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Corte Suprema di Cassazione. Ernesto Lupo. Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2012
Roma, 25 gennaio 2013
 

Con sommo piacere pubblichiamo integralmenente l'intervento di Ernesto Lupo, primo presidente della Corte suprema di Cassazione, letto in occasione dell'naugurazine del nuovo anno giudiziario.
Molto interessante per contenuti ed esposizione.
Riteniamo possa dare spunti di riflessioni a molti.


La direzione


^^^^^^^^^

"Le qualità essenziali che si richiedono per un buon magistrato: anzitutto una grande e costante attenzione culturale che impegna in studi severi.
Per i giudici davvero può dirsi che gli esami non finiscono mai: essi mentre giudicano sono giudicati; e quanto più sapranno assumere il ruolo di giudicati, tanto meglio sapranno svolgere la funzione giudicante.
La seconda qualità è costituita da una forte tensione morale: il nostro lavoro non si può fare se non si èfortemente motivati nello spirito del servizio che si rende alla comunità, impegnandoci in un continuo scambio di idee e di sentimenti con la società che ci circonda.
La terza qualità, che si richiede perché un magistrato possa incamminarsi con la consapevolezza piena dei suoi doveri sulla lunga strada che lo attende, è l’umiltà."
(Antonio Brancaccio)

INDICE
I - L’impegno dei giudici per la costruzione di un sistema europeo
1. Diritti e giurisdizione come fattori di coesione e di integrazione.
2. Una rafforzata dimensione dei doveri e delle responsabilità.
II - Giurisprudenza nazionale e giudici europei nel 2012
1. L’Europa all’epoca della crisi.
2. L’integrazione europea nel 2012.
3. La giurisprudenza costituzionale e di legittimità.
4. Il “nuovo” dialogo fra le Corti.
5. Due recenti questioni di costituzionalità in direzione di un sistema multilivello.
6. L’interpretazione adeguatrice come strumento di chiusura del sistema.
7. La giurisprudenza di legittimità ed il diritto sovranazionale.
III - Confronto con i sistemi giudiziari di Stati europei più vicini all’Italia (Francia, Germania,
Regno Unito, Spagna)
1. Premessa.
2. Sistemi giudiziari europei: dati relativi alla domanda di giustizia.
3. Dati relativi alla risposta alla domanda di giustizia.
4. Gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (ADR).
IV - I miglioramenti organizzativi
1. Revisione delle circoscrizioni giudiziarie.
2. La Scuola superiore della magistratura.
3. Innovazioni tecnologiche. In particolare: il processo civile telematico.
4. Il cd. Ufficio del processo.
5. I programmi per la gestione dei procedimenti civili (art. 37 d.l. n. 98/2011).
6. Il rapporto con gli utenti.
V - La giustizia penale
1. Pendenze e tempi di definizione degli uffici di merito.
1.1. Uffici giudicanti: movimento dei procedimenti.
1.2 Modalità di definizione dei procedimenti.
1.3. I tempi di definizione.
1.4. Uffici requirenti.
2. I dati e i rilievi provenienti dai distretti.
2.1. Le cause di inefficienza.
2.2. La criminalità organizzata.
2.3. Le altre tipologie dei reati.
2.4. Sequestro di prevenzione e sequestro penale.
3. Considerazioni sullo stato della giustizia penale.
3.1. La riforma dei reati in tema di corruzione.
3.2. Eccessiva durata dei procedimenti. Necessità di incidere su più fattori.
3.3. Riduzione delle fattispecie di reato.
3.4. Modifica della disciplina della prescrizione.
3.5. Il processo contumaciale.
3.6. I frequenti mutamenti dell’organo giudicante.
3.7. Necessità di ulteriori procedure deflative.
3.8. Disciplina del giudizio di appello.
3.9. Situazione carceraria. Misure custodiali. Pena detentiva.
3.10. La mancata introduzione del delitto di tortura.
VI - La giustizia civile
1. Premessa.
2. La pendenza e i tempi.
3. Analisi dei dati statistici.
3.1. I dati ripartiti per aree geografiche.
3.2. I dati relativi agli uffici.
4. La situazione nei distretti.
4.1. I dati provenienti dai distretti.
4.2. Gli sforzi organizzativi.
5. I recenti interventi legislativi.
5.1. Generalità.
5.2. L'introduzione del “filtro in appello”: un passo nella giusta direzione?
5.3. Il processo del lavoro.
5.4. L'istituzione del tribunale delle imprese.
5.5. Le innovazioni in materia concorsuale ed esecutiva.
5.6. Le modifiche alla cd. legge Pinto.
VII - La giustizia minorile
1. L’Europa alza l’asticella nella protezione dei diritti fondamentali dei soggetti particolarmente “esposti”:
donne e bambini.
2. I diritti della “vittima” minorenne e la giustizia riparativa.
3. La Corte europea “sensore” dei diritti fondamentali del minore.
4. Una conquista di civiltà: l’unificazione dello status filiationis.
5. Una priorità: la definizione legislativa di disposizioni specifiche in materia di esecuzione dei
provvedimenti giudiziari che riguardano i minori.
VIII - La Corte di cassazione
1. Il ruolo della Cassazione: tradizione e mutamenti.
2. Le Corti supreme degli altri Paesi.
2.1. La Cour de cassation francese.
2.2. La Cour de cassation belga.
2.3. Il Bundesgerichtshof tedesco.
2.4. Il Tribunal supremo spagnolo.
3. La situazione dell’organico dei magistrati e del personale amministrativo.
4. La Cassazione penale.
4.1. Analisi generale dei dati statistici.
4.2. La Settima sezione.
4.3. Indici territoriali di provenienza geografica dei ricorsi.
4.4. Procedimenti definiti per tipologia dei reati.
4.5. Valutazioni e prospettive di riforma.
5. La Cassazione civile
5.1.I dati statistici.
5.2. L’arretrato.
5.3. La recente modifica dei motivi deducibili con il ricorso per cassazione.
5.4. Il ruolo essenziale della Sesta sezione.
6. L’attività di formazione in Cassazione.
7. Il Centro di elaborazione dati.
7.1. Riorganizzazione del CED.
7.2. L’informatica giudiziaria.
7.3. L’informatica giuridica.
7.4. Il sito web della Corte di cassazione.
7.5. La nuova sala server.
IX - Conclusioni
Appendice
Rassegna di giurisprudenza penale e civile - Dati statistici - Provvedimenti organizzativi
1) Rassegna della giurisprudenza della cassazione penale.
2) Rassegna della giurisprudenza della cassazione civile.
3) Ministero della giustizia – Direzione generale di statistica – Dati statistici nazionali
periodo (1.7.2011 – 30.6.2012).
A. Settore penale.
B. Settore civile.
4) Dati dell’Ufficio di statistica della Corte di cassazione (1.l.2012 – 31.12.2012)
a) Rapporto statistico del settore penale.
b) Indici territoriali dei ricorsi penali per cassazione.
c) Rapporto statistico del settore civile.
d) Indici territoriali dei ricorsi civili per cassazione
5) Documenti sull’attività organizzativa della Corte di cassazione.
a) Modifica della ripartizione delle materie di competenza
della Prima, Seconda e Terza civile.
b) Modifica del decreto 23 dicembre 2011 di determinazione dell’organico
delle sezioni civili Prima, Seconda e Terza.
c) Progetto di programma per la gestione dei procedimenti civili nell’anno 2013
(art. 37 d.l. n. 98/2011).
d) Disposizioni per il coordinamento dell’esame preliminare dei ricorsi penali (testo unificato).
e) Variazione tabellare per l’organizzazione delle Sezioni unite civili e penali.
f) Schema di riordino delle disposizioni concernenti l’organizzazione della Corte di cassazione
(inviato al Consiglio direttivo per il parere).



1. L’impegno dei giudici per la costruzione di un sistema europeo


Signor Presidente della Repubblica,
a nome di tutti i presenti, Le rivolgo un deferente saluto e Le esprimo la gratitudine per l’attenzione, il rigore, lo scrupolo con cui Ella ha sempre esercitato le Sue alte funzioni di Capo dello Stato anche nella delicata materia della giustizia, sovente oggetto di tensioni e contrapposizioni che il Suo intervento ha ricondotto nell’alveo della fisiologia costituzionale dello Stato di diritto.
Per il terzo anno ho l’occasione di illustrare la Relazione sull’amministrazione della giustizia. E’ l’ultima volta che mi toccano questo onore e questa responsabilità. A metà del prossimo mese di maggio lascerò la Presidenza della Corte insieme con la toga che ho
indossato per quasi cinquanta anni. Non per obbligo di protocollo, ma con spontaneosentimento voglio esprimere un affettuoso saluto e un sincero ringraziamento a tutti i magistrati e ad ogni componente del personale amministrativo e tecnico, la collaborazione e il contributo dei quali sono stati decisivi per i risultati che oggi l’Istituzione giudiziaria
presenta a Lei, Signor Presidente, e all’intero Paese.
1. Diritti e giurisdizione come fattori di coesione e di integrazione.
La Relazione che qui sintetizzo si collega strettamente alle due precedenti di cui costituisce coerente sviluppo.
Nel gennaio del 2011, ponemmo al centro dell’analisi la difesa del modello costituzionale e ordinamentale in materia di giustizia, allora oggetto di continui attacchi che ne volevano violentare gli assetti fondamentali delineati dal Costituente, i quali rappresentano, per originalità ed equilibrio istituzionale, un punto di riferimento per tanti Paesi che negli ultimi decenni hanno conquistato la democrazia e lo Stato costituzionale di diritto.
Contemporaneamente sottolineammo la perdurante assenza, nella cultura del legislatore, ma anche di parte dei giuristi e dei giudici, della categoria “tempo”, essenziale per una effettiva amministrazione della giustizia, che - quando arriva troppo tardi - il più delle volte si tramuta di per sé in ingiustizia. Questo deficit culturale, certamente assieme a cause strutturali, è fattore non secondario dell’irragionevole durata dei processi e delle ripetute condanne che il nostro Paese riporta dinanzi alla Corte europea dei diritti umani.
Un tema questo, strettamente intrecciato con l’indispensabile recupero di efficienza della nostra struttura giudiziaria, che componenti significative del mondo politico hanno del tutto trascurato e sacrificato all’obiettivo, talvolta persino dichiarato, di ridimensionare la valenza della giurisdizione come strumento di garanzia ed effettività dei diritti dei cittadini e di rigoroso controllo di legalità, a cominciare dalla verifica della liceità penale dell’esercizio dei poteri legali o di fatto.
Attenuatisi i toni di pregiudiziale contrapposizione verso l’indipendenza e
l’autonomia della magistratura, nel gennaio dell’anno scorso - in un contesto meno
conflittuale ma di accresciute e grandi difficoltà economiche - ci soffermammo sulla necessità, da un lato, di meglio distribuire sul territorio le strutture giudiziarie e di azionare la leva della riorganizzazione delle risorse (personali, materiali e normative), per un recupero di efficienza, di efficacia e di economicità di tutto il sistema giudiziario; dall’altro lato, di una piena accettazione della dimensione europea, anche come fattore di legittimazione verso le istituzioni comunitarie della macchina giudiziaria italiana.
Oggi, alla vigilia delle elezioni politiche - passaggio sempre importante e delicato nella vita democratica di un Paese, ma questa volta anche oggetto di straordinaria attenzione di tutte le istituzioni e di tutti i Paesi dell’Unione europea - avremo cura di evitare affermazioni e valutazioni che possano essere, sia pure strumentalmente, utilizzate per collocare la Relazione sull’amministrazione della giustizia nella contrapposizione politica, anche se è francamente impossibile omettere valutazioni sulla mancanza di iniziative in materia di carcerazione, che ha prodotto la recentissima ulteriore condanna del nostro Paese da parte della Corte di Strasburgo e che, sul piano dell’immagine internazionale, vale decine e decine di punti di spread.
Ritorneremo in seguito sul tema penitenziario, ma vogliamo subito evidenziare che, nonostante le reiterate e angosciate sollecitazioni del Presidente della Repubblica e malgrado tante dichiarazioni di principio, molti fattori (le inerzie di taluni, i silenzi di altri, il
fine di non ricevere di molti) hanno prodotto come risultato un “blocco di sistema”, a cui va urgentemente posto rimedio, non potendosi più tollerare l’attuale situazione, sia per ragioni di elementare civiltà giuridica, sia per la pesante messa in mora intimataci dalla Corte europea dei diritti umani.
Al di là di questo specifico rilievo, ci pare doveroso, Signor Presidente, condividendo le parole e lo spirito del Suo messaggio di fine anno, ribadire che la giustizia è una di quelle “tematiche cruciali” sulle quali “saranno necessari nel nuovo Parlamento sforzi convergenti, contributi responsabili alla ricerca di intese, come in tutti i paesi democratici quando si tratti di
ridefinire regole e assetti istituzionali”.
Del resto, è quello che fecero i nostri Padri costituenti che - pur dopo la rottura del maggio 1947 tra le forze politiche che avevano dato vita ai primi governi di coalizione dopo la sconfitta del fascismo - riuscirono, confrontandosi con passione politica, tensione etica e attenzione alle ragioni degli altri, a condividere il Titolo IV della Carta costituzionale, che ha posto le basi per il rinnovamento ideale, morale e culturale della magistratura italiana.
Al centro dell’odierna riflessione - con la sobrietà e la serietà che si addicono a questa solenne cerimonia, tanto più in un periodo carico di tensione elettorale - vogliamo porre il ruolo e l’impegno delle giurisdizioni e dei giudici per la costruzione di un effettivo sistema europeo. E ciò in sintonia sia con la costatazione di “un continente interconnesso come non mai, dall’economia al diritto”, sia con la costante sollecitazione del Presidente della Repubblica a intraprendere “una vera e propria controffensiva europeista”, operando per “un’integrazione sempre più stretta e comprensiva tra gli Stati unitisi prima nella Comunità e poi nell’Unione” verso “un futuro di integrazione e democrazia federale, che è condizione per contare ancora,
tutti insieme, nel mondo che è cambiato e che cambia”.
Anche sul piano giuridico e giudiziario, oltre che su quello economico e politico, èquesta la sfida con cui il nostro Paese deve misurarsi e di cui gli operatori giudiziari, magistrati e avvocati, devono diventare protagonisti.
Si tratta di un cimento difficile ma affascinante, che ricorda molto quello che impegnò tutte le forze vive della società quando, quasi mezzo secolo fa, a metà degli anni ’60, entrai in magistratura.
Il riferimento agli anni ‘60 evoca immediatamente una grande stagione di impegno giuridico e giudiziario per l’inveramento della Costituzione, intesa come norma cogente e vincolante per tutte le istituzioni e come solenne promessa rivolta ai cittadini e alle future generazioni di un’età di giustizia e di diritti (Piero Calamandrei). Era l’impegno per rendere effettivi i diritti che la Costituzione repubblicana aveva solennemente proclamato, in piena sintonia con la quasi coeva Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, entrambe espressione della liberazione del mondo dalla barbarie dei regimi autoritari e dittatoriali della prima metà del novecento.
L’età dei diritti, su cui ha scritto pagine indimenticabili Norberto Bobbio, fu aperta dal costituzionalismo della metà del Novecento, che costituì l’alimento di tante innovazioni giuridiche e ordinamentali, del rinnovamento che caratterizzò la cultura giuridica ed accademica degli anni ‘60, dell’espansione e del rilancio del ruolo delle giurisdizioni e delle magistrature, chiamate a rendere quei diritti giustiziabili e, quindi, effettivi.
Furono gli anni dello “scongelamento” costituzionale e della successiva progressivacostruzione e attuazione dell’architettura istituzionale prevista dalla Costituzione, in cui le migliori energie intellettuali si misero all’opera per un grande lavoro di rinnovamento culturale, morale, giuridico e istituzionale della Repubblica.
Si determinò allora un vero e proprio cambio di paradigma giuridico nel rapporto tra Costituzione, legislazione ordinaria e giurisdizione, di cui presero piena consapevolezza giuristi e giudici, come effetto determinato dallo Stato costituzionale di diritto e dei diritti.
Cominciò a diventare palese che la Costituzione, con la proclamazione dei diritti fondamentali, aveva irreversibilmente introdotto limiti, vincoli e indirizzi alla libertà del legislatore.
Negli stessi anni, correlativamente, si delineò il nuovo ruolo della giurisdizione come strumento che concorre all’attuazione della Costituzione, nei limiti del tecnicamente possibile, agendo cioè negli ambiti e con gli strumenti suoi propri, senza per questo invadere funzioni e compiti delle istituzioni politiche di rappresentanza.
Il ruolo della giurisdizione (nel complessivo circuito giudice ordinario/giudice costituzionale) mutò definitivamente di segno e di qualità con l’entrata in vigore della Costituzione rigida, che delimitò la discrezionalità del legislatore ordinario, precedentemente illimitata.
A Gardone, nel 1965, il congresso dei magistrati italiani approvò all’unanimità una mozione che, dopo aver preso le distanze dalla “concezione che pretende di ridurre l'interpretazione ad un'attività puramente formalistica, indifferente al contenuto ed all'incidenza concreta della norma nella vita del paese”, sottolineò che “il giudice, all'opposto, deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un'applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali
volute dalla Costituzione”
Per usare un’espressione venuta in auge successivamente, già in quegli anni i magistrati italiani affermarono la doverosità dell’interpretazione costituzionalmente orientata.
Oggi, mutatis mutandis, siamo di fronte ad una situazione per molti versi analoga.
Ai limiti, ai vincoli, agli indirizzi che al legislatore derivano dalla Costituzione della Repubblica, si aggiungono quelli prodotti dall’integrazione dell’ordinamento italiano nell’Unione europea e nel sistema del Consiglio d’Europa, fondato sulla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Non soltanto, dunque, limiti, vincoli, indirizzi e direttive alla libertà della politica, ma anche alla sovranità dello Stato.
Nasce anche da qui la crescente complessità dei rapporti tra politica e giustizia, tra legislazione e giurisdizione. Nel ricercare un delicato ma indispensabile equilibrio, anche esplorando nuove vie di composizione dei contrasti, fuori da polemiche e contrapposizioni pregiudiziali, non si può prescindere da queste considerazioni, che fotografano ciò che è comune a tutti gli ordinamenti dell’Unione europea.
Si tratta di una ricerca ancor più complicata e di livello più alto rispetto al passato, giacché il circuito giurisdizionale è divenuto più complesso, come analizzeremo in seguito, e vede accanto al giudice ordinario non soltanto la Corte costituzionale, ma anche la Corte di giustizia e la Corte europea dei diritti umani, con i condizionamenti che da esse derivano e con il “valore aggiunto” da esse apportato agli atti del giudice ordinario.
I vincoli alla libera discrezionalità della politica escono potenziati e rafforzata risulta l’oggettiva valenza dell’atto giurisdizionale, al punto che l’azione coordinata tra giudice nazionale e Corte di giustizia, da un lato, e tra giudice nazionale e Corte europea dei diritti umani, dall’altro, ha la forza di annullare l’atto legislativo non rispettoso dell’ordinamento dell’Unione o di sanzionare lo Stato per l’intollerabile situazione carceraria che viola l’art. 3 Cedu.
Come avvenne cinquanta anni fa per la diffusione dell’orientamento costituzionale nell’interpretazione dell’intero ordinamento, conferendo portata precettiva a tutte le norme costituzionali, oggi i giuristi e, particolarmente, i giudici sono chiamati a confrontarsi con l’Unione europea e con la sua Carta dei diritti fondamentali: è necessario e doveroso operare - ovviamente nel rigoroso ambito di possibile applicazione - per accrescere la consapevolezza del ruolo essenziale della giurisdizione come fattore di coesione e d’integrazione giuridica e giudiziaria.
Non sembri paradossale quest’appello all’impegno attivo dei giudici in un contesto in cui troppo spesso si mette in discussione la legittimazione degli organismi giurisdizionali, anche di livello costituzionale, con infondate e pretestuose accuse di politicizzazione,
funzionali a eludere i problemi di merito delle decisioni legittimamente assunte.
Accade non soltanto in Italia, ma purtroppo da noi più che altrove, che si stenti a cogliere che un ruolo tanto incisivo del potere giurisdizionale (ordinario, costituzionale, comunitario, convenzionale) - il quale, in materia di diritti fondamentali della persona, può anche mettere nel nulla un atto legislativo approvato dalla maggioranza politica - è il portato dello Stato costituzionale, che affida a organismi giurisdizionali indipendenti e autonomi il controllo sulla costituzionalità delle leggi, il potere di interpretarle e di “dire il diritto” vivente e vigente, risolvendo anche conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, che, nella poliarchia e nel policentrismo del nostro ordinamento, devono essere intesi come appartenenti di pieno diritto alla fisiologia istituzionale, costituendo un modo normale e positivo per evitare contrapposizioni e attriti.
2. Una rafforzata dimensione dei doveri e delle responsabilità.
L’incisivo potere sopra descritto chiama in causa ed implica come indispensabile una salda coscienza del ruolo costituzionale della giurisdizione, la conoscenza dei vari ordinamenti e delle interconnessioni tra essi, la capacità tecnica e la professionalità, il rigore
nel rispetto delle competenze e dei diversi ambiti operativi.
Come ci ricordava Adolfo Beria d’Argentine, riflettendo su magistrati e potere, “questo è problema dei magistrati perché il nostro è … un mestiere solitario; perché facciamo parte di uno dei grandi poteri storici dello Stato moderno e sappiamo quindi di dovere gestire un’istituzione potente … in una
società di policentrismo quasi conflittuale dei rapporti di potere”.
Appare illusoria ogni antistorica velleità di ritorno a tempi pre-costituzionali nel rapporto tra giurisdizione e legislazione.
Nel mondo globalizzato, dominato da poteri economici e finanziari anche trasnazionali, nel quale la mancanza di regole è anche l’effetto della debolezza della politica, sempre più spesso si profilano situazioni di anomia o d’incapacità e inadeguatezza della dimensione statuale. In tali situazioni l’effettività della tutela dei diritti proclamati dalle Costituzioni e dalle Carte è in larga parte affidata ai tribunali e alle corti che, nella soluzione dei casi concreti sottoposti al loro esame, finiscono per realizzare una prospettiva unificante di tutela multilivello dei diritti, in cui la soluzione giurisprudenziale data da una Corte si propaga nelle altre Corti e negli altri Paesi, in un dialogo virtuoso che, progressivamente, realizza una globalizzazione dei diritti, potenzialmente idonea a convivere, correggendola e integrandola, con quella dei mercati e della finanza.
Proprio tale compito, svolto per di più nell’odierna società frammentata e polarizzata, lacerata da difficoltà economiche e percorsa da inquietudini, paure e diffidenze crescenti, impone come orizzonte generale dell’attività giudiziaria una rafforzata dimensione dei doveri.
Una dimensione che certamente coinvolge tutti i cittadini, nell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.), nella fedeltà alla Repubblica e nell’osservanza della Costituzione e delle leggi (art. 54, primo comma, Cost.), ma che riguarda
innanzitutto e soprattutto i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche, che hanno il dovere di
adempierle con disciplina ed onore (art. 54, secondo comma, Cost.).
Ovviamente non si vuole affermare che i titolari di funzioni pubbliche non abbiano diritti, ma porre in evidenza che in un ordinamento come il nostro, ciò che viene in primo piano è che ai diritti fondamentali delle persone, soprattutto delle più vulnerabili (a cominciare da minori, immigrati, carcerati …), corrispondono obblighi dei poteri legali e delle istituzioni e, sul piano soggettivo, doveri di chi quei poteri rappresenta e in quelle istituzioni opera ed esercita essenziali funzioni.
Da qui l’esigenza per chi ha responsabilità di funzioni pubbliche:
a) di tenere il linguaggio della verità e l’aderenza ai fatti, nonostante l’enorme difficoltà derivante dalle distorsioni e dalle suggestioni mass-mediatiche;
b) di rimboccarsi le maniche per affrontare i problemi, facendo ognuno la propria parte, senza invocare ad alibi l’inerzia degli altri;
c) di osservare un rigoroso rispetto dell’ambito e delle competenze delle funzioni pubbliche assegnate.
Una dimensione, quella dei doveri, particolarmente cogente per chi ha il compito di amministrare giustizia, ossia di far rispettare la legalità e di tutelare l’effettività dei diritti dei cittadini, cioè di rendere concrete le promesse costituzionali, tra cui fondamentale è il diritto alla giustizia, quale diritto ai propri diritti.
La dimensione del dovere è, infatti, tanto più essenziale quanto più rilevanti sono le funzioni pubbliche esercitate e più intenso il potere connesso a tali funzioni.
Per fugare equivoci, questo non vuol essere un generico richiamo alla morale da parte di un anziano magistrato, bensì un appello all’etica della professione, alla weberiana etica della responsabilità, sollecitando la costante e vigile attenzione di tutti i magistrati alle
conseguenze del proprio agire professionale e anche privato, quando può derivarne una ricaduta pubblica, verso le singole persone che pongono domande di giustizia e verso l’intera società che nei giudici deve poter nutrire piena fiducia.
Costituisce elemento di forte speranza e di grande apprezzamento che il tema dei doveri e delle responsabilità sia un argomento di costante interesse della nuova rivista della Scuola superiore dell’avvocatura sin dal suo numero di esordio (gennaio 2012), a riprova
della centralità della dimensione deontologica per professioni che hanno un ruolo incisivo nella vita delle persone e della collettività.
L’etica della responsabilità è certo esigente, ma non è impossibile: richiede elevata qualificazione e competenza professionale, ricerca paziente e approfondimento serio di ogni questione, razionalità e ragionevolezza, costume di sobrietà e di rigore personale e professionale, scrupoloso rispetto delle competenze, tensione verso la ricerca della verità nella rigorosa osservanza delle regole, massima attenzione alle ragioni degli altri, a cominciare dai più deboli, che soltanto nella giustizia possono confidare.
Sono le qualità che qualche mese fa elencammo come proprie di un nostro amico e collega, Loris D’Ambrosio, uomo delle istituzioni la cui perdita avvertiamo come incolmabile mancanza e ancora sentiamo con grande sofferenza, una figura di magistrato
che vogliamo qui ricordare e indicare ai tanti giovani che hanno fatto ingresso recente in magistratura, additando quelle sue caratteristiche personali come connotati del magistrato ideale.
Su tale modello e sulla nuova dimensione dei doveri sarà nuovamente chiamato a riflettere l’associazionismo giudiziario, quando, in accoglimento della sollecitazione recentemente rivoltagli dal legislatore alla luce di una ricognizione del dover essere del giudice, come emerge dai valori condivisi dal corpo
sociale dei magistrati, raffrontati alle rinnovate tensioni e alle più acuite percezioni diffuse nell’attuale società italiana, per molti aspetti diversa da quella di qualche decennio fa.
Occorrerà inevitabilmente confrontarsi con le più allertate sensibilità collettive, in tema di imparzialità o in materia di partecipazione dei magistrati alla vita politicoparlamentare, verso comportamenti, prese di posizioni, scelte individuali, pur formalmente
legittimi, che hanno ricadute pubbliche che rischiano di coinvolgere la stessa credibilità della giurisdizione.
E’ auspicabile che in tale occasione, nella perdurante carenza della legge, sia introdotta attraverso il codice etico quella disciplina più rigorosa, da tante parti auspicata, sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare, nonostante l’evidente necessità d’impedire almeno candidature nei luoghi in cui è stata esercitata l’attività giudiziaria e di inibire il rientro, a cessazione del
mandato parlamentare, nel luogo in cui si è stati eletti.


