, poiché precedenti diffide producono la costituzione in mora ex art. 1219 c.c.[3].
Il termine non deve necessariamente essere assegnato utilizzando espressamente la formula rituale dell’art. 1454 c.c., perché può risultare anche «dalla fissazione della data entro cui la parte deve indicare il notaio rogante ed il giorno della stipulazione del definitivo», chiarendosi comunque in tal modo il tempo entro il quale si chiede l’adempimento[4].
La dottrina osserva come la stessa necessità che il termine risulti “congruo” basta a provare come esso debba essere chiaramente determinato ed individuato nella diffida[5], per l’ovvia ragione che il diffidato sia messo in grado di conoscere quale sia il tempo entro cui può adempiere[6].

La norma precisa che il termine, concesso al debitore per adempiere, e fissato dal creditore nella diffida, sia “congruo”, cioè normalmente sufficiente a che il debitore esegua la prestazione, tenuto conto anche dell’interesse del creditore volto ad ottenere la prestazione nel più breve tempo possibile e a tentare quindi un recupero del contratto.
Il problema è accertare quali siano i contenuti ed i margini della valutazione di congruità e se il termine indicato nel codice possa essere derogato, tanto in eccesso quanto in difetto.
Per comprendere cosa si intenda per congruità del termine, concentrando l’attenzione sui margini temporali, si possono utilizzare sia le disposizioni normative, sia i principi che regolano il sistema della risoluzione per diffida. Guardando da un lato al dato normativo (art. 1454 c.c.), esso risulta supportato da quella giurisprudenza che rappresentò il primo precedente specifico con cui si è esplicitamente riconosciuta la congruità di un termine (dieci giorni) minore di quello di legge. La decisione sottolineava infatti che «la regola secondo cui il termine concesso al debitore con la diffida ad adempiere, cui è strumentalmente collegata la risoluzione di diritto del contratto, non può essere inferiore a quindici giorni, non è assoluta, potendosi assegnare a norma dell’art. 1454, secondo comma, c.c. un termine inferiore ritenuto congruo per la natura del contratto o per gli usi. L’accertamento della congruità del termine costituisce un giudizio di fatto di competenza del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se esente da errori logici e giuridici»[7]. Va anche notato che l’eventuale termine inferiore non può essere tale da rendere eccessivamente gravoso per il debitore l’adempimento, a norma dell’art. 2965 c.c., conseguendone altrimenti la nullità della pattuizione[8].
La prova della congruità del termine infraquindicinale incombe sul creditore, in considerazione della natura del contratto o in base agli usi[9].
Per quanto attiene all’idoneità di un termine superiore ai quindici giorni, se il creditore ritenesse opportuno tutelare il proprio interesse ad ottenere quella prestazione, comunque nei limiti del conseguimento dell’effetto risolutorio, resta in sua facoltà assegnare un termine più ampio di quindici giorni.
La giurisprudenza più recente ha, in tal senso, riconosciuto la possibilità da parte del diffidato di fornire dimostrazione positiva, con riguardo alle caratteristiche della prestazione dovuta, dando prova dell’incongruità del termine di quindici giorni (o più). Infatti quello stabilito dalla legge è un limite minimo, e non infrangerlo (salvo ci siano le eccezioni segnalate) comporta la presunzione di congruità del termine (una presunzione juris tantum che perciò ammette la prova contraria)[10].
È stato addirittura affermato che la fissazione di un termine superiore a quello minimo esime il giudice dal pronunciarsi in merito alla congruità[11], ma tale affermazione non sembra accettabile, essendo la congruità un elemento obiettivo e relativo[12].

Precisati questi aspetti, occorre ora analizzare dall’altro lato i principi che regolano la risoluzione per diffida; principi che possano fornirci dei criteri che il giudice di merito[13] potrà seguire per valutare l’esistenza del requisito della congruità del termine assegnato nella diffida ad adempiere.
Anzitutto, va precisato che la valutazione va operata caso per caso, perché a seconda della natura della prestazione vi sarà una maggiore o una minore lunghezza del termine[14].