2. Giurisprudenza nazionale e giudici europei nel 2012
2.1. L’Europa all’epoca della crisi.
L'anno che si è appena chiuso è stato uno dei più difficili e controversi per ciò che concerne lo sviluppo dei rapporti tra Istituzioni europee nel loro complesso e Stati nazionali.
Indubbiamente la grave crisi economica e finanziaria che colpisce l’Europa ormai da quasi cinque anni ha avuto una forte influenza sull'opinione pubblica, che con difficoltà riesce a percepire l'insieme delle istituzioni europee come motori di diritto, giustizia e prosperità.
Mentre si fa più concreto il passaggio dall'Europa dei mercati all'Europa dei diritti, l’Unione appare ancora a molti un’entità sovranazionale poco democratica, erogatrice di sacrifici, in stretta connessione alla sua debolezza politica.
Come è stato autorevolmente osservato11
, uno dei pochissimi vantaggi dell’attuale
crisi è nell’avere finalmente condotto il dibattito sull’Europa su un terreno di realtà e concretezza, al di là di “eurofondamentalismi” ed “euroscetticismi”, talché oggi si può affrontare un discorso sull’integrazione europea sotto un profilo più realistico.
Come si è già evidenziato, la crescente internazionalizzazione dei rapporti sociali ed economici ha messo in crisi non solo il dominio della ordinaria legge statale sul diritto, ma anche il monopolio dello Stato nazionale sulla giurisdizione.
La “fisiologica inettitudine” degli ordinamenti giuridici nazionali a regolamentare in modo efficiente i rapporti transnazionali ha fatto sì che la disciplina tendesse a trasferirsi dal piano della legislazione statale ad istanze internazionali od astatuali.
Il più significativo passaggio degli ultimi anni in ambito europeo va individuato nella comprensione dell’ordine sovranazionale come sistema giuridico generale che pone limiti agli ordini statali, aumentando e non diminuendo le garanzie per coloro che ne fanno parte, la cui forza sta proprio nel carattere espansivo dei diritti sovrastatale pone vincoli a quelli nazionali anche sotto il profilo della democrazia,
richiedendo istituzioni più democratiche.
A livello europeo, un ruolo normativo particolare è stato assunto dalle istituzioni sopranazionali, con il riconoscimento agli organismi dell’Unione del potere di emanare norme dotate di efficacia diretta, atte a prevalere sulle norme nazionali: da quel momento, ponendo al centro di tutto la tutela dei diritti fondamentali, la compenetrazione fra ordinamenti di common law e civil law e fra ordinamenti nazionali e sovranazionali ha vissuto un crescendo inarrestabile.
Al contempo, l’estensione della giurisdizione della Corte di giustizia, fino a porre i diritti fondamentali al centro delle situazioni giuridiche soggettive di cui garantisce l’osservanza, e il convergere nella stessa direzione della Convenzione europea dei diritti umani e delle Costituzioni nazionali, hanno imposto una cooperazione inizialmente inimmaginabile.
La partecipazione italiana al processo di integrazione che ne è conseguito è da decenni una strada largamente condivisa, pur non essendosi sviluppata secondo un percorso lineare. Nel corso degli anni si è passati dalle Comunità originarie ad un’Unione molto complessa, non solo dal punto di vista delle strutture, ma anche sul piano dei suoi processi istituzionali e delle sue competenze, secondo un percorso cui il nostro apparato statale ha cercato con molta fatica di adeguarsi.
Con il trascorrere del tempo, tuttavia, le difficoltà sono andate riducendosi, soprattutto per effetto degli straordinari sviluppi del processo di integrazione: “come un fiume carsico che correva al di sotto dei clamori mediatici, quel processo è andato avanti con una progressione lenta ma costante, ed ha via via indebolito le resistenze degli organismi nazionali”
Già con l’introduzione nella Costituzione dell’art. 11 fu avviato l’impegno delle norme nazionali a consentire la “penetrazione” del diritto “superiore” in quello domestico (da cui discende il consenso delle norme interne all'apertura verso il diritto internazionale) per poi volgere verso un nuovo concetto di tutela uniforme più strettamente europeo, fondato sulla reciprocità come un principio guida tra l'Unione europea e i suoi Stati membri. Il controllo nell'applicazione di tale principio è compito della Corte di giustizia ma è, prima di tutto, compito del giudice interno, anche in sede di nomofilachia.
Nella fase successiva, è stato merito della Consulta assicurare un’efficace ed equilibrata soluzione dei problemi posti dai difficili meccanismi di integrazione, in assenza di una chiara soluzione nella Carta costituzionale ai quesiti ad essa connessi, non risolti e, se possibile, resi ancora più complessi con l’introduzione del nuovo art. 117 Cost.; senza tale norma, tuttavia, non si sarebbero avute le note pronunzie nn. 348 e 349 del 2007–nonché le altre dello stesso segno che le hanno seguite – con la conseguente apertura di un nuovo corso nei rapporti fra ordinamento interno e ordinamento sovranazionale.
Il primato del diritto europeo, riconosciuto dalla nostra Corte a partire dalla sentenza Granital, ha ormai assunto una dimensione nuova che rifugge i tradizionali criteri di soluzione delle antinomie (cronologico, gerarchico, di specialità, di competenza), la cui tendenziale insufficienza (in particolare, l’inidoneità del criterio gerarchico con riferimento ai rapporti fra ordinamento interno e ordinamenti sovranazionali) impone un diverso approccio che orienti l’interprete verso la struttura “reticolare”, che richiede una intensa cooperazione fra i protagonisti dell’ordinamento interno e quelli dell’ordinamento europeo.
2.2. L’integrazione europea nel 2012.
Anche nel 2012 la strada dell’integrazione europea non è stata piana per l’Italia;
come e più che in altri anni sono emerse spinte contrapposte e dati dissonanti: è stato l’anno in cui il maggior numero di condanne per procedure di infrazione è stato conseguito dal nostro Paese, ma è stato anche un anno al cui epilogo è stata adottata la legge n. 234 del 2012 (entrata in vigore la settimana scorsa) che introduce la nuova disciplina.
Questa paradossale contraddizione trova, ancora una volta, un punto di equilibrio e di sutura, come si vedrà, nell’attività giurisdizionale, alla luce del principio secondo cui il grado di maggiore o minore apertura di un ordinamento a valori affermati sul piano internazionale, dipende non tanto dalla sua struttura formale, quanto dalla consapevolezza dell’interprete, che sempre più assume il ruolo di protagonista del divenire e del progresso del diritto, anche e soprattutto nella dimensione sovranazionale.
La globalizzazione spaventa, ma è ormai diffusa l’idea che l’ordine globale rafforzi libertà e democrazia. E’ questo il grande salto cui si è assistito negli ultimi anni e a cui ha contribuito in modo determinante l’opera dei giudici di merito e di legittimità. Tale processo si è intensificato ed è stato reso più incisivo quando si è riconosciuta forza giuridica vincolante alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione: con la cd. comunitarizzazione del terzo pilastro si è fatto il resto.
Di tale percorso è nuovamente protagonista l’interprete, così come lo fu dopo l’avvento della Costituzione repubblicana.
La comparazione giuridica, indispensabile perché i confini europei sono mobili e i cittadini si spostano portandosi dietro le peculiarità dei loro ordinamenti, è solo uno degli aspetti di questo allargamento di prospettive, perché “i giudici affondano le radici delle loro decisioni in una pluralità di ordinamenti tra loro permeabili”al punto che si discute della rilevanza costituzionale delle decisioni di giudici stranieri e della migrazione delle idee costituzionali.Quello che viene ormai quasi tralatiziamente definito “dialogo” tra le Corti costituzionali e supreme nazionali, la Corte europea dei diritti umani e la Corte di giustizia,rappresenta, in realtà, l’architrave della nuova dimensione interordinamentale che, come dimostra la più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, sposta l’ottica da un piano di cooperazione lato sensu fra ordinamenti verso la costruzione di un vero e proprio ordinamento integrato: la tutela effettiva dei diritti fondamentali ne rappresenta oggi il minimo comun denominatore.
Dell’imprescindibilità di una siffatta cooperazione dà atto in modo significativo la Corte di giustizia, non solo con le proprie decisioni, che individuano sempre il giudice nazionale come organo di base dello spazio giudiziario europeo20, ma anche con strumenti di immediata e diretta utilità pratica per l’interprete, quali la recente raccomandazione C338/1 del 6 novembre 2011, mediante la quale si fornisce una guida sicura al giudice
nazionale sul rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE, quale meccanismo fondamentale del diritto dell’Unione europea, che ha per scopo quello di assicurare un’interpretazione e un’applicazione uniformi di tale diritto.
Il peculiare rilievo di provvedimenti di tale natura si evince in modo chiarissimo solo che si consideri che, quando applicano il diritto dell’Unione, i giudici nazionali agiscono come una sorta di “organi decentrati”
21 della giurisdizione comunitaria, concorrendo con essa a garantire l’osservanza di detto diritto e consentendo di assicurare un controllo diffuso sul rispetto dello stesso e, quindi, di rafforzare complessivamente l’efficacia del sistema.
L’aver valorizzato tale ruolo del giudice nazionale, sia a livello di merito sia in sede di nomofilachia, incentivando da un lato il ricorso allo strumento del rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE, dall’altro quello all’interpretazione conforme, è uno dei più significativi meriti della Corte di giustizia.
A tale cooperazione partecipano oggi attivamente sia la Corte costituzionale sia, come si vedrà meglio in prosieguo, la Corte di cassazione con un atteggiamento di significativa impronta integrazionista.
Prendendo le mosse da uno degli aspetti più difficili del rapporto fra lo Stato italiano e il sistema giuridico dell’Unione di cui fa parte, e prima di affrontare con sguardo comparatistico la difficile questione dei tempi della giustizia, va ricordato, pur sommariamente, il contenuto della relazione della Commissione del 30 novembre 2012, n. 714, avente ad oggetto l’applicazione del diritto dell’Unione europea.
Se gli Stati membri sono responsabili della corretta applicazione dell'acquis communautaire e sono tenuti a recepire le direttive in maniera puntuale, è compito della Commissione monitorare gli sforzi degli Stati membri in tal senso e garantire la conformità al diritto dell'UE, anche ricorrendo a procedure giuridiche formali.
Proprio allo scopo di consentire una efficace integrazione, prima di avviare procedure d'infrazione formali, la Commissione opera in partenariato con gli Stati membri per cercare di risolvere problemi e denunce di cittadini, imprese ed altri soggetti interessati in merito all'applicazione del diritto dell'UE.
Ebbene, secondo la relazione, i procedimenti di infrazione intrapresi nei confronti dell’Italia nello scorso anno mediante rinvio della controversia alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 258 TFUE, sono ben 136, e segnano l’assoluto primato dello Stato italiano rispetto a tutti gli altri Stati membri dell’Unione europea.
Quasi a compensare questo intollerabile primato negativo, il 24 dicembre scorso è finalmente intervenuta la legge n. 234/2012, entrata in vigore il 19 gennaio scorso, che reca "Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea".
Questo testo legislativo sostituisce integralmente la legge 4 febbraio 2005, n. 11, e introduce una riforma organica delle norme che regolano la partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa europea, soprattutto alla luce delle modifiche nel frattempo intervenute nell'assetto dell'Unione europea a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
La normativa introduce nuovi ed articolati obblighi di informazione del Governo alle Camere, nonché l'obbligo del Governo di assicurare la coerenza delle posizioni assunte in sede europea con gli atti di indirizzo delle Camere e la precisazione dei presupposti per l'attivazione della riserva di esame parlamentare, allo scopo di consolidare il raccordo tra Parlamento e Governo nella definizione dell’atteggiamento dell’Italia nei processi decisionali dell’UE.
Essa, inoltre, sancisce una più efficace applicazione delle prerogative attribuite alle Camere dal Trattato di Lisbona mediante il richiamo dei poteri delle stesse sul rispetto del principio di sussidiarietà. Si provvede, poi, a modificare, rendendole più consone ai mutati assetti interordinamentali, le disposizioni relative agli organismi deputati al coordinamento della partecipazione dell'Italia al processo normativo europeo e in particolare al Comitato interministeriale per gli affari europei.
Con la nuova legge si opera una integrale riorganizzazione del processo di recepimento della normativa europea, mediante lo sdoppiamento della cd. legge comunitaria in due distinti provvedimenti: la legge di delegazione europea, il cui contenuto sarà limitato alle disposizioni di delega necessarie per il recepimento delle direttive comunitarie, e la legge europea che, più in generale, conterrà disposizioni volte a garantire l'adeguamento dell'ordinamento interno all'ordinamento europeo.
Si ridefinisce, con una nuova disciplina dei ricorsi alla Corte di giustizia e del diritto di rivalsa dello Stato nei confronti delle regioni e degli altri enti pubblici responsabili di violazioni, tutta la materia del contenzioso, sistematizzandosi organicamente la materia degli aiuti di Stato, che aveva in diverse e significative circostanze (si pensi soltanto alla vicenda Traghetti del Mediterraneo) occupato i Giudici di Lussemburgo, mediante la precisazione delle condizioni in base alle quali è ammessa la concessione di aiuti pubblici per calamità naturali, con il divieto di concessione di sostegno alle imprese che hanno beneficiato di aiuti giudicati illegali e che non sono stati rimborsati, nonché con la riserva della giurisdizione al giudice amministrativo sull'esecuzione.
Si procede, infine, all'istituzione in ciascun ministero dei nuclei di valutazione degli atti dell'Unione europea, deputati a coordinare, all'interno di ciascuna amministrazione, la politica europea, la riforma della figura degli esperti nazionali distaccati, nonché il potenziamento della partecipazione delle regioni, delle province autonome e delle autonomie locali al processo di formazione degli atti dell'UE.
L’art. 1, nel definire le finalità della legge, ne descrive l’importante raggio d’azione comunitario, affermando che essa disciplina il processo di partecipazione dell'Italia alla formazione delle decisioni e alla predisposizione degli atti dell'Unione europea e garantisce l'adempimento degli obblighi e l'esercizio dei poteri derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione, in coerenza con gli artt. 11 e 117 della Costituzione, sulla base dei princìpi di attribuzione, di sussidiarietà, di proporzionalità, di leale collaborazione, di efficienza, di trasparenza e di partecipazione democratica, così garantendo, oltre all'adempimento degli obblighi, l'esercizio dei poteri derivanti dall'appartenenza all'UE.
2.3. La giurisprudenza costituzionale e di legittimità.
Il richiamo agli artt. 11 e 117 Cost. (quest’ultimo come novellato dall’art. 3 l. cost. ottobre 2001, n. 3), quale fulcro dei rapporti fra ordinamento interno ed ordinamenti sovranazionali, induce ad accennare alle ultime tappe dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di cassazione dopo che la prima, con le pronunzie nn. 348 e 349 del 200722
, ha ritenuto che con l’art. 117 si è realizzato un “rinvio mobile” alle norme convenzionali recanti obblighi internazionali.
Con tali pronunzie e con le successive dello stesso segno, la Consulta ha affermato l’idoneità delle disposizioni della Convenzione europea dei diritti umani a valere come parametro interposto nel giudizio di costituzionalità, talché gli eventuali contrasti con la normativa interna daranno luogo non a problemi di successione di leggi nel tempo, bensì a questioni di legittimità costituzionale.
Il giudice comune, conseguentemente, sarà tenuto ad interpretare la norma interna in modo conforme alle disposizioni internazionali, e, qualora tale strada non sia percorribile, non potrà che sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117 Cost., in quanto le norme della Cedu integrano tale parametro, non essendogli consentito disapplicare la norma interna contrastante.
Tali decisioni, come è noto, hanno trovato conferma in tutta la giurisprudenza successiva della Corte.
Da ultimo la Consulta, nella recentissima pronunzia n. 264 del 28 novembre 2012, nell’orientare l’interprete verso il bilanciamento fra situazioni giuridiche soggettive, ha operato un significativo riferimento ad una visione sistemica della tutela dei diritti che va oltre il concetto di integrazione tra ordinamenti che ha finora dominato la scena e che, come si vedrà, era già stata fatta propria nell’ultimo anno dalla giurisprudenza della Corte di cassazione.
L’originaria apertura della Corte costituzionale al diritto europeo di matrice comunitaria aveva trovato un significativo limite nella nota riserva dei cd. “controlimiti”, ovvero nell’idea che l’ordinamento nazionale riconosce e rispetta le limitazioni di sovranità imposte dal diritto dell’Unione soltanto qualora esse non tocchino i principi fondamentali dell’ordinamento interno e i diritti inviolabili della persona umana.
La tesi dottrinale che ha sostenuto tale impostazione pare potersi ritenere ormai superata (o almeno attenuata), soprattutto in quanto fondata su preoccupazioni non più attuali nell’odierno assetto interordinamentale nel quale la stessa Corte di Lussemburgo ha elevato i diritti fondamentali a principi generali dell’ordinamento dell’Unione, assicurandone una efficace e rigorosa tutela, ma anche perché è lo stesso sistema giuridico dell’Unione nel suo complesso ad offrire agli ordinamenti nazionali crescenti garanzie relativamente alla tutela dei principi e in generale dei valori costituzionali degli Stati membri.
L’art. 4 del Trattato di Lisbona (che già era contenuto in formulazione similare nell’art. F.1 del Trattato di Maastricht del 1992 e poi nei testi successivi, fino all’art. 5 del naufragato Trattato costituzionale) afferma che “L’Unione rispetta l’identità nazionale (degli Stati membri) insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali. Rispetta le funzioni essenziali dello Stato”.
Tale principio, già desumibile dal complessivo sistema dell’Unione, implica un significativo impegno delle istituzioni comunitarie nella garanzia delle esigenze fondamentali dei sistemi nazionali, confermando che quello dei controlimiti è un problema che investe in primo luogo l’Unione stessa.
Al contempo, l’art. 6, par. 1, TUE ha attribuito il rango di diritto primario dell’Unione alla Carta dei diritti fondamentali, facendo altresì specifico riferimento ai diritti garantiti dalla Cedu e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, che fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali.
Per tale via, il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali di livello internazionale è confluito nel circuito dei sistemi di garanzia comunitaria, nei limiti delle materie di appannaggio dell’Unione.
Questo stratificarsi di norme e di tutele dei diritti protetti è stato spesso ancorato al concetto di tutela “multilivello” dei diritti fondamentali.
La giurisprudenza di quest’ultimo anno della Corte di cassazione, percorrendo le strade dell’integrazione e dell’interconnessione dei diversi livelli di tutela dei diritti fondamentali, ha segnato un significativo avanzamento in sede nomofilattica dell’ottica multilivello, orientando definitivamente l’interprete verso una visione realmente sistemica della tutela dei diritti nell’ordinamento integrato.
4. Il “nuovo” dialogo fra le Corti.
Fino a diversi anni fa, di fronte al nuovo e crescente ordinamento interno, la vera battaglia era rendere effettiva la tutela dei diritti mediante il conferimento di valore precettivo alle norme della Costituzione.
Con l’ulteriore fase, quella che potremmo definire “comunitaria”, si è diffusa l’idea di un ordinamento sovranazionale che andava ad affiancarsi a quello interno, mentre, con quella successiva, recentissima, si riconosce l’ordinamento interno in quanto compatibile con quello dell’Unione. Tale fase è coincisa, in ambito Cedu, con la tendenza delle pronunzie di Strasburgo ad esprimere principi generali in grado di superare ed astrarre rispetto al caso concreto e di incidere in misura via via crescente sugli ordinamenti nazionali.
Con l’ulteriore espansione fisica dell’Unione e con l’accresciuta intensità giuridica di essa attraverso l’incremento della forza delle sentenze della Corte di giustizia e con la diversa incidenza della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, la visione deve ulteriormente cambiare in direzione di una sistematica generale degli ordinamenti.
Nel modello che si è sviluppato di recente, gli Stati sono subordinati anche a giudicinon statali. Di una Costituzione cosmopolitica mancano ancora i tratti, ma oggi c’è un Bill of rights europeo che, nel rapporto con gli ordinamenti interni, non ha più la sola forza della soft law, ma diventa cogente per ogni giudice.
Il cd. dialogo tra le Corti nazionali, europee ed internazionali, è il grande tema del diritto contemporaneo e va sempre più rappresentando l’humus dell’istaurazione di un ordine sistemico fondato sul diritto.
Il quadro sistematico generale, attraverso il dialogo fra le Corti, è andato componendosi nei termini di una “diversità sostenibile” che ha fatto da prologo a quella 19 compenetrazione che consente oggi di abbozzare – proprio attraverso tale sinergia fra le Corti – l’idea di un sistema giuridico globale.
La relazione fra le giurisdizioni, in questo sistema giuridico globale, è sempre più ispirata alla rete anziché alla piramide, a rapporti interattivi anziché a rapporti gerarchici, e, per quanto riguarda l’esperienza italiana, ha visto momenti di criticità essenzialmente nei rapporti fra Corte Edu e Corte costituzionale, mentre è stata assolutamente fruttuosa nei rapporti con la Corte di cassazione.
E’ su questo versante che la giurisprudenza della Corte di cassazione, che esercita il sindacato di legittimità e svolge la funzione di nomofilachia all’interno dell’ordinamento nazionale, soprattutto nell’ultimo anno, è andata molto oltre l’originaria impostazione che potremmo definire di “apertura controllata”, spingendosi sino alla costruzione di una visione realmente sistemica della tutela dei diritti interordinamentale .
L’affermazione concernente tale carattere dell’ordinamento, contenuta nella citata decisione della Corte costituzionale dell’8 novembre scorso, che, nel contesto della pronunzia, risulta di non immediata esplicazione, trova, nel concreto operare della Corte di cassazione, una dimostrazione estremamente significativa.
Da una lettura delle decisioni “interordinamentali” del giudice di legittimità, si evince infatti realmente una visione sistemica e, cioè, la considerazione dell’ordinamento nel suo complesso, quale frutto della sinergia fra norme (interne e sovranazionali) e Corti (interne e sovranazionali).
Tale nuova e più avanzata forma di dialogo rende sempre più valida l’idea di un gioco d’insieme non fondato sulla collaborazione tout court, ma sulla interazione tra Corti nazionali, Corte Edu e Corte di giustizia.
5. Due recenti questioni di costituzionalità in direzione di un sistema multilivello.
Proprio con riguardo alle sentenze della Corte e, in particolar modo con riferimento al sistema Cedu, recenti ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale evidenziano un mutato atteggiamento del Giudice di legittimità, che ha compiuto il grande passo verso la configurazione di quello che viene acutamente definito25 un sistema giuridico generale ed anche multilevel constitutionalism, nel quale il ruolo più significativo resta quello svolto dall’opera di
cucitura dei tribunali.
a) Esempio emblematico di tale impostazione sistemica della Corte di cassazione è l’ordinanza delle Sezioni unite n. 41694 del 18 ottobre 2012, Nicosia, che ha dichiarato non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 315, comma 3, in relazione all’art. 646, comma 1, cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 117, primo comma, e 11 Cost., che muove dalla decisione Cedu del 10 aprile 2012, caso Lorenzetti c. Italia, (n. 32075/09), sulla mancanza di udienza pubblica nell’ambito di un procedimento di riparazione per ingiusta detenzione.
Tale ordinanza evidenzia in modo chiaro ed esemplare il ruolo di protagonista assunto dalla Corte, nella ricerca della strada più idonea per ricondurre ad unità un sistema integrato estremamente complesso.
La singolare convergenza di strumenti normativi destinati ad ambiti diversi, dall’art. 6 Cedu all’art. 117 Cost., passando per l’art. 47 TFUE, è già di per sé sufficiente ad indicare in misura estremamente significativa il peculiare impegno della Corte in tale direzione, sottolineando, altresì, come anche sul piano delle fonti, soprattutto dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, molto sia cambiato, lasciando uno spazio minore alla temuta “supplenza”
26 dei giudici, ma non riducendo l’incisivo impatto interpretativo dell’attività giurisdizionale.
Lo stesso quesito posto alle Sezioni unite segnala l’atteggiamento della Corte, che ha interiorizzato, esaltandolo, l’insegnamento delle sentenze “gemelle”, portandolo, anche in sede nomofilattica, al suo acme: per il modo stesso in cui è stato formulato - sul se, a seguito della sentenza della Corte Edu nel caso Lorenzetti c. Italia, anche per la trattazione del procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione debba procedersi nelle forme dell’udienza pubblica anziché del rito camerale, e se, in caso positivo, l’avvenuta violazione dell’art. 6 Cedu comporti l’annullamento della decisione - chiarisce in modo evidente tale straordinaria evoluzione.
b) La medesima apertura si segnala nell’ordinanza n. 34472 del 19 aprile 2012, Ercolano, ove la Corte ha dichiarato non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 Cedu.
Il ricorso è stato assegnato alle Sezioni unite con decreto emesso ai sensi dell’art. 610, comma 2, del cod. proc. pen., in considerazione della speciale importanza delle questioni implicate.
Anche in tal caso, lo stesso quesito evidenzia in modo chiarissimo il nuovo corso della Corte che, non solo, come si vedrà di qui a poco, in ambito comunitario, ma anche nell’ambito internazionale di matrice Cedu, particolarmente rilevante in sede penale, cerca e trova la strada – in questo caso facendo ricorso al parametro interposto – per addivenire alla composizione del sistema alla luce della forza sub-costituzionale delle norme della Convenzione.
Si chiede, infatti, alle Sezioni unite di stabilire “Se il giudice dell’esecuzione, in attuazione dei principi dettati dalla Corte Edu con la sentenza 17/09/2009, Scoppola c. Italia, possa sostituire la pena dell’ergastolo, inflitta all’esito del giudizio abbreviato, con la pena di anni trenta di reclusione, in tal
modo modificando il giudicato con l’applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella
più favorevole”.
Il quesito, osservano le Sezioni unite, impone innanzitutto di stabilire la rilevanza che nell’ordinamento interno possono assumere, in deroga anche al giudicato, le violazioni, accertate dalla Corte di Strasburgo, della Convenzione europea dei diritti umani.
L’impegno delle Alte parti contraenti a conformarsi alle decisioni definitive della Corte Edu nelle quali esse sono parti ed il compito del Comitato dei Ministri di vigilare sull’esecuzione di tali sentenze vengono esaminati proprio attraverso la giurisprudenza di
Strasburgo e allo stesso modo si procede per ogni altro aspetto influente sulla decisione, in un “gioco d’insieme” che mai era stato così imponente, alla luce soprattutto del carattere della giurisprudenza Edu, originariamente finalizzata alla soluzione di controversie relative a casi concreti ma poi caratterizzatasi, nel tempo, “per una evoluzione improntata alla valorizzazione di una funzione paracostituzionale di tutela dell’interesse generale al rispetto del diritto oggettivo”.
Le Sezioni unite affermano, quindi, che le decisioni di Strasburgo che evidenzino una situazione di oggettivo contrasto - non correlata in via esclusiva al caso esaminato -della normativa interna sostanziale con la Cedu, assumono rilevanza anche nei processi diversi da quello nell'ambito del quale è intervenuta la pronunzia della predetta Corte internazionale.
Muovendo, poi, dal presupposto che il giudice, chiamato ad applicare una legge di interpretazione autentica, non può qualificarla come innovativa e circoscriverne temporalmente l'area operativa in contrasto con la sua ratio ispiratrice, ma deve piuttosto sollecitare il sindacato di legittimità costituzionale, le Sezioni unite hanno dichiarato d'ufficio rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 del d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito dalla l. 19 gennaio 2001, n. 4, in riferimento agli artt. 3 e 117, comma primo, Cost. - quest'ultimo in relazione all'art. 7 Cedu – “nella parte in cui le disposizioni interne operano retroattivamente, e, più specificamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della sola l. n. 479 del 1999, sono stati giudicati successivamente, quando cioè, a far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000 -pubblicazione della Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell'art. 2 r.d. n. 1252 del 7 giugno 1923 - era entrato in vigore il su citato d.l., con conseguente applicazione del più sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto dal medesimo decreto”.
La Corte a Sezioni unite ha, quindi, ritenuto impossibile un'interpretazione della normativa interna de qua in senso conforme all'art. 7 Cedu, nell'interpretazione che di tale norma è offerta dalla Corte di Strasburgo e perciò ha rimesso la questione alla Consulta.
Come è evidente, la “netta linea di demarcazione”, fondata sull’individuazione delle disposizioni Cedu come parametro interposto nel giudizio di costituzionalità è stata non solo recepita alla perfezione dalla Corte, ma, anzi, incisivamente valorizzata, proprio nell’ottica della realizzazione di un “sistema giuridico generale”
di un sistema stratificato di tutele, nel quale deve relazionarsi con le altre Corti: con la Corte costituzionale, che opera il controllo di costituzionalità e, all’uopo, è chiamata ad interpretare il diritto interno, talora adottando decisioni interpretative che implicano una ulteriore fase, soprattutto da parte della giurisprudenza di legittimità; com laCorte di giustizia (che assicura l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione passando attraverso le maglie del diritto interno e con la quale la Cassazione ha istaurato un rapporto diretto di pregiudizialità ai sensi dell’art. 267 TFUE); con la Corte di Strasburgo (che interpreta ed applica alle ipotesi di specie le norme Cedu ma, al fine di accertare la violazione di un diritto fondamentale, ne verifica il contrasto con le norme della Convenzione ed è, quindi, tenuta ad interpretare anche il diritto interno).
Si viene promuovendo, in tale direzione, ad opera della giurisprudenza della Corte di cassazione, senza la rottura degli argini di cui all’art. 6 TUE, quella “fusione di orizzonti”costituzionali tra diversi livelli, anche con riguardo alla “giustizia del caso concreto”, cui mira la stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea all’art. 5333, nel tentativo di armonizzazione, sulla base del principio del miglior favore, delle varie fonti di tutela dei diritti fondamentali, in una chiave di “costituzionalismo cooperativo”.


6. L’interpretazione adeguatrice come strumento di chiusura del sistema.
Nella relazione dello scorso anno era stato posto l’accento sulla centralità deimeccanismi connessi all’interpretazione conforme, quale strumento di soluzione delle antinomie nella visione improntata alla tutela interordinamentale dei diritti fondamentali, avanzata dalla Corte di cassazione nel dialogo con le Corti sovranazionali e con la Corte costituzionale.
Sulla base delle considerazioni svolte, può concludersi che mentre continuerà ad esercitarsi compiutamente l’obbligo di “non applicazione” (Corte cost. 170/84 cit.) del diritto interno contrastante con quello dell’Unione, almeno finché non vi sarà l’adesione dell’UE alla Cedu il giudice sarà comunque tenuto all’interpretazione in conformità alla Cedu, ma non gli sarà consentito, come invece gli è imposto per il diritto dell’Unione, disapplicare la norma interna con essa confliggente: interpretare conformemente alla Cedu significa applicare la Cedu fintantoché ciò sia possibile, anche se non è ammesso quel controllo diffuso di costituzionalità che deriverebbe dalla disapplicazione della norma convenzionale.
Il ruolo del giudice comune resta comunque fondamentale: in primo luogo, egli sarà tenuto a sperimentare il canone esegetico dell’interpretazione convenzionalmente orientata, nei limiti in cui ciò sia possibile, avendo immediato ed obbligato riferimento al diritto vivente di Strasburgo, e, soltanto in caso di irrimediabile difformità, dovrà sollevare la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Consulta per far dichiarare l’incostituzionalità della norma interna per contrasto con quella della Convenzione che opera da parametro interposto rispetto all’art. 117, primo comma, Cost..
L’esclusione della cd. “trattatizzazione” della Cedu implica l’affermazione che la strada dell’applicazione diretta della Convenzione non può trovare sponda, almeno fino all’effettiva adesione dell’Unione europea, nel combinato disposto degli artt. 11 e 117 Cost.,
nemmeno attraverso il richiamo alla Carta di Nizza, che pure contempla, al suo interno, una disposizione volta ad attribuire alle disposizioni sue proprie analoga portata rispetto alle previsioni di identico tenore contenute nella Cedu.
D’altro canto, la “comunitarizzazione” della Cedu, ancora di là da venire, sarà comunque limitata ad operare nei rapporti regolati dal diritto dell’Unione europea.
In questo contesto, l’interpretazione adeguatrice rappresenta il trait d’union fondamentale fra sistema interno, sistema internazionale di matrice Cedu e sistema comunitario, ponendosi quale punto di sutura fra gli stessi.
Se, infatti, i meccanismi propri di ciascun ordinamento rimandano agli strumenti centrali, da un lato del rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE, dall’altro della rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità, l’interpretazione conforme resta lo strumento principe per assicurare la soluzione delle antinomie e la chiusura del sistema.
Due esempi del 2012, uno di ambito comunitario, l’altro, di diritto internazionale di matrice Cedu, consentiranno di comprendere meglio tale tesi.
a) Corte di giustizia, 24 gennaio 2012, C-282/10, Maribel Dominguez.
La pronunzia dei Giudici di Lussemburgo resa nella causa Dominguez può ritenersi la summa del pensiero della Corte in materia di interpretazione conforme.
Il giudice del rinvio chiedeva, fra le altre cose, se l’art. 7 della direttiva 2003/88 dovesse essere interpretato nel senso che, in una controversia tra privati, una disposizione nazionale, ai sensi della quale il diritto alle ferie annuali retribuite è subordinato ad un periodo di lavoro effettivo minimo durante il periodo di riferimento, contraria a detto art.7, andasse disapplicata.
Ebbene, ciò che interessa sottolineare è come, sin dal principio, la Corte evidenzi che la questione afferente il se una norma nazionale che sia contraria al diritto dell’Unione debba essere disapplicata, si pone solo qualora non risulti possibile alcuna interpretazione conforme di tale disposizione.
La centralità dell’interpretazione conforme emerge, sin dall’inizio, in tutta la sua intensità.
Afferma la Corte che, nell’applicare il diritto interno, i giudici nazionali sono tenuti ad interpretarlo per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva, così da conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 288, terzo comma, TFUE. L’immanenza nel Trattato è chiaramente espressa: “L’esigenza di un’interpretazione conforme del diritto nazionale attiene infatti al sistema del Trattato FUE, in quanto permette ai giudici nazionali di assicurare, nell’ambito delle rispettive competenze, la piena efficacia del diritto dell’Unione quando risolvono le controversie ad essi sottoposte”.
Non è senza limiti tuttavia tale obbligo interpretativo: esso non solo non può dar luogo ad una interpretazione contra legem del diritto nazionale, ma risulta significativamente condizionato dai principi generali del diritto.
La Corte rammenta che il principio di interpretazione conforme esige che i giudici nazionali si adoperino al meglio nei limiti del loro potere, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo insieme ed applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia della direttiva di cui trattasi e di pervenire ad una soluzione conforme allo scopo perseguito da quest’ultima.
Soltanto qualora ciò non sia possibile occorrerà verificare se la norma oggetto di interpretazione (nella specie, l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88) abbia effetto diretto e se, in tal caso, la parte interessata possa farla valere, nel caso di specie, nei confronti del suo datore di lavoro.
I Giudici di Lussemburgo suggeriscono, quindi, un percorso inverso rispetto a quello usualmente praticato e, cioè, pongono la ricerca dell’esistenza nella normativa considerata di disposizioni atte ad essere direttamente invocate, in una fase successiva rispetto all’infruttuoso esperimento del tentativo di interpretazione conforme precedentemente attuato.
E infatti, soltanto qualora sia davvero impossibile percorrere la via interpretativa per raggiungere il risultato sperato di conformazione dell’ordinamento interno a quello dell’Unione, si farà ricorso alla verifica della sussistenza di disposizioni in grado di produrre un effetto diretto.
E’ perciò ancora una volta compito del giudice nazionale verificare se l’art. 7 par. 1 della direttiva 2003/88 possa essere invocato da parte dell’istante nei confronti del proprio datore di lavoro: in caso positivo, l’art. 7 della direttiva 2003/88, che soddisfa le condizioni richieste per produrre un effetto diretto, comporterà che il giudice nazionale debba disapplicare qualsiasi disposizione nazionale contraria.
In caso negativo, resterebbe il limite invalicabile determinato dall’impossibilità di applicare in una controversia fra singoli una disposizione, pur chiara, precisa ed incondizionata, derivante da una direttiva volta a conferire diritti o a imporre obblighi agli stessi.
Rimane alla parte, lesa dalla non conformità del diritto nazionale al diritto dell’Unione, la possibilità di invocare la giurisprudenza scaturita dalla sentenza Francovich per ottenere eventualmente il risarcimento del danno subito.
b) Corte europea dei diritti umani, 28 agosto 2012, n. 54270/10, Costa e Pavan c. Italia.
Nel caso Costa e Pavan c. Italia del 28 agosto 2012, la vicenda posta all’attenzione alla Corte Edu riguardava una coppia di coniugi portatori sani di fibrosi cistica, i quali lamentavano il divieto posto dalla legge italiana n. 40/2004, in particolare dagli artt. 4 e 5, che consentono l'accesso alla procreazione medicalmente assistita, e quindi alla diagnosi preimpianto soltanto alle coppie che, sulla base di accertamenti medici, risultino sterili o
infertili ma non a quelle portatrici di una patologia trasmissibile.
La peculiarità del caso è nel fatto che i ricorrenti Costa e Pavan hanno adito direttamente la Corte di Strasburgo ai sensi dell'art. 35 della Convenzione europea dei diritti umani, che disciplina le condizioni di ricevibilità, anziché ricorrere prima all’autorità giurisdizionale interna.
La Corte ha ritenuto non coerente con la tutela della salute della donna la possibilità, ammessa dall'ordinamento italiano, di procedere all'aborto terapeutico per le medesime patologie (la coppia aveva già praticato un aborto) per cui è interdetta la diagnosi preimpianto, evidenziando l'incompatibilità tra l'impianto normativo della legge n. 40/2004, che da una parte vieta la selezione degli embrioni coltivati in vitro e non affetti dalla fibrosi cistica ai fini dell'impianto nell'utero materno, mentre dall'altra ammette l'aborto terapeutico per il caso che il medesimo embrione sia malato della stessa patologia.
Ciò che è interessante notare, nel circuito di mezzi giurisdizionali interni e sovranazionali, è che la Corte ha fatto proprie le osservazioni sollevate dalla giurisprudenza di merito nella rilettura costituzionalmente orientata della legge n. 40/200441.
I Giudici di Strasburgo, che hanno condannato l’Italia sottoscrivendo la decisione all'unanimità, sottolineano che non viene riconosciuto il diritto ad avere dei figli sani, i cui caratteri genetici forti siano preselezionati nell'embrione fecondato, né questo è richiesto dai ricorrenti, poiché seppure evitato il rischio della malattia, permarrebbero invariate le restanti incognite della gravidanza e della presenza di altre patologie. Osservano, inoltre, che in tema di fecondazione omologa con possibilità di diagnosi selettiva (giustificata dal contagio di malattie incurabili una volta contratte), per coltivazioni di embrioni “in vitro”, la posizione italiana è minoritaria, se non isolata, comune soltanto a Austria e Svizzera.
L’esistenza di un “consensus” di orientamento opposto a quello italiano determina che i margini di apprezzamento risultino essere più limitati e ne consegue un controllo più serrato sui margini di proporzionalità e adeguatezza che comporta la censura dellanormativa italiana.
Proprio la pronunzia Costa e Pavan c. Italia, allora, ha costituito lo strumento per orientare il giudice nazionale successivamente investito di questione analoga, mediante lo strumento dell’interpretazione adeguatrice, quale meccanismo che consente di salvare il sistema riconducendolo ad unità.
Il giudice adìto42 ha accolto la richiesta, avanzata in termini cautelari, non solo richiamando l'interpretazione della giurisprudenza costituzionale e di merito ma facendo esplicito riferimento alla decisione della Corte di Strasburgo, anzi motivando la concessione del provvedimento d'urgenza riferendosi alla normativa sovranazionale.
Si legge nella decisione: “Nella fattispecie in esame, si deve ritenere certamente possibile una interpretazione adeguatrice della norma interna, in quanto le norme della Convenzione, nel significato attribuito dalla Corte di Strasburgo con la recente pronuncia, peraltro non definitiva (...), appaiono conformi alla nostra Carta, nella lettura offerta anche dalla più volte citata sentenza della Corte costituzionale n. 151 del 2009, laddove ha
esaminato il bilanciamento tra gli interessi contrapposti”.
Ancora una volta, il giudice nazionale è al centro del sistema.
Il Governo italiano, è vero, ha proposto ricorso alla Grande Chambre; nondimeno, l’interpretazione offerta dal giudice interno mostra, invece, come lo strumento dell’interpretazione conforme, quale fil rouge che lega diritto interno, diritto Cedu e diritto dell’Unione europea, consenta spesso di evitare drammatiche fratture, valorizzando l’impegno interpretativo cui tutti i giudici sono tenuti, nella tensione verso un sistema di tutela dei diritti realmente e positivamente integrato.