Si ritiene congruo un termine più breve se si tratta del pagamento di una somma di denaro, anziché se si tratta di una fornitura, specie se essa richiede un’elaborazione.
Di conseguenza, il criterio fondamentale da adottare è quello secondo il quale la congruità del termine richiede un contemperamento fra le esigenze del debitore e quelle del creditore. Il primo deve avere il tempo minimo per adempiere, il secondo non è invece disposto a tollerare un ulteriore ritardo, potendo venire meno il suo interesse alla prestazione[15].
È ritenuta invalida una diffida ad adempiere “entro brevissimo tempo”, dovendosi rilevare che una siffatta formula è contraria alla ratio legislativa che dispone un preciso termine[16].
Criterio sussidiario rispetto al precedente è quello che postula di partire dal presupposto che il debitore abbia già in parte preparato l’adempimento, per cui il termine concesso andrebbe fissato solo rispetto al completamento di quella preparazione: il debitore che fosse rimasto inattivo sino al momento della diffida non potrebbe pretendere che questa gli lasci tutto il tempo per completare la prestazione[17]!
La valorizzazione degli interessi delle parti ha il pregio di focalizzare l’attenzione dell’interprete sulla necessità di coordinare la valutazione relativa alla congruità del termine, condotta secondo criteri di concretezza, con l’apprezzamento dell’interesse dei contraenti.
Si deve, quindi, fare riferimento alla causa concreta, intesa come giustificazione giuridica dell’operazione economica, peraltro confermata dall’espressione codicistica (“natura” del contratto, contenuta nel 2° comma della disposizione in commento), poiché essa si ricollega all’oggetto della prestazione e al concreto interesse delle parti[18].
La natura discrezionale del giudizio di congruità comporta nella prassi un’ampia eterogeneità nei criteri adottati dai singoli giudici: così è stato ritenuto incongruo il termine di otto giorni rispetto all’adempimento dell’obbligazione nascente da un preliminare di compravendita, di stipulare il definitivo[19]; è stata anche riconosciuta la congruità di un termine inferiore ai quindici giorni, ove il rapporto contrattuale verteva in materia di beni soggetti ad un mercato stagionale e la diffida era stata emessa a ridosso della chiusura dello stesso[20].
Non è mancato il riconoscimento della congruità del termine inferiore ai canonici quindici giorni per la diffida notificata a distanza di più di un mese dalla scadenza del termine pattuito per l’adempimento nonché preceduta da una serie di solleciti di pagamento[21]. Tuttavia, quest’ultima decisione è stata criticata, perché si è ritenuto che se il creditore intima la diffida al fine di sanare l’equilibrio contrattuale, questa opportunità concessa al debitore deve trovare riscontro nell’irrilevanza degli inadempimenti pregressi; onde, una volta intimata ex art. 1454 c.c. l’esecuzione della prestazione entro un congruo termine, non si potrebbe imputare al debitore di non avere adempiuto in epoca precedente alla diffida[22].
La diffida inefficace non impedisce altri effetti, che possono ugualmente discendere anche da un’intimazione che reca un termine non congruo. Infatti, si ritiene che a favore del creditore essa possa valere come atto di costituzione in mora, mentre a favore dell’intimato determina una sua riammissione in termini, cosicché l’inadempimento si dovrà considerare avvenuto allo scadere del termine intimato, anche se incongruo[23].
Ma se l’inadeguatezza del termine derivasse da circostanze proprie del debitore, che il creditore non poteva conoscere, si può ammettere che il debitore avvisi il creditore, per raggiungere con questo un accordo di modifica del termine[24].
Va negata invece la convertibilità automatica di un termine incongruo in uno congruo, poiché se il creditore ha fissato un termine molto breve ciò significa che oltre quel termine non avrà più interesse alla prestazione, e se si applicasse a tutti i costi il criterio di conversione di un termine più breve in uno più lungo il creditore sarebbe sia costretto ad accettare una prestazione per lui non più utile sia a vedersi preclusa la possibilità di rivolgersi entro un breve termine altrove, se lo desiderasse, per fornirsi della cosa che gli occorreva.

L’analisi sul termine intimato ex art. 1454 c.c. porta ad analizzare anche altri aspetti, tra i quali quello relativo al momento in cui il termine inizi a decorrere. Poiché questo è previsto a favore del debitore, va calcolato dal momento in cui la diffida è da lui ricevuta, e non dalla spedizione, salvo che il creditore non abbia indicato un diverso momento[25]. È importante stabilire questo momento, specie se le due parti sono lontane l’una dall’altra. Se si adottasse invece il criterio per il quale il decorso del termine indicato in diffida si computa dal giorno in cui la dichiarazione fu emessa, ne conseguirebbe che il debitore si vedrebbe ridotto il tempo utile per eseguire la prestazione[26]. Ecco dunque, che la soluzione esatta è la decorrenza del termine da quando la diffida è ricevuta dal destinatario; sicuramente ragionando così, il creditore, dal suo punto di vista, avrà interesse di servirsi del mezzo più rapido per fargli pervenire la diffida.
Tale principio non è tuttavia applicabile ove il creditore abbia espressamente precisato il dies a quo, nel qual caso il termine decorrerebbe da tale giorno, salva la prova della impossibilità di adempiere tempestivamente la prestazione per forza maggiore (disguido o ritardo postale)[27].

Altro problema da esaminare è quello in cui il creditore si limiti ad intimare genericamente l’adempimento senza che, però, il termine sia specificamente determinato. Se si tiene presente lo scopo che la legge mira a perseguire con la fissazione del termine, quello cioè di condurre ad una semplice definizione della reciproca posizione delle parti, e se si considerano anche le espressioni utilizzate dalla stessa all’art. 1454 c.c., risulta ovvio propendere per una soluzione che sancisca l’inefficacia di una diffida con termine non determinato[28].
Lo scopo suddetto sarebbe frustato se si ritenesse efficace una diffida formulata in tal modo: si creerebbe uno stato di incertezza del rapporto contrattuale, di dubbio sull’adeguatezza del termine[29], chiarito che la legge per “congruo termine” intende quello ben precisato, e non quello da determinare a posteriori[30].
La mancata precisazione del termine di adempimento farebbe parlare, anziché di diffida ad adempiere, di un invito ad adempiere, la cui inosservanza non determinerebbe l’automatico scioglimento del contratto[31].
Tali riflessioni appaiono condivise da una giurisprudenza consolidata, posto che già in pronunce risalenti la Cassazione affermava che la diffida ad adempiere “entro brevissimo tempo” violasse la disposizione dell’art. 1454 c.c.[32].
Al contrario, a favore dell’efficacia di una dichiarazione di diffida formulata in tal modo, secondo altra giurisprudenza, vi sarebbe il principio di conservazione (art. 1367 c.c.), che suggerisce di scegliere, tra i più svariati significati di una dichiarazione, quello che le consente di esplicare qualche effetto giuridico utile. In applicazione di tale principio, di fronte ad una diffida che richiama senza ulteriori specificazioni alla congruità del termine, si dovrebbe concludere che questo risulti determinato a posteriori[33]. A ciò va obiettato che l’intimato potrebbe avvalersi della genericità delle espressioni usate dal creditore, in diffida, per pretendere che il diffidante accetti una prestazione oltre i quindici giorni.
Molto probabilmente a tale situazione potrebbe conseguire la necessità di richiedere un accertamento giudiziale per l’individuazione del termine, ma nello stesso tempo si priverebbe la diffida del suo carattere: uno scioglimento del rapporto contrattuale senza l’intervento del giudice[34].
Tuttavia, la questione si rivela più complessa se analizziamo un’altra problematica. Nulla quaestio se si è assegnato nella diffida il termine di legge e si è verificato che nel contratto non è stata stabilita una data diversa; ed essendo il termine deciso dalla legge nel rispetto delle scadenze fissate dai contraenti, il giudice non potrà sindacare l’esiguità dei quindici giorni assegnati per eseguire la prestazione dedotta in contratto, non potendosi sostituire al codice nella determinazione della sua misura[35].