7. La giurisprudenza di legittimità ed il diritto sovranazionale.
Conclusivamente, nell’ambito delle numerose decisioni della Corte di cassazione che hanno avvalorato l'adeguamento in via interpretativa del diritto interno al diritto sovranazionale, può essere utile ricordare succintamente alcune tra le più significative pronunzie nell’anno appena trascorso.
a) Libertà di stampa, diffamazione e diritto all'oblio.
Tale specifico settore è tra i più delicati e complessi, soprattutto per l'importanza dei beni giuridici in bilanciamento: da un lato la tutela della libertà di manifestazione del pensiero, dall'altro la tutela dell'onorabilità personale.
D’altro canto peculiare è l'impatto che sul tema hanno tanto il prestigio e la persuasività della giurisprudenza delle Corti sopranazionali, quanto la disseminazione dei contenuti, che non è più solo cartacea ma anche digitale.
In rapporto al bilanciamento tra libertà di stampa e tutela dell'altrui onorabilità ai fini dell'integrazione del reato diffamatorio, la Corte di cassazione ha affermato che devono essere verificate dal giudice nazionale le condizioni previste dall'art. 10, comma 2, Cedu per giustificare l'intervento limitativo dello Stato. L'ingerenza punitiva deve essere prevista dalla legge, deve perseguire il fine di proteggere i diritti fondamentali altrui, e tra questi è espressamente indicata la reputazione, e deve essere “necessaria”, in quanto integratrice di un “bisogno sociale imperioso”, il cui accertamento è deputato al margine di apprezzamento sottoposto a verifica del giudice europeo.
Con riguardo al rapporto tra tutela dell'onorabilità e corretto trattamento dei propri dati personali, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la presenza in archivi on-line, anche giornalistici, di informazioni non più attuali, sebbene non costituisca il reato di diffamazione, integra la lesione del diritto di qualsiasi soggetto a mantenere il controllo sulle proprie informazioni ai sensi dell'art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
b) Discriminazione e orientamento sessuale.
Sotto tale profilo le decisioni della giurisprudenza di legittimità che ineriscono ai rapporti multilivello tra le fonti europee e nazionali riguardano, da un lato, l'accoglimento della richiesta di asilo e, dall'altro, la trascrizione del matrimonio tra persone dello stesso sesso
celebrato all'estero.
Per quanto concerne un caso, la Corte ha esaminato l’ipotesi in cui persone omosessuali siano costrette a violare la legge penale del loro Stato d'origine, nel quale il proprio orientamento è passibile di gravi sanzioni, pur di vivere liberamente la loro sessualità, subendo così una grave ingerenza nella loro vita privata che comprometterebbe la loro libertà personale.
Siffatta situazione integra la violazione di un diritto fondamentale sancito tanto da fonti nazionali, come la Costituzione, quanto da fonti sovranazionali, come la Cedu e la Carta europea dei diritti fondamentali, vincolante in questo ambito: conseguentemente, tali persone hanno diritto ad ottenere lo status di rifugiati che le protegge da una situazione oggettiva di persecuzione.
Di grande impatto anche la questione inerente la possibilità di trascrivere un matrimonio contratto all'estero (nel caso di specie, in Olanda) da due persone dello stesso sesso.
Nonostante la Suprema Corte abbia rigettato il ricorso della coppia ricorrente, essa ha offerto una lettura delle norme interne e sovranazionali secondo cui l'art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti umani, l'art. 23.2 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, l'art. 12 Cedu, l'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, riconoscono il matrimonio come diritto fondamentale ai singoli individui come esseri umani e non come appartenenti ad un consesso sociale.
Tuttavia tanto l'art. 12 Cedu, quanto l'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali della UE, consentono agli Stati nazionali di gestire concretamente tale equiparazione attraverso il parametro del “margine di apprezzamento”, affermando che questa disciplina è di competenza degli Stati nazionali, i quali sono tenuti a predisporre soluzioni appropriate.
c) Diritti degli stranieri.
Per quel che riguarda la titolarità all'erogazione dell'assegno di invalidità a favore di cittadini extracomunitari regolari, la Sezione Lavoro della Cassazione ha stabilito che “in tema di provvidenza destinata a far fronte al sostentamento della persona, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio di non discriminazione sancito dall'art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo”.
Altresì, per quanto concerne la concessione dello status di rifugiato, la Corte ha richiamato la normativa dell'Unione europea ai fini di verificare la sussistenza dei requisiti richiesti per la concessione della protezione internazionale di un richiedente asilo.
d) Procedimento penale.
Con riguardo all'emanazione del decreto di irreperibilità, le Sezioni unite penali, riferendosi all'importante precedente Sjedovic della Corte di Strasburgo, hanno sottolineato che gli sforzi diretti affinchè l'interessato sia messo realmente a conoscenza del procedimento che lo riguarda non sono soddisfatti dalla mera e formale reiterazione di atti che nulla possono
aggiungere all'individuazione del luogo ove la persona sottoposta ad indagini si possa trovare.
L'indagato deve comunque essere posto in condizione di poter scegliere consapevolmente se rinunciare a comparire.
e) Diritto penale sostanziale.
In materia di accesso abusivo a sistemi informatici, la Corte ha richiamato la “Raccomandazione R(89)9 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, sulla criminalità informatica, approvata il 13 settembre 1989 ed attuata in Italia con la L. n. 547 del 1993”, nonché la “Convenzione del Consiglio d'Europa sulla criminalità informatica (cybercrime) fatta a Budapest il 23 novembre 2001 e ratificata con la L. 18 marzo 2008, n. 48”.
f) Procedimento civile.
In materia di notifica, la Corte di cassazione richiama la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ai fini interpretativi “dell'art. 6.1 della Cedu (il cui rispetto è imposto al giudice nazionale dall'art. 117 Cost.), secondo cui il diritto di accesso ai tribunali ed alle corti implica l'esigenza, nell'applicare le regole della procedura dettate dalle norme di legge interne, di evitare che un'interpretazione troppo formalista impedisca, in concreto, l'esame del merito dei ricorsi”.
g) Responsabilità civile.
La Corte ha vagliato il computo del termine di prescrizione per agire per risarcimento del danno compensativo della perdita di chances provocata dalla mancata implementazione del diritto dell’Unione.
h) Diritto del lavoro.
In questo ambito la Corte si è espressa sulla qualificazione del contratto a tempo determinato rispetto a quello a tempo indeterminato facendo espresso riferimento alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, in particolare, per quanto concerne la disciplina della nullità del medesimo contratto a termine, l'esclusione della fattispecie di abuso di tale contratto nel comparto scuola, nel settore dei servizi sanitarie per quanto concerne particolari figure di dipendenti comunali.
In relazione all'indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro, la Corte ha richiamato l’articolo 30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, seppure essa non sia “direttamente applicabile alla fattispecie ex art. 51 della stessa Carta, (…) ma (tenuto
conto) che può certamente operare come fonte di libera interpretazione anche del dato normativo nazionale, stante il suo carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti Europei".
Infine i giudici di legittimità richiamano la giurisprudenza della Corte di giustizia e le disposizioni dei Trattati per porre a carico delle imprese di dimostrare che gli sgravi contributivi ottenuti per i contratti di formazione-lavoro siano stati effettivamente utilizzati rispettando le condizioni fissate dalla Commissione europea.
Si elencano in nota sentenze del 2012 della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti umani rilevanti per il diritto nazionale.


3. Confronto con i sistemi giudiziari di Stati europei più vicini all’Italia (Francia, Germania, Regno Unito, Spagna)
3.1. Premessa.
La grave crisi economica mondiale, originatasi soprattutto da una carenza di regolamentazione giuridica del funzionamento dell’economia finanziaria e diffusasi rapidamente nell’intero pianeta per effetto della globalizzazione, senza risparmiare di recente neppure le economie emergenti più vivaci ed espansive, sollecita la responsabilità del giurista e la sua attenzione al funzionamento concreto della giustizia per tentare di ristabilire il giusto rapporto tra libertà del mercato e tutela dei diritti individuali e collettivi.
Nella relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2010 (pagg. 21/22) era contenuto l’invito a mettere momentaneamente in secondo piano l’aspetto della giustizia come dimensione del potere statuale, sul quale peraltro sono anche sorte contrapposizioni e polemiche a livello dottrinale e politico, per “concentrarsi piuttosto sulla dimensione della giustizia come servizio verso i cittadini e tutte le persone che vivono nel nostro Paese, che hanno diritto ad ottenere in tempi ragionevoli risposte alla domanda di giustizia”. Un approccio metodologico di questo tipo, peraltro imposto dalle specifiche finalità della relazione, richiama tutti gli operatori del diritto, e ancor prima coloro che sono investiti di compiti di valutazione della realtà giudiziaria e di ideazione e realizzazione di interventi riformatori, a coniugare razionalità ed empirismo, avendo ben chiaro non solo il complessivo quadro di regole, principi e valori di riferimento all’interno del quale ogni innovazione si deve porre, evitando interventi incoerenti e che si rincorrono in brevissimo lasso di tempo, ma anche l’esigenza di accompagnare ogni modifica con la necessaria strumentazione pratica che le consenta di funzionare in concreto, predisponendo, ancor prima, i necessari dispositivi di monitoraggio che permettano, trascorso un tempo di funzionamento adeguato, di verificarne in concreto la validità o di intervenire con le opportune modifiche.
Il sistema di riferimento di qualsiasi intervento non può allora trascurare, innanzi tutto, la complessità dello stesso sistema delle fonti di produzione del diritto che da tempo ha cessato di riguardare un singolo Stato-nazione, all’interno del quale la disciplina delle singole fattispecie ormai si atteggia come disciplina “multilivello”, come si è ampiamente
analizzato nel precedente capitolo.
Non avrebbe perciò senso presentare un rendiconto e un bilancio dell’amministrazione della giustizia nel 2012 e neppure indicare possibili soluzioni delle criticità evidenziate limitando l’esposizione alla sola realtà italiana. E’ utile far precedere alla pur doverosa indicazione dei dati e dei problemi nazionali un quadro della realtà europea utilizzando i risultati del Rapporto sull’efficacia e la qualità della giustizia a cura della Commissione europea per l’efficacia della giustizia, pubblicato il 20 settembre 2012, che contiene dati aggiornati al 2010 relativi ai questionari restituiti da quarantasei Paesi del Consiglio d’Europa. La comparazione è stata, di regola, limitata al confronto con realtà socio-economiche e istituzionali più vicine alla nostra e quindi con i dati relativi alla Francia, alla Germania, al Regno Unito e alla Spagna.
3.2. Sistemi giudiziari europei: dati relativi alla domanda di giustizia.
Uno dei dati maggiormente significativi riguarda l’entità della domanda di giustizia.
Il numero di nuovi procedimenti civili e commerciali contenziosi iniziati nel 2010 ogni centomila abitanti ci vede ancora sostanzialmente al primo posto con 3.958 procedimenti, perché se è vero che in Spagna sono iniziati 4.219 procedimenti contenziosi, nello stesso periodo hanno avuto inizio solo 399 procedimenti non contenziosi rispetto ai nostri 2.076.
Seguono a notevole distanza la Francia con 2.758 procedimenti (e 155 non contenziosi), la Germania con 1.935 e il Regno Unito con 527 (anche se con 2.287 procedimenti non contenziosi, sostanzialmente equivalenti ai nostri).
Non è questa la sede per affrontare in modo approfondito l’analisi delle diverse cause dell’"esplosione della domanda", che è fenomeno certamente non limitato al nostro Paese, anche se la situazione italiana, come ora rilevato, è del tutto peculiare, dovendo limitarci a indicare solo alcune caratteristiche dei sistemi giudiziari in comparazione che ragionevolmente hanno influenza sull’entità della domanda, tenendo anche conto che occorre sempre distinguere tra esigenza di ricondurre la domanda alle dimensioni corrette, eliminando gli eccessi di litigiosità, di abuso del processo e di “domande drogate”e la necessità di tutelare l’accesso alle corti garantito dall’art.
Anche nel settore penale l’Italia si colloca nelle posizioni di testa. Seconda, dietro la Turchia, come numero complessivo di affari penali introitati nel 2010 (rispettivamente, 1.607.646 e 1.827.336; a fronte di un numero di affari pari a 1.336.505 in Spagna, 1.181.995 in Germania, 1.111.772 in Polonia, 1.061.097 in Francia, gli unici paesi che superano il milione, non essendo pervenuto quello del Regno Unito); e terza, fra Paesi con popolazione confrontabile, nella percentuale ogni 100.000 abitanti (Polonia 2.910,4; Spagna 2.906,1; Italia, 2.651,7; Turchia 2.518,3; Francia 1.631,8; Germania 1.445,8). I dati degli affari penali risentono però fortemente della politica punitiva, essendovi notevoli differenze tra i vari Paesi d’Europa sulla risposta ai comportamenti devianti, in misura più o meno larga trattati in sede amministrativa.
Il numero degli avvocati è da molti, sia a livello scientifico che politico, riconosciuto come dato che deve essere messo in rapporto con la quantità di domanda di giustizia.
Come ho già evidenziato negli anni precedenti, su questo terreno l’Italia continua a occupare il primo posto. Sulla base dei dati 2010 in Italia gli avvocati erano 211.962 (ma nell’agosto 2012 gli iscritti all’albo erano 247.040), pari a 349,6 per centomila abitanti e 31.9 per giudice professionale, mentre in Germania erano 155.679 con 190,4 per centomila abitanti e 7,9 per giudice professionale; in Spagna 125.208 con 272,3 per centomila abitanti e 26,7 per giudice professionale; in Francia 51.758 con 79,6 per centomila abitanti e 7,5 per giudice professionale.
Il documento CEPEJ non prende in considerazione il rapporto tra la previsione del pagamento di tasse e spese per introdurre una controversia giudiziaria e tanto meno analizza il rapporto di tali esborsi, rispetto al valore della causa, e la quantità di domanda di giustizia. Si afferma tuttavia che quasi tutti i Paesi del Consiglio d’Europa (42 e oggi 43 perché la Francia, nel 2011, ha introdotto una norma che impone il pagamento di tasse e spese giudiziarie) prevedono un costo per l’accesso alla giustizia.
E’ invece minuziosamente esaminata, in chiave comparativa, la disciplina dell’assistenza giudiziaria per i cittadini che non hanno mezzi finanziari adeguati, che trova il suo fondamento nell’art. 6, comma 3, Cedu. In Francia è stata deliberata l’assistenza giudiziaria per i non abbienti in 1402,3 procedimenti ogni centomila abitanti con una spesa media per affare di € 396; nel Regno Unito in 1286,2 procedimenti con una spesa media per affare di € 3.551; in Germania per 862,4 procedimenti con spesa media di € 542 per ognuno e in Italia in 262,6 procedimenti con spesa media di € 798. La Spagna non ha fatto pervenire dati.
3.3. Dati relativi alla risposta alla domanda di giustizia.
I paradossi della giustizia civile italianasono rappresentati dal fatto che pur avendo
la maggiore quantità di domanda di giustizia, ha al tempo stesso la maggiore capacità di definizione e la maggiore durata.
Guardando al tasso di “smaltimento”, clearance rate secondo la terminologia del Rapporto CEPEJ, vediamo che, nel 2010, l’Italia con 4.676 procedimenti definiti in primo grado ogni centomila abitanti, rispetto a 3.958 procedimenti contenziosi iscritti, ha un tasso di smaltimento del 118,1%. La Germania ha un tasso di smaltimento del 100,3% (1.941 casi definiti rispetto a 1.935 nuove iscrizioni), la Francia del 98,4% (2.713 casi definiti rispetto a 2.758 sopravvenuti), la Spagna del 93,6% (3.950 definizioni rispetto a 4.219 sopravvenienze), mentre il Regno Unito non ha comunicato il dato dei processi definiti.
Il clearance rate dei procedimenti penali vede invece l’Italia, con una percentuale del 94,5%, nelle posizioni di coda, immediatamente sotto alla Francia (95,1%), ed essendo sensibilmente preceduta dalla Spagna (99,1%) e dalla Germania (101,2%).
L’estrema rilevanza del dato emerge, oltre che in assoluto, soprattutto se è messo in relazione ad altre caratteristiche del sistema giudiziario italiano. Con 11 giudici professionali e 5,1 giudici non togati per centomila abitanti, il nostro Paese ha il più basso rapporto giudici/abitanti, se si sommano i giudici togati e quelli non togati. Infatti il Regno Unito, in disparte le peculiarità del suo sistema giudiziario, ha un rapporto popolazione/giudici professionali molto più basso, pari a 3,6, ma ha un rapporto di 49,1 giudici non professionali ogni centomila abitanti, la Spagna di 10,2 giudici professionali e 16,7 giudici non professionali e la Francia di 10,7 giudici professionali e 44,4 giudici non professionali.
La situazione estremamente più positiva è quella della Germania con 24,3 giudici professionali e 120 giudici non professionali ogni centomila abitanti.
Del pari molto rilevante è il raffronto per quanto riguarda il personale amministrativo con compiti di diretta assistenza al giudice, sia in termini assoluti che in termini percentuali rispetto al numero complessivo di personale amministrativo e tecnico addetto alle corti. L’Italia con 9.699 addetti all’assistenza del giudice, pari al 39,3% del numero complessivo, si pone all’ultimo posto rispetto alla Francia che, con 18.189, ha una percentuale dell’86,2% e alla Germania che ha 29.143 addetti all’assistenza del giudice, pari al 54,2%, a cui debbono però aggiungersi 8.460 Rechtspfleger, pari al 15,8% del totale del personale non giudiziario.
Quanto allo stanziamento destinato alla giustizia, comprensivo di quello destinato al funzionamento del sistema penitenziario, l’Italia si pone in una posizione mediana, con €7.716.811.123 (pari all’1,5% della spesa pubblica globale), inferiore a €13.320.680.442 (pari all’1,6% della spesa pubblica) per la Germania e a €10.866.000.000 del Regno Unito (1,9% della spesa pubblica), ma superiore a €7.517.535.561 della Francia (1,1% della spesa pubblica) e a €4.632.278.011 (1% della spesa pubblica) della Spagna.
Analoga posizione, sostanzialmente, occupa il nostro Paese se, limitandoci alle spese destinate al funzionamento delle corti, escluse quelle per gli uffici del pubblico ministero e per l’assistenza giudiziaria dei non abbienti, il dato complessivo viene analizzato nelle voci stipendi e salari, investimenti nelle nuove tecnologie, costruzioni di nuovi edifici,
manutenzione e funzionamento di quelli esistenti, formazione.
Alla laboriosità dei giudici italiani di primo grado, eccezionale se rapportata alle limitazioni delle risorse strutturali e personali, purtroppo non corrisponde un’analoga positiva performance del sistema complessivo, caratterizzato da un’elevata quantità di cause civili arretrate e da un’eccessiva durata dei processi. Un processo civile di primo grado nel 2010 durava in Italia in media 493 giorni, mentre in Spagna 289, in Francia 279 e in Germania 184. La media nei Paesi del Consiglio d’Europa è di 287 giorni. Il dato trova conferma rispetto ai divorzi contenziosi: la durata media di un processo in primo grado è in Italia di 538 giorni, in Germania di 310 giorni, in Spagna di 279, in Francia di 267 e nel Regno Unito di 219. La situazione non è migliore se si guarda alla durata media dei procedimenti relativi a compravendite commerciali dalla data della domanda all’effettivo pagamento: 1210 giorni per l’Italia, 510 per la Spagna, 399 per il Regno Unito, 394 per la Germania, 390 per la Francia.
Quanto alle cause penali, la durata (disposition time) di un processo di primo grado davanti al Tribunale era nel 2010 in Italia di 345 giorni. Non sono offerti dal Rapporto CEPEJ dati relativi a Stati europei confrontabili con il nostro Paese, fatta eccezione per la Spagna, che presentava in quell’anno una durata particolarmente elevata (504 giorni).
Non stupisce, quindi, soprattutto con riferimento alle cause civili, che dalle statistiche della Corte di Strasburgo le sentenze che riguardano l’Italia, relative alla violazione della durata ragionevole, siano di gran lunga le più numerose nell’intero periodo che va dal 1959 al 2011: 1.155, rispetto alle 281 della Francia, 102 della Germania, 26 del Regno Unito e 12 della Spagna.
3.4. Gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (ADR).
Gli strumenti di risoluzione delle controversie alternativi alla giurisdizione (ADR), pur non potendo essere considerati direttamente come strumenti generali di deflazione del contenzioso, ma costituendo più propriamente forme di risposta a domande di giustizia di particolare natura, possono certamente fornire un contributo alla riduzione dell'accesso alle corti o quanto meno alla riduzione del numero delle decisioni giudiziarie. Nella valutazione di tali strumenti, la CEPEJ ha individuato tre diverse tipologie di procedimento, la mediazione, la conciliazione e l'arbitrato, non sempre presenti negli ordinamenti di tutti gli Stati e spesso differenziate secondo criteri diversi (ad esempio, il patteggiamento della pena è considerato una forma di mediazione in Francia, ma non in Italia e nei Paesi Bassi). La previsione di ADR è comunque in continua espansione, anche se diverse sono le materie
per le quali esse sono previste e le forme nelle quali si realizzano: in particolare, l'ordinamento italiano esclude dalla mediazione gli affari amministrativi e, al pari di quello della Germania e del Regno Unito, anche gli affari penali, mentre l'ordinamento francese e quello spagnolo ammettono la mediazione per tutti gli affari.
Com'è noto, con sentenza n. 272 del 2012 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, emanato dal Governo in attuazione della delega conferita dall'art. 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, nella parte in cui, nel disciplinare la mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, prevedeva, all'art. 5, comma 1, l'obbligatorietà del ricorso a tale strumento alternativo di definizione delle controversie, condizionando, in numerose tipologie di controversie civili, la procedibilità della domanda giudiziale al preventivo esperimento del procedimento di mediazione.
Nelle precedenti relazioni sull'amministrazione della giustizia, pur esprimendosi qualche riserva in ordine alla disciplina specificamente dettata dal decreto legislativo, in particolare con riguardo alla genericità dell'indicazione delle categorie di controversie assoggettate all'obbligo di mediazione, si era formulato un giudizio complessivamente positivo in ordine all'istituto in esame, evidenziandosi l'idoneità dello stesso a favorire una riduzione della durata dei processi civili attraverso la rimozione della principale causa di tale fenomeno, comunemente individuata nell'incapacità del nostro sistema giudiziario di far fronte ad una domanda di giustizia in costante crescita.
La brevità del periodo in cui la normativa ha avuto applicazione nel suo testo originario non ha consentito di verificare appieno la fondatezza di tali auspici, soprattutto con riguardo alle controversie in materia di condominio e risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti, per le quali l'obbligo della mediazione è entrato in vigore soltanto il 20 marzo 2012 (a differenza delle controversie in materia di diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, per le quali ha trovato applicazione dal 21 marzo 2011). Ciò che può dirsi, peraltro, sulla base dei dati statistici forniti dal Ministero della giustizia (DGStat), è che il procedimento in questione ha avuto ampia applicazione non solo nelle controversie, come quelle in materia di diritti reali (19,3% dei casi), locazione (12,7% dei casi), divisione (5,6% dei casi), successioni ereditarie (3,3% dei casi), in cui il raggiungimento di un accordo tra le parti è agevolato dalla natura personale dei rapporti intercorrenti tra le parti e dal carattere non seriale degli interessi coinvolti, ma anche nelle controversie che, come quelle in materia di contratti bancari (9,1% dei casi) e assicurativi (8,3% dei casi), investono prevalentemente rapporti di massa.
L'efficacia deflativa dell'istituto trova poi conferma nella costatazione che, là dove le parti vi hanno fatto ricorso, esso si è rivelato realmente capace di favorire una soluzione conciliativa della controversia, avendo condotto ad una definizione concordata nel 46,4% dei casi in cui entrambe le parti sono comparse. Positivo sarebbe potuto risultare il
giudizio anche in ordine al livello di adesione delle parti alla procedura, in costante incremento (dal 26% al 35,7%) dall'entrata in vigore del decreto legislativo fino al momento in cui l'obbligo della mediazione è divenuto applicabile anche alle controversie in materia di risarcimento dei danni derivanti da circolazione dei veicoli e natanti, se su tale dato non avesse pesato in misura determinante l'atteggiamento di sfiducia, se non addirittura di preconcetta opposizione, manifestato dalle compagnie di assicurazione, le quali si sono astenute sistematicamente dal comparire dinanzi ai mediatori.
Questi rilievi, unitamente alla considerazione che nel 16% dei casi le parti hanno scelto di percorrere la strada della mediazione senza esservi costrette da alcuna disposizione di legge, dovrebbero indurre a meditare approfonditamente sulla convenienza di abbandonare al proprio destino un istituto la cui disciplina, opportunamente rimodulata alla luce della pronuncia d'illegittimità costituzionale, potrebbe contribuire a fornire una risposta tempestiva ed efficace alle esigenze di tutela nei rapporti tra privati.
In tale prospettiva, pur dovendosi prendere atto che, come ritenuto dal Giudice delle leggi, l'obbligatorietà del ricorso alla mediazione, assunta dal legislatore delegato quale profilo caratterizzante nella disciplina dell'istituto, non trovava adeguato riscontro nei principi e criteri direttivi enunciati dalla legge delega, ispirati invece alla volontarietà dell'iniziativa e all'intento di promuoverne la diffusione mediante la previsione di incentivi di carattere fiscale, non può non osservarsi che la scelta di favorire l'utilizzazione di strumenti di risoluzione delle controversie alternativi alla giurisdizione risponde ad esigenze di deflazione del contenzioso e di miglioramento dell'accesso alla giustizia fatte proprie anche dagli organi dell'Unione europea. Significativa, al riguardo, è la circostanza che, nel rilevare il difetto di delega, la Corte costituzionale abbia avvertito la necessità di sottolineare il legame dell'art. 60 della legge n. 69 del 2009 e del d.lgs. n. 28 del 2010 con i seguenti atti comunitari: a) la risoluzione del Consiglio europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999, avente ad oggetto la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nell'Unione europea; b) la direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008, nella quale si afferma esplicitamente che la mediazione «può fornire una risoluzione extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale», aggiungendosi che «gli accordi risultanti dalla mediazione hanno maggiori probabilità di essere rispettati volontariamente e preservano più facilmente una relazione amichevole e sostenibile tra le parti»; c) la risoluzione del Parlamento europeo del 25 ottobre 2011, sui metodi alternativi di soluzione delle controversie in materia civile, commerciale e familiare, nella quale, pur escludendosi l'imposizione generalizzata di un sistema obbligatorio di ADR a livello di UE, si prevede la possibilità di valutare un meccanismo obbligatorio per la presentazione dei reclami delle parti al fine di esaminare la possibilità di ADR; d) la risoluzione del Parlamento europeo del 13 settembre 2011, nella quale, passandosi in rassegna le modalità con cui alcuni Stati membri hanno proceduto all'attuazione della direttiva sulla mediazione, si osserva che «nel sistema giuridico italiano la mediazione obbligatoria sembra raggiungere l'obiettivo di diminuire la congestione nei tribunali».
E' pur vero che dai predetti atti non si desume alcuna opzione esplicita o implicita a favore del carattere obbligatorio della mediazione, in quanto il legislatore comunitario si è preoccupato soltanto di disciplinare le modalità secondo le quali il procedimento può essere strutturato, senza imporre né consigliare l'adozione del modello obbligatorio, ma limitandosi a stabilire che resta impregiudicata la legislazione che rende obbligatorio il ricorso alla mediazione (cfr. art. 5, comma 2, della direttiva 2008/52/CE). Peraltro, come ha rilevato lo stesso Giudice delle leggi, la Corte di giustizia UE, nella sentenza 18 marzo 2012, in causa C-317/08 ha riconosciuto, sia pure come obiter dictum e in riferimento a specifiche fattispecie, quantitativamente limitate e con una struttura peculiare, l'inesistenza di «un'alternativa meno vincolante alla predisposizione di una procedura obbligatoria, perché l'introduzione di una procedura extragiudiziale meramente facoltativa non costituirebbe uno strumento altrettanto efficace per la realizzazione degli obiettivi perseguiti».
La fine anticipata della legislatura ha impedito l'esame di proposte di modificazione della disciplina della mediazione, idonee a vincere le resistenze culturali nei confronti di modalità innovative di gestione dei conflitti civili, attraverso l'imposizione quanto meno iniziale dell'obbligatorietà del tentativo di conciliazione in alcune materie, magari temperata dalla previsione di una procedura meno gravosa nelle liti in cui esso ha minori chances di successo: mi riferisco, in particolare, alla proposta di rendere obbligatorio non il tentativo di conciliazione, ma solo quello di un incontro
preliminare con il mediatore, al fine di valutare in concreto l'opportunità di procedere al tentativo, ovvero di porvi termine in quella sede, con costi e tempi decisamente inferiori.
Nell'attesa che il nuovo Parlamento prenda in esame proposte simili ed altre volte a favorire il ricorso alla mediazione, non può che ribadirsi quanto già affermato nelle relazioni sull'amministrazione della giustizia degli scorsi anni, e cioè che il successo d'interventi legislativi volti ad apprestare e promuovere l'utilizzazione di strumenti alternativi di risoluzione delle controversie esige un forte coinvolgimento di tutti i potenziali attori del processo, e quindi non solo delle parti, cui si richiede «una salda fiducia nella possibilità di trovare un accomodamento dinanzi al mediatore», ma anche della classe forense, chiamata a recuperare «la vocazione alla conciliazione delle parti in conflitto, che il nostro ordinamento assegna all'avvocato come fisiologico ruolo funzionale alla piena realizzazione della tutela dei diritti». Neppure va sottovalutata l'importanza dell'iniziativa del giudice, la cui facoltà di invitare le parti a tentare la mediazione, finora sottoutilizzata (2,8% dei casi), potrebbe contribuire a promuoverne la diffusione, soprattutto se accompagnata da un adeguato monitoraggio degli esiti di tale invito.
La praticabilità di questi interventi è testimoniata dagli stessi dati statistici relativi al breve periodo di applicazione del decreto legislativo, dai quali risultano, oltre alla già menzionata disponibilità delle parti ad avvalersi della mediazione al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge, l'ampio ricorso dei contendenti all'assistenza legale (della quale si sono avvalsi l'84% dei proponenti e l'85% degli aderenti), che non ha rappresentato un ostacolo al conseguimento dei risultati positivi già segnalati (raggiungimento dell'accordo nel 46% dei casi), nonché i vantaggi derivanti dalla mediazione in termini di risparmio di tempo, o quanto meno l'inesistenza di svantaggi in
termini di dilatazione dei tempi processuali (dal momento che la durata dei procedimenti non è risultata superiore ai 77 giorni, rispetto ad una durata del processo di primo grado che si aggira mediamente sui 1.066 giorni).