La circostanza diversa che potrebbe verificarsi è quella ove i contraenti abbiano omesso di concordare nel contratto un tempo certo per l’adempimento.
Secondo un recente orientamento della Corte di Cassazione, «la mancata previsione di un termine entro il quale la prestazione debba essere consensualmente eseguita, non sempre impone alla parte adempiente l’obbligo di costituire in mora la controparte ex art. 1454 c.c. e quindi di far ricorso al giudice a norma e per gli effetti di cui all’art. 1183 c.c.. In relazione agli usi, alla natura del rapporto negoziale ed all’interesse delle parti, può essere infatti sufficiente che sia decorso un congruo spazio di tempo dalla conclusione del contratto, per cui possa ritenersi in concreto superato ogni limite di normale tolleranza»[36]. Quindi, secondo tale massima, al creditore insoddisfatto non è imposto l’onere di fissare preliminarmente il termine al debitore per poi conseguire successivamente l’effetto risolutivo mediante diffida.
Secondo un altro filone giurisprudenziale, invece, nell’ipotesi di mancata previsione del termine certo per adempiere sarebbe consentita al creditore la scelta tra la richiesta di un adempimento immediato o entro breve termine, e quella costituita dall’intimazione ex art. 1454 c.c.[37].
Se la prestazione è subito esigibile, la diffida potrà venire comunicata senza problemi: quindi, se ad esempio il preliminare di vendita non contiene un termine per procedere alla stipula del definitivo, ogni contraente potrà avvalersi della diffida a fronte di una prestazione immediatamente esigibile ex art. 1183 c.c.[38].
Diverso sarà invece il caso in cui il contratto fissi un termine a favore della controparte, inteso come termine a favore del creditore ex art. 1183 c.c., vedendosi così quest’ultimo autorizzato ad esigere la prestazione prima della scadenza.
Se il termine è stato invece indicato volutamente come approssimativo, ad esempio si prevede che la costruzione di un complesso residenziale avvenga “circa” per il mese di gennaio di un certo anno, ciò indica trattasi di termine a favore anche del debitore, nel senso di consentirgli una dilazione non preventivamente concordata tra le parti. In tale ipotesi, al fine di rispettare il patto intercorso tra le parti ed evitare che a questo si sostituisca la diffida, la parte interessata all’adempimento dovrebbe chiedere al giudice la fissazione del termine ex art. 1183 c.c.[39].

Può il creditore operare mutamenti sul termine già fissato nella diffida ad adempiere?
La letteratura ha anzitutto ritenuto che il termine non può essere abbreviato per iniziativa del solo creditore, sul presupposto che il debitore, dal momento in cui gli viene notificata la diffida col termine più lungo, può aver deciso di utilizzare tutto il tempo che gli fu concesso per adempiere, creandosi un’aspettativa verso quel termine[40].
La letteratura ha anzitutto ritenuto che il termine non può essere abbreviato per iniziativa del solo creditore, sul presupposto che il debitore, dal momento in cui gli viene notificata la diffida col termine più lungo, può aver deciso di utilizzare tutto il tempo che gli fu concesso per adempiere, creandosi un’aspettativa verso quel termine[40].
La dottrina maggioritaria ha pure escluso che il creditore possa unilateralmente allungare il termine dopo la scadenza, poiché la scadenza crea un’immediata risoluzione del rapporto[41] (invece prima della scadenza si ritiene certamente prorogabile, perché l’effetto risolutivo non si è ancora prodotto[42]). Prorogando il termine, il diffidante differisce il momento della risoluzione, dilazionando nel tempo gli effetti del contratto. Così facendo, il diffidante «incrementa a suo arbitrio il danno derivante dal ritardo che il debitore inadempiente è chiamato a risarcire; ed inoltre potrebbe accadere che per effetto della proroga il diffidato permanga titolare di diritti reali che scaduto il termine originariamente fissato sarebbero stati riacquistati dal diffidante».
Il termine fissato dalla diffida non può perciò essere prorogato, perché merita di essere tutelato l’affidamento che il debitore pone sul momento in cui la risoluzione del contratto si verificherà: tutela che non si realizzerebbe se la risoluzione fosse rinviata sine die dal creditore.
Ovviamente se l’intimato accettasse la proroga del termine, non vi sarebbe alcun problema, perché si tratterebbe pur sempre di un accordo (art. 1321 c.c.) intercorso tra le parti per regolare il loro rapporto giuridico[43].
Va comunque precisato che il problema qui trattato si colloca nell’ambito di un più ampio dibattito relativo alla questione della disponibilità degli effetti nella risoluzione di diritto, di cui darò conto in modo più approfondito nella parte relativa agli effetti della diffida ad adempiere, limitandomi fin d’ora a chiarire, in linea generale, che la situazione creditoria, vincolata al rispetto degli obblighi ex art. 1375 c.c., deve tutelare i presupposti affinché il diffidato possa adempiere.
Sulla scorta di tale principio la Suprema Corte ha deciso che «è inidonea a determinare la risoluzione di un contratto preliminare di compravendita, la diffida con la quale il venditore intima genericamente al compratore di adempiere, nei quindici giorni, alle sue obbligazioni - la prima delle quali consista nella stipulazione dell’atto notarile di trasferimento - senza predisporre ed indicargli il luogo, il giorno e l’ora della stipulazione dell’atto innanzi al notaio»[44].

Nel corso della trattazione si è già detto a proposito della sorte dell’atto di diffida irregolare, in quanto privo dei requisiti necessari (intimazione ad adempiere senza termine o addirittura dichiarazione di risoluzione immediata; diffida con termine incongruo): l’atto inefficace non ha effetto risolutorio[45].
Nondimeno, si ritiene che l’intimazione potrà produrre gli altri effetti connessi alla diffida se vi siano i requisiti minimi dell’atto costitutivo della mora ex art. 1219 c.c., ovvero risulti la volontà dell’intimante di chiedere l’adempimento. Così, se la diffida ad adempiere, che non prefigge il preciso termine entro cui il contraente inadempiente deve adempiere sotto pena di risoluzione del contratto, è in contrasto con l’art. 1454 c.c., in quanto determina nel diffidato uno stato di incertezza che gli impedisce di giudicare la congruità o meno del termine, essa può mantenere efficacia in relazione alla costituzione in mora[46].
Una diffida che non prefiggesse il termine di adempimento del diffidato non sarebbe quindi ammissibile, poiché «si esaurirebbe nella pretesa che spetti solo al contraente adempiente di giudicare ex post se la prestazione dell’altro contraente, successiva alla diffida, ottemperi o meno alla diffida quanto al termine di adempimento»[47]. Come inammissibili sarebbero le intimazioni “di comodo” ovvero fittizie, in quanto intrinsecamente inidonee ad assicurare la realizzazione del contratto e solo strumentali allo scioglimento unilaterale del vincolo, come nel caso in cui mediante la diffida il creditore chiedesse l’adempimento della prestazione in misura superiore a quella realmente dovuta[48].



La rerdazione
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[1] Pisciotta G., op. cit., 201; Mosco L., op. cit., 152, precisa che qui si presuppone che la prestazione sia scaduta, perciò questo termine può chiamarsi secondo termine o termine posteriore. Natoli U., op. cit., 509, riferisce che vi sono stati interventi (Cass., 3 novembre 1955, n. 3583, in Giur. It., Mass., 608) che hanno qualificato il termine suddetto come essenziale, operando però un improprio accostamento della diffida a un altro istituto, cioè il termine essenziale disciplinato all’art. 1457 c.c., da cui si differenzia dal punto di vista strutturale e formale.
[2] Scozzafava O.T., Risoluzione del contratto e diffida ad adempiere (nota a sent. Cass. 30 ottobre 1980, n. 5842), in Riv. Dir. comm., 1982, II, 42.
[3] Sicchiero G., op. cit., 524.
[4] Cass., 12 dicembre 1983, n. 7335, in Rep. Foro It., 1983, 176, 316, in materia di contratto preliminare.