4. I miglioramenti organizzativi
Nella relazione dello scorso anno una specifica attenzione fu dedicata al tema dell'organizzazione del lavoro giudiziario, in essa inclusa la formazione, sottolineandone la funzione essenziale di "leva di cambiamento". A distanza di un anno quelle considerazioni, a cui si fa rinvio, conservano piena attualità, onde ci si limiterà ad indicare le novità intervenute nel 2012.
La previsione allora formulata sulle potenzialità derivanti da un clima politico più sereno sul versante del settore giustizia hanno trovato oggettivi riscontri.
1. Revisione delle circoscrizioni giudiziarie.
Il primo riferimento va certamente dedicato alla riforma delle circoscrizioni giudiziarie, che si attendeva dagli anni ‘50 e che, in passato, molti ministri della giustizia hanno deliberatamente omesso di prendere in considerazione sotto la pressione di clientele e di campanilismi.
E’ doveroso dare atto al Governo di avere posto fine a tale pluridecennale intollerabile inerzia, emanando due decreti legislativi e avviando concretamente un processo che non è enfatico definire “epocale”, superando resistenze e obiezioni di carattere localistico, magari comprensibili sotto il profilo degli interessi coinvolti, ma tutte, oggettivamente, tendenti a scaricare su altri distretti territoriali la perdita di comodità anacronistiche in un’epoca lontana anni-luce, non solo per la facilità dei trasporti ma anche per la rivoluzione telematica, da un assetto di distribuzione territoriale di stampo ottocentesco.
Di questo risultato, che non esitiamo a definire storico, va dato merito particolare alla tenacia e alla fermezza del Ministro della giustizia prof.ssa Paola Severino.
Si tratta di un intervento tanto atteso quanto complesso, segnato da marcate resistenze che non hanno del tutto cessato di manifestarsi e che occorrerà vincere anche nella fase di attuazione della nuova disciplina. Non è difficile, infatti prevedere che le inevitabili difficoltà attuative costituiranno occasione per reazioni volte a rimettere in discussione singoli aspetti delle scelte effettuate e a ritardarne gli effetti. Sarà compito di tutti coloro che rivestono ruoli di responsabilità adoperarsi, con lealtà e ferma volontà, per dare risposte intelligenti e praticabili ai problemi reali e di assicurare che il nuovo assetto possa in tempi rapidi iniziare a dispiegare i propri effetti positivi che tutti ci attendiamo.
Un particolare rilievo va attribuito alla definizione delle nuove piante organiche degli uffici giudiziari. I pur limitati progressi compiuti sul piano della statistica giudiziaria consentono oggi una maggiore conoscenza dei flussi di lavoro dei singoli uffici e dei diversi
settori. Ciò autorizza a confidare che alla revisione delle circoscrizioni faccia seguito nei tempi previsti una non limitata riformulazione delle dotazioni degli uffici, che trovi fondamento sulle migliori conoscenze dei dati e colga così l'occasione per aumentare il grado di corrispondenza fra le risorse umane e i bisogni delle singole realtà.
Quanto appena detto consente di richiamare le autorità competenti alla necessità che l'analisi sulla riduzione della spesa pubblica non penalizzi ancora a lungo il settore giudiziario. Nei fatti, il turn over del personale amministrativo e tecnico è assente da oltre dieci anni; l'età media del personale rasenta i 50 anni (limite superato dalla metà dei dipendenti) ed è atteso nei prossimi mesi e anni un massiccio pensionamento delle persone più esperte, che ricoprono spesso ruoli di coordinamento e direzione. L'insieme dei due fenomeni e il crescente bisogno di interventi sulla tecnologia, che richiede personale culturalmente e tecnicamente attrezzato, costituiscono un mix che può avere effetti molto seri sull'efficienza del lavoro giudiziario.
Già oggi sono evidenti, e diventano sempre più allarmanti, i ritardi di adempimenti elementari causati da carenza degli organici amministrativi: in taluni uffici giacciono per anni centinaia e centinaia di sentenze civili, depositate e sottoscritte dai magistrati, in attesa di pubblicazione. Rilievi analoghi possono farsi nel settore penale, com’è esperienza diretta di questa Corte, che ha dovuto costatare intollerabili ritardi nella trasmissione degli atti per il giudizio di cassazione, causati anche dagli adempimenti relativi alla notifica degli estratti contumaciali agli imputati.
Non bisogna nascondersi che la prima fase di attuazione della riforma delle circoscrizioni comporterà costi aggiuntivi, necessari per mettere le sedi accorpanti e il personale di magistratura e amministrativo nelle condizioni di operare in modo efficiente fin dai primi momenti, così minimizzando gli inconvenienti per gli operatori e, soprattutto, per gli utenti del servizio. Tale evenienza non deve essere sottovalutata, ma va affrontata in un'ottica di sistema e nella prospettiva dei vantaggi a regime, evitando di inseguire "falsi risparmi" che, come insegna l'esperienza, producono inconvenienti e costi maggiori.
2. La Scuola superiore della magistratura.
La novità di rilievo intervenuta nel 2012 è costituita dall’avvio del funzionamento della Scuola superiore della magistratura, che segna un’ulteriore tappa dell’avvicinamento dell’Italia all’Europa.
Mentre Albania, Belgio, Bulgaria, Francia, Grecia, Irlanda, Lettonia, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Spagna, Portogallo, Romania, Slovacchia e Svezia già dispongono di Scuole di formazione giudiziaria da anni (e in alcuni casi da decenni:
l’istituto di formazione in Francia risale al 1958), il nostro Paese si è dotato di una Scuola solo nell’anno appena trascorso, così adeguandosi con ritardo ai suggerimenti dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa. L’avvio dell’operatività della Scuola è avvenuto a distanza di tempo anche rispetto all’originaria previsione normativa interna, posto che
l’istituzione della Scuola è stata prevista con la legge di delega n. 150/2005.
L’evoluzione nell’anno, tuttavia, è stata alquanto rapida. Lo statuto della Scuola, espressione della sua autonomia, è stato adottato il 6 febbraio 2012. Il 29 maggio 2012 è stato sottoscritto dal Ministro della giustizia, dal presidente della Scuola, dalla Regione Toscana e da enti locali un protocollo d’intesa che ha consentito la messa a disposizione dell’istituto formativo di una villa del 1500, a pochi chilometri da Firenze. Parallelamente è iniziata l’attività a Roma di un ufficio della Scuola.
Grazie alle sinergie tra tutti gli enti interessati, l'inaugurazione dell'attività didattica è avvenuta il 15 ottobre 2012 alla presenza del Capo dello Stato e delle altre autorità, nonché dei magistrati in tirocinio nominati con D.M. 8 giugno 2012, che il 16 ottobre hanno avviato l’innovativa sessione di formazione residenziale, destinata a completare la tradizionale sessione decentrata presso gli uffici giudiziari, correggendone i profili critici quali le difformità su basi territoriali, legate anche alle difficoltà di gestione di alcuni uffici in maggior affanno, migliorando ed affinando la valutazione dei giovani magistrati. Un ruolo determinante, in tale attività, riveste la nuova figura dei “tutori” dei magistrati in tirocinio, formatori che, durante la sessione residenziale, assistono piccoli gruppi di formandi, stabilendo con loro un rapporto di assistenza e consiglio destinato a sostituirsi a quello che, in passato, svolgevano i magistrati collaboratori in sede decentrata.
Nel novembre del 2012 la Scuola ha diffuso, con rinnovate modalità espositive ispirate a criteri di concisione e leggibilità, un programma imponente di formazione permanente, con la previsione di ben 76 corsi, anche connotati da nuove metodologie didattiche. L’offerta formativa è in linea con quella precedentemente offerta dal C.S.M., salve ulteriori possibilità di reiterazioni di moduli formativi e di integrazione del programma con corsi di natura internazionale.
La programmazione ha riscosso indubbio successo, considerato che la risposta dei magistrati è stata assai elevata, essendo pervenute richieste di ammissione ai corsi da parte di 5.836 aventi diritto, che hanno formulato oltre 20.000 domande di partecipazione; sono stati ammessi 4.923 magistrati, un numero particolarmente significativo. Ai magistrati non ammessi potrà garantirsi, in successive offerte formative, ammissione prioritaria.
La Scuola ha ricevuto i primi riconoscimenti internazionali, essendo stata ammessa alla Rete europea di formazione giudiziaria ed alla Rete di Lisbona. Ha altresì stipulato un accordo di collaborazione con l’Istituto universitario europeo ai fini della formazione internazionale ed europea.
Su tali basi, e dopo l’avvio del core business legato alla formazione iniziale e permanente, notevoli sfide permangono in rapporto alla definitiva operatività della Scuola in tutti gli ambiti nei quali avrebbe dovuto realizzarsi il subentro di essa nel patrimonio di esperienza e di iniziative accumulato negli anni scorsi dal C.S.M..
In particolare, resta da definire il quadro organizzativo e ordinamentale nell’ambito del quale la nuova istituzione dovrà agire nei settori della formazione decentrata, della formazione internazionale, della formazione dei direttivi e semidirettivi (in rapporto ai quali la Scuola contribuisce anche all’attività valutativa), nonché della formazione dei magistrati onorari. Non pare dubbio – in particolare dopo che la modifica dell’art. 2 del decreto legislativo n. 26 del 2006 introdotta dalla legge n. 111/2007 al fine di attuare, anche nella materia della formazione decentrata e internazionale, la previsione dell'art. 1, comma 2, del
decreto, che prevede l'attribuzione alla Scuola in via “esclusiva” della competenza in materia di aggiornamento e formazione dei magistrati – che anche in tali settori debba provvedersi al rapido avvio delle competenze della nuova istituzione, a fronte del residuare in capo al C.S.M. e al Ministero del potere di fornire linee programmatiche, aventi natura di proposta, a cadenza annuale.
Allo scopo di risolvere le questioni attinenti al passaggio delle funzioni dal C.S.M. alla Scuola, nonché per provvedere alle necessità logistiche e di personale di essa, già dal 25 gennaio 2012, è stato istituito un tavolo tecnico tra Scuola, Ministero e C.S.M..
Rimane il problema del personale amministrativo, che oggi è limitato a meno di una dozzina di unità di addetti, mentre le risorse umane dovrebbero essere almeno equivalenti a quelle sinora utilizzate, posto che la Scuola è preposta, oltre che a tutte le attività già di competenza del Consiglio superiore, anche a nuove attribuzioni (si pensi, in particolare, alla gravosa gestione della sessione residenziale dei magistrati di nuova nomina, presenti per sei mesi del loro tirocinio presso la Scuola).
L’avvio della Scuola segna un momento di grande rilievo per la nostra istituzione giudiziaria, giacché dalla sua attività verrà un sicuro apporto di formazione di eccellenza, che alimenterà nei magistrati l’acquisizione di ulteriori capacità tecniche e una più solida coscienza del ruolo della giurisdizione, anche nella dimensione continentale.
Come ha ricordato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel suo intervento all’inaugurazione dei corsi di formazione per i magistrati ordinari in tirocinio, "nel solco dell'esperienza compiuta in questo campo dal Consiglio superiore della magistratura, la Scuola saprà assicurare una crescita, tra i nostri magistrati, del livello di professionalità, arricchendone anche l'apertura europea, e insieme della complessiva consapevolezza della missione che ad essi assegna la Costituzione repubblicana”.


3. Innovazioni tecnologiche. In particolare: il processo civile telematico.
Nelle relazioni degli anni precedenti si è dato conto ampiamente della capacità di autoriforma espressa dai giudici in diversi uffici giudiziari, in collaborazione con avvocati e funzionari amministrativi, nel solco tracciato dalla diffusione degli Osservatori sulla giustizia civile e dei protocolli di udienza per la gestione dei processi e degli uffici.
Si tratta di prassi virtuose che certamente non hanno trovato sostegno nei tagli lineari operati in modo non selettivo sulle risorse, ma che nonostante tutto possono dirsi positivamente affiancate da due nuove leve di cambiamento.
La prima è costituita dal processo civile telematico, la cui evoluzione, per quanto proceda a rilento e in modo non lineare, presenta già adesso articolazioni importanti e foriere di positivi sviluppi. Apprezzamento va al completamento della copertura di tutti gli uffici del territorio nazionale con i registri informatici di cancelleria civile, presupposto fondamentale per la realizzazione del processo telematico, e la diffusione presso alcuni importanti uffici di servizi di grande impatto, quali i decreti ingiuntivi telematici e le comunicazioni telematiche di cancelleria, che hanno incontrato favore e plauso nell’avvocatura. Secondo i dati pubblicati dal Ministero della giustizia, ad ottobre 2012, circa 200.000 avvocati (ovvero l'82% dell'avvocatura italiana) erano muniti di posta elettronica certificata e raggiungibili con tale strumento da comunicazioni aventi valore
legale secondo le modifiche introdotte dall’art. 25 della legge 12 novembre 2011, n. 183 e dal D.M. 21 febbraio 2011, n. 44.
Va valutato con estremo favore il fatto che gli uffici in cui queste innovazioni hanno trovato radicamento registrano forti esperienze di collaborazione tra magistrati, personale di cancelleria, avvocatura e gli stessi enti territoriali, con la creazione di veri e propri laboratori partecipati e l'adozione di prassi interpretative condivise.
Recentissime riforme legislative hanno dato definitivo impulso al processo civile telematico. Il D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito in legge 17 dicembre 2012, n. 221, ha stabilito che le comunicazioni e le notifiche a cura della cancelleria debbano essere effettuate in modo esclusivo con modalità telematiche – con regolazione temporale graduata dell’entrata in vigore della norma nei vari uffici giudiziari – ed ha introdotto, a partire dal 30 giugno 2014, l’obbligatorietà dei depositi telematici degli atti processuali relativi a molteplici procedure.
E’ auspicabile che il Ministero accompagni l’introduzione dell’obbligatorietà del processo civile telematico con investimenti mirati e idonei ad assicurare formazione, sviluppo dei sistemi, fornitura delle dotazioni necessarie e non ultimo una seria assistenza informatica, che allo stato ancora oggi appare non sufficientemente adeguata a sostenere una continuità dei servizi.
Ancor più indispensabile e urgente è l'adozione di una chiara indicazione di scelte politiche e strategiche di coordinamento governativo, di progettualità ampliate ai vari settori che l’obbligatorietà del telematico interessa: l’organizzazione delle strutture degli uffici, la normazione, l’interpretazione.
Occorre, più in generale, procedere al ripensamento dell’impianto degli istituti processuali attualmente vigente per giungere ad una rielaborazione degli stessi che meglio si adatti alla gestione informatizzata del processo. La giurisprudenza di merito e la stessa Corte di cassazione stanno operando in tale direzione, come dimostra anche la sentenza del 20 giugno 2012 n. 10143 a Sezioni unite civili, che ha fornito una interpretazione evolutiva dell’istituto della domiciliazione ai sensi dell’art. 125 e 366 c.p.c. come modificati dalla legge 183/2011, sottolineando l’ormai sopravvenuta inutilità della domiciliazione ex art. 82 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37.
In conclusione, riteniamo che questi processi di innovazione organizzativa, culturale e normativa debbano essere guidati da un progetto coerente che spetta all'amministrazione centrale sostenere e assicurare.