[5] Natoli U., op. cit., 510; Cass., 29 dicembre 1952, n. 3216, in Foro It., 1953, I, 614.
[6] Scognamiglio R., Contratti in generale, cit., 271; Cass., 29 dicembre 1952, n. 3271, in Mass. Foro It., 1962, 754.
[7] Cass., 1°settembre 1990, n. 9085, in Nuova Giur. Civ. commentata, 1991, I, 353, e in Corriere giuridico, 1991, 196 (con nota di Rossello C.). Il giudice di merito aveva fatto leva sull’imminenza del cambiamento delle condizioni climatiche e dei rigori invernali, che rendevano urgente l’interesse dei creditori ad una immediata installazione dell’impianto di condizionamento che formava oggetto della prestazione del debitore diffidato, e sulla circostanza che, in epoca anteriore alla diffida, il debitore era rimasto inattivo per più di cinque mesi.
[8] Bianca C.M., op. cit., 308; è stato ritenuto (Cass., 13 giugno 1950, n. 1482, in Foro It., Mass., 1950, 44) che un termine inferiore disapplica la legge e che lo scopo di questa non è raggiunto da più termini minori successivi contenuti in successive diffide, se il giudice di merito ritenga, con apprezzamento di fatto incensurabile in sede di cassazione, che la successione di più termini minori abbia l’effetto di disorientare la parte diffidata sulla effettiva volontà dell’altra. Con un originale approccio alla problematica, nella medesima direzione si è affermato che l’erroneità della somma di termini incongrui contenuti in diffide successive possa essere dedotta anche dalla disciplina posta dall’art. 1454 c.c.: rilevando che ciascuna di tali diffide è in realtà inefficace per incongruità del termine, la somma di queste non potrebbe che essere sempre pari a zero (Dalmartello A., op. cit., 142).
[9] Bianca C.M., op. cit., 308.
[10] Cass., 30 ottobre 1980, n. 5842, in Giur. It., 1981, I, 1, 1474, nella specie, si trattava di una promessa di vendita (nella quale il costruttore promittente era a conoscenza del fatto che per il saldo del prezzo il promissario attendeva la concessione di un mutuo non ottenibile in soli quindici giorni, considerata la mancanza, per fatto dipendente dal costruttore stesso, dell’autorizzazione all’uso ed all’abitabilità del negozio). Scozzafava O.T., op. cit., 35, trae argomento dal tenore letterale della norma per affermare che il termine di quindici giorni deve essere considerato come termine senz’altro “congruo” e dunque, non sindacabile dal giudice.
[11] Cass., 17 maggio 1949, n. 1220, in Foro It., 1949, I, 936.
[12] Mirabelli G., Dei contratti in generale, cit., 618.
[13] Palmieri D., op. cit., 338, essendo una quaestio facti. Da ciò consegue che al giudice di legittimità spetta il solo controllo sull’iter logico adottato nella motivazione.
[14] Mosco L., op. cit., 153, a proposito della giurisprudenza germanica riferisce che fu ritenuto sufficiente un termine di diffida di quattro settimane per il pagamento di una somma di 8200 marchi, in un altro caso fu ritenuto sufficiente un termine di 5 giorni per il pagamento di un prezzo di vendita, perché il debitore era stato già in precedenza avvertito che il creditore avrebbe preteso puntuale adempimento.
[15] Natoli U., op. cit., 510.
[16] Cass., 29 dicembre 1952, n. 3216, in Foro It., 1953, I, 614.
[17] Mosco L., op. cit., 154.
[18] Lozupone R., op. cit., 263.
[19] Trib. Milano, 13 maggio 2002, in Gius., 2002, 20, 1993.
[20] App. Genova, 22 giugno 1957, in Rep. Gius. Civ., 1957, II, 644.
[21] Trib. Camerino, 27 gennaio 1995, in Gius., 1995, 1637.
[22] lozupone r. op. cit., 87.
[23] Borrione M., op. cit., 276; Cass., 22 giugno 1994, n. 5979, in Gius., 1994, 21, 15.
[24] Mosco L. op. cit., 154.
[25] Natoli U., op. cit., 510; Cass., 3 novembre 1955, n. 3583, in Giur. It., 1956, I, 1, 329.
[26] Mosco L., op. cit., 159.
[27] Cass., 3 novembre 1955, n. 3583, in Mass. Giust. civ., 1955, 1349.
[28] Bianca C.M., op. cit., 309.
[29] Rossello C., op. cit., 196; Manfredi A.P., Risoluzione per inadempimento. Diffida ad adempiere. Termine essenziale (nota a sent. Cass. 18 maggio 1987, n. 4535), in Nuova Giur. Civ. comm., 1988, I, 187.
[30] Costanza M., La diffida ad adempiere, in Commentario Scialoja e Branca, cit., 446.
[31] Pisciotta G., op. cit., 205.
[32] Cass., 29 dicembre 1952, n. 3276, in Rep. Foro It., 1952, voce Obbligazioni e contratti, 277.
[33] Cass., 12 gennaio 1982, n. 132, in Rep. Foro It., 1982, voce Contratto in genere, n. 254.
[34] Pisciotta G. op. cit., 205.
[35] Sicchiero G., op. cit., 526.
[36] Cass., 27 gennaio 2003, n. 1149, in Rep. Foro It., 2003, 1740, 542.
[37] Cass., 2 giugno 1992, n. 6701, in Corriere Giur., 1992, 1118, pronunciata nell’ambito di una controversia relativa ad un contratto di associazione in partecipazione che non prevedeva termini particolari per l’adempimento degli obblighi assunti.
[38] Art. 1183 c.c. (Tempo dell’adempimento): «Se non è determinato il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita, il creditore può esigerla immediatamente. Qualora tuttavia, in virtù degli usi o per la natura della prestazione ovvero per il modo o il luogo dell’esecuzione, sia necessario un termine, questo, in mancanza di accordo delle parti, è stabilito dal giudice”. Al secondo comma si prevede che «se il termine per l’adempimento è rimesso alla volontà del debitore, spetta egualmente al giudice di stabilirlo secondo le circostanze; se è rimesso alla volontà del creditore, il termine può essere fissato su istanza del debitore che intende liberarsi».
[39] Sicchiero G., op. cit., 515.
[40] Mosco L., op. cit., 158.
[41] Sicchiero G., op. cit., 529; Mosco L., op. cit., 158, riferisce che invece risulta pacifico nella dottrina germanica che il creditore possa prorogare con atto unilaterale il termine già fissato, e ciò anche se il debitore ha interesse di adempiere in un tempo più breve; giustificando tale sua posizione sul tenore letterale della legge che richiede di “adempiere in un congruo termine”, e sullo scopo della concessione del termine che vuole avvantaggiare il debitore.
[42] In senso contrario Natoli U., op. cit., 511, e poi anche Costanza M., La diffida ad adempiere, in Commentario Scialoja e Branca, cit., 448, per cui una volta che l’intimante abbia comunicato al debitore che non ha più interesse a ricevere la prestazione al di là di quel termine, la parte creditrice non può, una volta che il termine abbia cominciato a decorrere e magari che ne sia anche prossima la scadenza, rimettere il debitore in una situazione di obbligo da cui egli lo ha liberato.
[43] Sicchiero G., op. cit., 530.
[44] Cass., 13 febbraio 1976, n. 466, in Rep. Foro It., 1976, voce Contratto in genere, atto e negozio giuridico, 167.
[45] Roppo V., Il contratto, cit., 965. Peraltro è stato ritenuto anche inefficace l’atto compiuto dal non legittimato, Bianca C.M., op. cit., 306.
[46] Cass., 22 giugno 1994, n. 5979, in Gius., 1994, 21, 15.
[47] Cass., 29 dicembre 1952, n. 3276, in Rep. Foro It., 1952, voce Obbligazioni e contratti, 277.
[48] Cass., 28 luglio 1969, n. 2878, in Rep. Foro It., 1969, voce Obbligazioni e contratti, 375.





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