4. Il cd. Ufficio del processo.
Per quanto concerne la seconda leva di innovazione, e cioè quello che viene definito l’Ufficio del processo, si è in presenza di un modello organizzativo di innovazione del lavoro giudiziario ispirato ad una totale revisione dei processi organizzativi e relazionali tra tutti gli operatori del settore, orientato alla creazione di una o più figure qualificate di assistente del giudice che possano coadiuvarlo nei processi di semplificazione e razionalizzazione delle attività, con compiti anche di ricerca e studio.
I tribunali nei quali la sperimentazione, basata sul ricorso al meccanismo degli stages, è in corso da qualche anno registrano importantissimi risultati in termini di maggiore qualità ed efficienza nella gestione dell’udienza e della complessiva attività del giudice, di riduzione del carico del singolo giudice, di coordinamento con il lavoro delle cancellerie.
Dati di monitoraggio effettuati presso i Tribunali di Firenze e Milano hanno confermato una incidenza nella definizione dei procedimenti di almeno il 15% annuo.
Le prime positive sperimentazioni dell’Ufficio del processo hanno ottenuto un decisivo riconoscimento normativo con l’art. 37 della legge n. 111/2011, che, ai commi 4 e 5, prevede la possibilità per i capi degli uffici giudiziari di stipulare convenzion con le facoltà universitarie di giurisprudenza, con le scuole di specializzazione e con i consigli dell'Ordine degli avvocati, per lo svolgimento di parte delle attività formative presso gli uffici giudiziari, con un’ampia possibilità di affiancamento ai magistrati di specializzandi, dottorandi e praticanti avvocati con compito di collaborazione e di studio.
In questo nuovo contesto si registra un ripensamento del ruolo dei giudici onorari di tribunale nel settore civile. In particolare, il C.S.M. ha emanato una prima circolare che al par. 61 amplia la possibilità di affiancamento del giudice onorario al giudice togato, con previsione di un ruolo aggiuntivo, che sarà gestito con l’ausilio dell'onorario; autorizza l'assegnazione di un ruolo autonomo al giudice onorario in caso di significative vacanze nell’organico dell’ufficio; modifica lo strumento della supplenza.
La nuova disciplina dei giudici onorari e l'impiego dei tirocinanti, se inseriti all'interno di un progetto coerente, possono concorrere a sviluppare e diffondere un modello di ufficio del processo in grado di modificare radicalmente e positivamente l'organizzazione degli uffici giudiziari e il loro concreto funzionamento, secondo una impostazione che ha trovato apprezzamento e impulso nella risoluzione del Consiglio superiore della magistratura in data 22 febbraio 2012.
Può così affermarsi che la sperimentazione dell'Ufficio del processo sta incidendo in modo significativo sulla innovazione culturale che accompagna i processi di riorganizzazione del lavoro del magistrato e che consolida gli effetti del processo civile telematico.
L'apporto ragionato e intelligente degli assistenti del giudice alimenta, in primo luogo, la possibilità di costruzione di banche dati dell’ufficio, di creazione di una memoria storica del ruolo, di condivisione tra i magistrati delle scelte interpretative e di trasparenza delle decisioni nei confronti dei cittadini. In secondo luogo, rappresenta, attraverso le competenze informatiche e tecnologiche dei più giovani, un volano di diffusione del processo telematico sia all'interno degli uffici giudiziari sia nell'ambito della professione forense, in una prospettiva realmente circolare e condivisa dell’innovazione organizzativa e informatica della giustizia civile.


5. I programmi per la gestione dei procedimenti civili (art. 37 d.l. n. 98/2011).
Tra le innovazioni che possono contribuire ad un miglioramento dell’organizzazione degli uffici giudiziari va inclusa l’applicazione dell’art. 37 del decreto-legge 6 luglio 2011 n. 98, convertito dalla legge 15 luglio 2011 n.111, contenente “disposizioni per l’efficienza del
sistema giudiziario e la celere definizione delle controversie” civili. Il legislatore ha imposto ai capi
degli uffici giudiziari di redigere, entro il 31 gennaio di ogni anno, un programma per la gestione dei procedimenti civili, nei quali si indichino gli obiettivi di riduzione della durata dei procedimenti e di rendimento dell’ufficio, “tenuto conto dei carichi esigibili di lavoro dei magistrati” individuati dal C.S.M..
Il Consiglio superiore ha dato attuazione a questa previsione elaborando la circolare del 2 maggio 2012, che fissa i carichi esigibili di lavoro dei magistrati, desumendoli dalla produttività dei singoli uffici nell’ultimo quadriennio trascorso. Da diverse Corti di appello è stata rilevata la particolare complessità di detta circolare.
Tuttavia, al di là del contenuto della deliberazione del C.S.M., va segnalato che si è pervenuti a determinare i carichi di lavoro esigibili dai magistrati, senza dare attuazione ad un’altra precedente disposizione normativa (art. 11 del decreto legislativo 5 aprile 2006 n.160, come riformulato dalla legge 30 luglio 2007 n.111), la quale ha, da tempo, imposto al C.S.M. di fissare gli standard medi di rendimento dei magistrati, funzionali al parametro della loro laboriosità, che viene in rilievo nelle periodiche valutazioni di professionalità prescritte dal nuovo ordinamento giudiziario.
La mancata applicazione della legge del 2007, oltre a rendere più difficile una misurazione puntuale della laboriosità del singolo magistrato, ha l’effetto grave di impedire un confronto sulla idoneità organizzativa degli uffici giudiziari del medesimo tipo ed una ricerca sulle ragioni per le quali i processi, in certi tribunali o corti di appello, durano il doppio o il triplo che in altri (si è parlato, esattamente, di una “giustizia a varie velocità”).
I carichi esigibili previsti dal citato art. 37, per come sono stati determinati dal C.S.M., esprimono invece la “produttività” del singolo ufficio e non sono comparabili con quelli fissati per altri uffici perché, come si è detto, derivano dal rendimento dello stesso ufficio negli anni precedenti. Tale collegamento, se è utile per rendere realistica la fissazione (nel programma annuale) degli “obiettivi di rendimento dell’ufficio” (lettera b del comma 1 dell’art. 37), può comportare difficoltà per la realizzazione dell’altra finalità del programma, consistente nella “riduzione della durata dei procedimenti” (lettera a dello stesso comma 1), nella misura in cui non incentiva aumenti di rendimento del singolo magistrato, oltre la fascia indicata dal C.S.M. del 15 % (in più o in meno) dell’indice desunto esclusivamente dai risultati degli anni precedenti.
L’art. 37, nei commi 11-13, prevede, altresì, misure economiche incentivanti a favore degli uffici che hanno ridotto il numero dei procedimenti civili pendenti rispetto all’anno precedente. Questa parte della normativa è ampiamente criticabile.
Innanzitutto la diminuzione (da un anno all’altro) dei procedimenti pendenti non è frutto soltanto del numero dei processi definiti dall’ufficio nell’anno preso in considerazione (e quindi dalla sua capacità “produttiva”, che l’incentivo intende premiare), ma, in uguale misura, dal numero di processi sopravvenuti, che è un fatto esterno e del tutto estraneo alla organizzazione dell’ufficio. Inoltre – come ha esattamente rilevato la Corte di appello di Torino - la riduzione delle pendenze può ottenersi mediante la concentrazione degli sforzi sul contenzioso di più agevole soluzione (per esempio, le cause seriali), prescindendosi dagli effetti della riduzione stessa sulla durata dei procedimenti (se non si considera la data di inizio del procedimento) e venendosi così a non realizzare un
miglioramento della durata dei giudizi, che è l’obiettivo perseguito dall’art. 37.
E’ comunque un fatto positivo che i Capi degli uffici giudiziari siano obbligati a redigere annualmente un programma per la trattazione dei processi (la legge si riferisce soltanto a quelli civili, ma il Consiglio superiore della magistratura ha opportunamente consigliato una estensione del programma anche al settore penale), venendo in tal modo indotti a considerare la gestione dell’ufficio ed a prefissare gli obiettivi raggiungibili nell’anno successivo.
Merita apprezzamento la istituzione di un ufficio di statistica destinato a fornire a tutto il Consiglio superiore le informazioni necessarie sul lavoro che caratterizza ciascun ufficio giudiziario e sull'attività dei singoli settori e dei singoli magistrati. Vanno, tuttavia, sciolti i nodi
che concernono la composizione a regime dell'ufficio e la sua operatività nel contesto anche dei rapporti con la Direzione generale di statistica e con il Sistan. Su questi temi il Consiglio è chiamato a fornire sollecite risposte per garantire l'efficace operatività delle proprie strutture interne e per assicurare a tutto il servizio giustizia quelle decisioni rapide e documentate che si rendono ogni giorno più necessarie.
6. Il rapporto con gli utenti.
Più volte si è considerato il sistema giudiziario nel suo aspetto di servizio pubblico, ciò che implica l’acquisizione e la diffusione tra tutti gli operatori giudiziari, a cominciare dai magistrati, di una cultura e di una prassi del servizio da rendere, accanto alla cultura della funzione da esercitare. Al riguardo il rapporto CEPEJ 2012 dedica un’approfondita analisi ai diritti e alla fiducia degli utenti, considerando i tre aspetti della informazione, della protezione dei soggetti “vulnerabili” (vittime di violenze domestiche e di fatti di violenza in genere, minori, persone handicappate, esponenti di minoranze etniche), dell’indennizzo per il mal funzionamento delle corti (durata eccessiva dei giudizi, mancata esecuzione delle decisioni, arresti o condanne ingiustificate). Da questo punto di vista vanno segnalati alcuni miglioramenti nel nostro Paese.
Per quanto riguarda l’informazione degli utenti la legge 7 giugno 2000, n. 150, contenente la disciplina delle attività d’informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni, ritenuta pacificamente applicabile anche agli uffici giudiziari, oltre a prevedere la creazione degli “uffici stampa” e dei “portavoce”, ha individuato le specifiche funzioni degli Uffici per le relazioni con il pubblico (Urp), istituiti con l’art. 12 del d.lgs. n. 29 del 1993 (ora art. 11 del d.lgs. n. 165 del 2001) consistenti nel: a) garantire l'esercizio dei diritti di informazione, di accesso e di partecipazione di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni; b) agevolare l'utilizzazione dei servizi offerti ai cittadini, anche attraverso l'illustrazione delle disposizioni normative e amministrative, e l'informazione sulle strutture e sui compiti delle amministrazioni medesime; c) promuovere l'adozione di sistemi di interconnessione telematica e coordinare le reti civiche; d) attuare, mediante l'ascolto dei cittadini e la comunicazione interna, i processi di verifica della qualità dei servizi e di gradimento degli stessi da parte degli utenti; e) garantire la reciproca
informazione fra l'ufficio per le relazioni con il pubblico e le altre strutture operanti nell'amministrazione, nonché fra gli uffici per le relazioni con il pubblico delle varie amministrazioni.
La legge ha lanciato una vera e propria sfida culturale all’interno della pubblica amministrazione e, in particolare dell’amministrazione della giurisdizione, per portare il cittadino al centro del servizio, e tale sfida è stata accolta, a cominciare proprio dalla Corte di cassazione che, fin dal 2009 ha istituito l’Urp, da un crescente numero di uffici giudiziari.
Inoltre, al dicembre 2012, ben 108 uffici giudiziari hanno già aderito e 84 hanno chiesto di aderire al progetto "Diffusione di buone pratiche negli uffici giudiziari", elaborato nell’ambito della programmazione del Fondo Sociale Europeo 2007–2013, e diretto a favorire la diffusione sul territorio nazionale dell’esperienza di innovazione organizzativa e di miglioramento della qualità dei servizi realizzata dalla Procura di Bolzano con la precedente programmazione del Fondo sociale europeo 2000-2006. Le finalità e gli obbiettivi del progetto sono quelli di aumentare la qualità dei servizi della giustizia civile e penale; di ridurre i costi di funzionamento dell’organizzazione giudiziaria; di aumentare la capacità di informazione e comunicazione; di aumentare la responsabilità sociale degli uffici giudiziari sui risultati e sull’uso delle risorse pubbliche. Tali finalità dovranno essere raggiunte attraverso l’analisi e la riorganizzazione degli uffici; la valutazione dei livelli di tecnologia esistenti per l’implementazione di meccanismi di gestione elettronica di richieste dell’utenza; l’introduzione della Carta dei servizi; la redazione del Bilancio sociale; la certificazione di qualità ISO 9000; l’uso efficace dei siti web anche per erogare servizi online.
Lo stato di attuazione dei progetti effettivamente adottati sembra soddisfacente.
Il Consiglio superiore della magistratura, con delibera 16 marzo 2011 ha istituito nell’ambito del proprio sito una banca dati nazionale delle buone prassi.
Tre corti d’appello (Genova, Lecce e Milano), due procure generali (Bologna e Genova), dieci tribunali (Bari, Brescia, Ferrara, Lecco, Milano, Monza, Ravenna, Rovereto, Taranto e Trieste), otto procure della Repubblica (Avezzano, Lecco, Milano, Monza, Ravenna, Rovereto, Trieste, Trento), un tribunale per i minorenni (Bari), due giudici di pace (Taranto e Trieste) hanno pubblicato bilanci sociali contenenti il rendiconto della gestione economico-sociale dei servizi, delle risorse impiegate e dell’efficacia dell’azione svolta.
Due procure generali (Bologna e Genova), due corti d’appello (Genova e Lecce), nove tribunali (Bari, Bolzano, Ferrara, Potenza, Ravenna, Reggio Emilia, Rovereto, Taranto e Trieste), sei procure della Repubblica (Avezzano, Ravenna, Rovereto, Teramo, Trento e Trieste), due tribunali per i minorenni (Bari e Salerno), due giudici di pace (Taranto e Trieste) hanno pubblicato carte dei servizi contenti informazioni agli utenti sui servizi offerti, sulle modalità di erogazione e sugli standard di qualità previsti.
Le procure della Repubblica di Avezzano e di Trento hanno ottenuto la certificazione di qualità.
Nel maggio del 2012 è stato presentato al Senato il primo rapporto sulla “valutazione civica” di nove tribunali civili (due 'grandi', Milano e Napoli; tre 'medi', Taranto, Cagliari, Modena; quattro 'piccoli', Alessandria, Enna, Lamezia Terme, Trieste), frutto di un progetto realizzato con la collaborazione di Cittadinanzattiva, Associazione nazionale magistrati, Associazione dei dirigenti sulla base di interviste ai dirigenti degli uffici e di osservazione diretta di 59 indicatori (tra i quali la presenza o meno di Urp e sito web del
tribunale; cartellonistica e segnaletica informativa; informazione sui tempi di attesa;
accessibilità locali; modalità di comunicazione del rinvio delle udienze; presenza di servizi di mediazione culturale; analisi dei reclami e provvedimenti seguiti agli stessi; rendiconto annuale delle attività e dei risultati; forme di consultazione e partecipazione delle organizzazioni civiche).


5. La giustizia penale
1. Pendenze e tempi di definizione degli uffici di merito.
1.1. Uffici giudicanti: movimento dei procedimenti.
In base ai dati comunicati dal Ministero, nel settore della giustizia penale di merito, nel periodo 1° luglio 2011-30 giugno 2012, i procedimenti complessivamente iscritti (con autori noti) sono stati 3.271.301, segnando una flessione (-3,1%) rispetto ai 3.374.486 dell’anno precedente.
In particolare ne risultano iscritti: n. 100.023 (-0,2%) nelle corti di appello; n. 1.306.289 (-3,1%) nei tribunali; n. 225.251 (-6,8%) negli uffici dei giudici di pace; n. 44.387 (+5,0%) nei tribunali per i minorenni.
Nello stesso periodo sono stati definiti complessivamente 3.178.265 procedimenti, -2,3% rispetto ai 3.254.025 del periodo precedente.
In particolare i procedimenti definiti sono: n. 90.112 (+19,2%) nelle corti di appello;
n. 1.228.231 (-3,3%) nei tribunali; n. 220.433 (-2,8%) negli uffici dei giudici di pace; n. 40.662 (-5,5%) nei tribunali per i minorenni. Al 30 giugno 2012 si rileva un aumento della pendenza complessiva del 2,3% (3.400.804 rispetto ai 3.325.732 dell’anno precedente). E specificamente: n. 239.125 (+4,3%) nelle corti di appello; n. 1.279.492 (+4,9%) nei tribunali; n. 163.406 (+4,3%) negli uffici dei giudici di pace; n. 40.453 (+10,1%) nei tribunali dei minorenni. La pendenza dei procedimenti davanti al giudice monocratico è aumentata da 434.569 a 471.493 e quella dinanzi al giudice collegiale è aumentata da 21.802 a 22.484.
1.2 Modalità di definizione dei procedimenti.
Dai dati ministeriali emerge la diminuzione del 3,3% del numero complessivo delle definizioni dei procedimenti ordinari, che cala da 1.270.160 a 1.228.231.
Analizzando, nel dettaglio, le modalità di definizione dei procedimenti di primo grado, si rileva la sostanziale stabilità del dato relativo alle definizioni dei procedimenti con rito ordinario attualmente ammontanti a n. 163.467 unità (293 ricorsi in meno rispetto all’anno precedente).
Quasi immutato è il numero dei procedimenti definiti con giudizio immediato (da 4.744 a 4.721), mentre si riscontra un decremento dei procedimenti trattati con rito direttissimo (da 7.412 a 6.365).
Diminuisce il numero dei procedimenti definiti con rito abbreviato: da 17.638 a 13.032 per quanto riguarda quelli disposti nell’ambito del rito direttissimo e da 34.754 a 33.681 per quanto concerne i procedimenti ordinari.
In calo è il numero dei procedimenti definiti con decreto penale (da 90.474 a 81.600).
I procedimenti definiti con sentenza di applicazione della pena su richiesta delleparti registrano invece un incremento da 83.487 a 86.582 e cresce anche il numero dei procedimenti disposti all’esito di opposizione a decreto penale di condanna da 12.853 a 14.213.
1.3. I tempi di definizione.
Fatta eccezione per le corti di appello, si registra un aumento dei tempi medi di definizione dei procedimenti penali: da 233 a 265 giorni per i giudici di pace; da 329 a 357 giorni per i tribunali ordinari.
La situazione delle corti di appello appare stabile, facendo registrare la durata di 899 giorni (900 giorni nel periodo precedente).
Si tratta ovviamente di dati medi globali, suscettibili di variazione in ragione dei singoli uffici giudiziari e di eventi contingenti, quali la celebrazione di processi con elevato numero di imputati o di particolare complessità.
In ogni caso va confermato che il nodo critico è rappresentato dalle corti di appello, che continuano a far registrare un tempo di definizione assolutamente incompatibile con i parametri indicati dalla Corte Edu.
Si ripropone l’urgenza già evidenziata nell’anno precedente, di procedere ad opportuni interventi correttivi che investano sia il piano organizzativo sia quello normativo.
Al riguardo si rimanda alle considerazioni svolte nel successivo paragrafo 3.8, in cui si sviluppano alcune riflessioni sulle possibili riforme da apportare alla disciplina delle impugnazioni.
1.4. Uffici requirenti.
Per quanto concerne gli uffici requirenti, si registra una diminuzione delle iscrizioni presso i tribunali ordinari da 1.605.335 a 1.557.981 (-2,9%); mentre aumenta da 36.547 a 37.335 (+ 2,2%) il numero delle iscrizioni nelle procure della Repubblica presso i tribunali per i minorenni.
Le definizioni dei procedimenti delle procure della Repubblica presso il tribunale ordinario diminuiscono da 1.601.788 a 1.559.836 (-2,6%), mentre quelle presso i tribunaliper i minorenni aumentano da 36.559 a 38.923 (+6,5%).
In diminuzione è la pendenza di entrambi gli uffici: più lieve quella degli uffici requirenti presso il tribunale ordinario (da 1.666.208 a 1.662.944, -0,2%), ben più corposa quella degli omologhi uffici presso i tribunali dei minori: da 17.401 a 15.353 (-11,8%).
In aumento è il tempo di definizione dei procedimenti delle procure della Repubblica presso i tribunali, complessivamente salito da 379 a 390 giorni (+2,8%).
2. I dati e i rilievi provenienti dai distretti.
2.1. Le cause di inefficienza.
Permangono sostanzialmente immutate le cause dei ritardi che vulnerano gravemente sia le esigenze di legalità sia la ragionevole durata del processo, addebitate essenzialmente alla insufficienza delle dotazioni di risorse umane e dei mezzi disponibili.
Sul piano organizzativo, unanime è la doglianza riguardante la scopertura degli organici dei magistrati, cui hanno decisivamente concorso anche quest’anno i numerosi pensionamenti determinati dalle modificazioni normative sul trattamento di quiescenza, ma
soprattutto del personale amministrativo, il cui numero da anni è soggetto oramai a riduzione costante.
Si fa rilevare come il blocco del cosiddetto turn over, l'elevato numero di personale amministrativo che opta per il part time e l'età media via via più elevata sono elementi tutti che aggravano, anche in prospettiva, la già precaria situazione.
E’ avvertita in particolare la carenza di personale tecnico per l’assistenza informatica, che sovente dà luogo a notevoli ritardi e disguidi nel lavoro quotidiano. Il presidente della corte d'appello di Cagliari evidenzia l’impegno per la ricerca di soluzioni alternative di sostegno, ricorrendo a stagisti, specializzandi, cassaintegrati, ecc., che hanno però l’evidente limite di non potere sostituire il personale degli uffici giudiziari nei compiti istituzionali, in quanto la responsabilità dell'assistente giudiziario, del cancelliere, dell'ufficiale giudiziario non può essere, per la brevità dell'incarico, assegnata a figure esterne di supporto e non può neppure essere garantito un addestramento professionale adeguato.
Altri, come il presidente della corte di appello di Caltanissetta, sottolineano l’insufficienza e l’inidoneità del ricorso alla mobilità interna del personale da altre amministrazioni, se non per interventi idonei a “tamponare” momentaneamente contingenti difficoltà di funzionamento delle strutture interessate.
Analoghe considerazioni provengono dai presidenti delle corti di appello di Napoli e Brescia, che denunciano la bassa qualificazione professionale delle persone chiamate all’avvicendamento in via precaria, ciò che consente l'impiego in mansioni di basso profilo, laddove invece l'auspicata accelerazione dei processi di innovazione tecnologica in campo giudiziario richiederebbe figure professionali sempre più specializzate o quanto meno abili nell'utilizzo degli strumenti informatici e telematici.
Il presidente della corte di appello di Roma sottolinea come l’insufficienza del personale amministrativo stia determinando l'intasamento di interi settori delle cancellerie con ritardi definiti “drammatici” nelle spedizioni delle notificazioni, nella apposizione del passaggio in giudicato della sentenza e finanche nella redazione delle schede per il casellario giudiziale.
L’informatizzazione degli uffici giudiziari è indubbiamente la strada da percorrere, vincendo le resistenze di quanti ancora (come segnalato ad esempio dal distretto di Caltanissetta) palesano scarsa propensione ad adottare e ad utilizzare mezzi informatici.
Alcune corti di appello (come quella di Brescia) mostrano lodevolmente di curare attentamente tale aspetto realizzando progetti finalizzati alla digitalizzazione di tutti gli atti dei procedimenti penali; la quasi totalità degli uffici del distretto hanno aderito al progetto nazionale di digitalizzazione della giustizia e a quello delle buone prassi.
Per la magistratura onoraria, le considerazioni si concentrano essenzialmente sulla figura del giudice di pace per il quale i presidenti delle corti di appello mostrano generale apprezzamento per l’impegno profuso nella definizione dei procedimenti penali. In alcuni casi (come la corte di appello di Torino), vengono segnalati aumenti dell'arretrato degli uffici del giudice di pace, nonostante le diminuzioni della sopravvenienza, sottolineandosi come tali uffici stiano risentendo di contingenti difficoltà per ripetuti casi di cessazione dall'incarico per limiti di età e la mancanza di tempestiva e contestuale sostituzione. Anche il presidente della corte di appello di Messina evidenzia l’anomalia di un sistema che assicura continuità con proroghe annuali, sottolineando la necessità di periodici ed efficaci
controlli di professionalità.
Dalle corti di appello di Reggio Calabria e di Caltanissetta vengono segnalate le difficoltà a comporre i collegi penali e la necessità di frequenti ricorsi ad applicazioni extradistrettuali per le numerosissime incompatibilità determinate in maniera particolare dai diversi riti prescelti in un procedimento con numerosi imputati.
Si registra infine un generale allarme per le modalità di accesso al patrocinio a spese dello Stato, da più parti ritenuto concausa dell’ingolfamento del sistema giudiziario, ma soprattutto fattore di abnorme aumento dei costi della giustizia, considerato l’elevato valore complessivo raggiunto dalle liquidazioni e tenuto conto che sovente finiscono col beneficiare dell’ammissione al patrocinio persone che non ne hanno diritto. In particolare vari presidenti di corti di appello (tra cui Roma, Catanzaro, Cagliari, Lecce), ribadiscono la necessità di urgenti interventi legislativi al fine di porre riparo alla facilità con cui è possibile
ottenere il beneficio sulla base di mere autocertificazioni, di dubbia veridicità. A riprova di una sostanziale assenza di controlli, si sottolinea come siano infrequenti le richieste di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
2.2. La criminalità organizzata.
Il tema della criminalità organizzata evoca la necessità di una più adeguata analisi in grado non solo di recepire i differenti dati provenienti dalle diverse aree geografiche del Paese, ma anche di elaborare un efficace quadro di supporto alle strategie di contrasto al fenomeno di coordinamento tra gli organi investigativi, compiti estranei alle competenze e al ruolo di un organo giudicante.
Limitando i riferimenti alla descrizione del fenomeno, per come risulta dalle indicazioni distrettuali, il dato di sintesi che emerge è rappresentato anzitutto da una sempre più radicata presenza della criminalità organizzata straniera (balcanica, russa, cinese, nigeriana, rumena, bulgara, ecc), che talvolta si affianca alla criminalità italiana nella gestione di fenomeni tristemente noti, quali il traffico di sostanze stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l’immigrazione clandestina.
La criminalità ha interessi specifici anche in settori più circoscritti quali, ad esempio, il mercato della contraffazione o nel settore del riciclaggio che, in alcuni casi, può rappresentare la chiave per spiegare diffuse attività di investimento immobiliare specialmente in località rinomate del nostro Paese.
La perdurante crisi economica ha, inoltre, reso vulnerabile una serie di piccole e medie aziende che, colpite da carenza di liquidità e riduzione di commesse, risultano esposte, da un lato, alle pretese degli usurai e, dall’altro, ai circuiti del riciclaggio di danaro sporco, fenomeni illeciti egemonizzati dalla criminalità organizzata.
Sempre rilevante è l’attività delle associazioni di stampo mafioso.
Nonostante incoraggianti segnali della società civile e del mondo imprenditoriale,
permangono allarmanti fenomeni di infiltrazione e di condizionamento delle amministrazioni locali (in Calabria, Sicilia e Campania).
La presenza di associazioni legate a tali consorterie, non più localizzate in aree meridionali, si avverte anche in molte altre località del territorio nazionale, quali la Lombardia, la Liguria, il Piemonte o l’Emilia Romagna. Ne è riprova lo scioglimento in
Liguria di due consigli comunali, disposto tra il 2011 ed il 2012 per infiltrazioni mafiose.
Particolarmente aggressiva è stata l’attività della n’drangheta specialmente in Lombardia, ove in alcune province si sono registrati anche fatti di sangue ascrivibili al contrasto degli interessi perseguiti da esponenti di tale organizzazione criminale, che ha dato segni di preoccupante presenza anche in Piemonte.
Camorra e Sacra Corona Unita sembrano avere mantenuto, invece, un raggio operativo locale.
La “presenza silenziosa” di tali organizzazioni in altri contesti territoriali non deve tranquillizzare: come si è avuto modo di costatare nel caso dell’Emilia Romagna, può non esservi un interesse diretto al controllo del territorio da parte di tali organizzazioni criminali, essendo sufficiente per i loro fini operativi assicurare uno stabile collegamento con esponenti delle istituzioni, del mondo imprenditoriale e finanziario.
Nel Lazio, con talune significative recenti eccezioni, sembra emergere la tendenza delle organizzazioni mafiose a non operare con metodologie violente o di sopraffazione tra di loro, ma cercando di mantenere una situazione di tranquillità in modo da poter agevolmente realizzare una progressiva infiltrazione nel tessuto economico e imprenditoriale allo scopo di riciclare, e soprattutto reimpiegare con profitto, i capitali di provenienza criminosa.
2.3. Le altre tipologie dei reati
Passando ad altre tipologie di reati, a parte quelli relativi al traffico di stupefacenti, spesso connesso all’attività delle grandi organizzazioni mafiose, si rileva che da parte degli organi di informazione, anche di recente, è stata sottolineata la correlazione tra la crisi economica che attanaglia il Paese e l’andamento di alcuni fenomeni criminosi.
Anche taluni presidenti delle Corti di appello indicano nella crisi la spiegazione per l’aumento di alcune tipologie di reati, come quelli di bancarotta (distretti di Milano e di Brescia) o quelli contro il patrimonio (distretto di Napoli) il cui aumento rispetto all’anno precedente viene spiegato proprio con il difficile momento del Paese.
Emerge inoltre un pressoché costante aumento dei reati informatici.
Il dato è tanto più allarmante in quanto si riferisce ai reati di frode, danneggiamenti e falsità in documenti informatici, accesso abusivo a sistemi informatici anche con riferimento all’illecito utilizzo di carte di credito, bancomat, ecc., intercettazione di comunicazioni telematiche e violazioni della corrispondenza informatica. Non sono compresi in questa analisi, quindi, i reati connessi alla violazione della legge 22 aprile 1941, n. 633 e successive modificazioni (cd. pirateria informatica), pur trattandosi di fenomeno anch’esso purtroppo notoriamente diffuso, né quei reati legati all’uso illecito di internet quali diffamazioni on-line, pornografia minorile, istigazioni al razzismo, ecc.
Le aggressioni all’integrità ed alla riservatezza dei dati - che costituiscono oggetto, come noto, di specifica tutela anche ad opera del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196concernente il trattamento dei dati personali e delle comunicazioni informatiche - nonchéle frodi on-line rappresentano uno dei problemi più sentiti non solo a livello nazionale, ma anche europeo.
Ampio risalto è stato dato di recente dagli organi di informazione all’iniziativa della Commissione europea di combattere le frodi informatiche e i trafugamenti di dati sensibili via internet e di intensificare la lotta al cybercrime, costituendo un centro europeo per la sicurezza su dati e informazioni digitali, l'EC3 o European Cybercrime Centre, con sede presso il quartier generale dell'Europol a L'Aja.
Anche la Direzione nazionale antimafia segue con particolare attenzione questo fenomeno, segnalandone il carattere transnazionale e l’accertato coinvolgimento della criminalità straniera, soprattutto bulgara e rumena, anche per fatti avvenuti sul territorio nazionale (clonazione di carte di pagamento e truffe informatiche).
Si riscontra una marcata tendenza all’aumento di iscrizione di reati in materia tributaria, con le eccezioni di Messina (-53%) e, in misura minore, di Perugia (-18%).
In tendenziale aumento sono anche i reati di bancarotta. Al dato negativo dei distretti di Palermo, Perugia e Napoli (quest’ultimo segnala una riduzione delle iscrizioni per i delitti di bancarotta di un terzo, con una percentuale del 73,9% con riferimento al tribunale di Santa Maria Capua Vetere), si oppone la situazione degli altri distretti tra cui, oltre ai citati Milano e Brescia, anche Genova (che evidenzia un aumento dei procedimenti da 4 a 235), Venezia (da 435 a 535), Bari (da 101 a 171) nonché di Firenze (+60%), Torino (+7%), Messina (+17%).
Per quanto concerne i reati contro la pubblica amministrazione, in tendenziale
ascesa risultano i procedimenti per corruzione a Messina (+18%), Bari, Napoli (+43,86% nel solo circondario di Santa Maria Capua Vetere), Perugia (+147%), Catania (+39%),Venezia (da 46 a 61).
I reati di peculato, concussione e di malversazione fanno registrare andamenti disomogenei.
I procedimenti per il reato di peculato mostrano un’impennata nel distretto di Bologna, ove la sopravvenienza supera di 875 unità quella dell’anno precedente.
Palermo, pur facendo registrare un dato di media in ascesa (+19%), rileva nello specifico un sensibile aumento solo per il reato di concussione (+44%), mentre segnala in diminuzione il dato relativo ai reati di corruzione (-8%) e peculato (-21%).
Per quanto concerne il distretto di Milano, il numero dei procedimenti trattati rimane sostanzialmente stabile rispetto all’anno precedente, pur segnalandosi aumenti per i tribunali di Varese e Sondrio.
Per quanto concerne l’indebita percezione di contributi e/o finanziamenti concessi dallo Stato, da altri enti pubblici e dalla CEE, la situazione rispetto all’anno precedente si presenta sostanzialmente stabile, ad eccezione di Genova (+38%) e, all’opposto, per Venezia, che fa registrare una diminuzione del 15,9% di procedimenti, e per Messina ove si evidenzia il crollo da 544 a 24 procedimenti.
In tendenziale diminuzione sono gli omicidi volontari consumati. Poche le eccezioni tra cui Genova (+6%) e Caltanissetta (+26%). Si segnalano poi situazioni specifiche, come quella riferita dal Procuratore della Repubblica di Vibo Valentia relativa a ben 32 casi di omicidi volontari tentati o consumati.
Si registra l’aumento dei reati di stalking in quasi tutti i distretti. Vi è da considerare, tuttavia, che questa figura di reato è stata introdotta solo da pochi anni e che, in precedenza, condotte analoghe erano riconducibili ad altre ipotesi di reato.
Donne e minori sono, come noto, le vittime usuali degli abusi e i secondi troppo frequentemente vengono coinvolti anche in pratiche di pedofilia e pornografia.
Va salutata, pertanto, con favore l’entrata in vigore dal 23 ottobre scorso della legge1° ottobre 2012, n.172 con cui è stata ratificata la Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale, siglata il 12 luglio 2007 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa.
E’ stata questa l’occasione per introdurre nuove fattispecie di reato quali l'istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia (articolo 414-bis del codice penale) e l'adescamento di minorenni o grooming (articolo 609-undecies del codice penale), ma anche per aggiornare le disposizioni vigenti in materia di violenza sessuale, colmando le lacune manifestate dalla pratica giudiziaria.
Il presidente della Corte di appello di Lecce evidenzia la drammatica vicenda ILVA di Taranto - “di straordinaria gravità, in quanto si addebita alla predetta società di avere nel tempo provocato un vero e proprio disastro ambientale all’origine anche di una allarmante diffusione di malattie tumorali tra la popolazione dell’interland jonico” - ha posto in primo piano la delicatezza e il prioritario rilievo delle tematiche ambientali.
Dal distretto di Salerno viene giustamente sottolineata l’importanza della specializzazione da parte dei pubblici ministeri e della polizia giudiziaria per una efficace repressione degli illeciti in materia ambientale, apparendo l’entità delle iscrizioni delle notizie di reato strettamente correlate al livello di capacità e di professionalità degli inquirenti.
2.4. Sequestro di prevenzione e sequestro penale.
Oltre alle tipologie di reato in precedenza esaminate, si è ritenuto opportuno anche quest’anno di acquisire dalle Corti di appello elementi di conoscenza sui dati relativi al sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente e al sequestro come misura di prevenzione patrimoniale, a riprova dell’efficacia di una più moderna concezione penalistica, sganciata dall’esclusività della sanzione detentiva ma finalizzata a privilegiare il contrasto delle illecite accumulazioni di ricchezza in modo da rendere “non conveniente” il crimine.
Sul punto abbiamo avuto modo, unitamente al Procuratore generale della Corte, di ribadire questo convincimento nel parere espresso il 22 giugno 2012 a richiesta del Consiglio superiore della magistratura sulla proposta di direttiva europea relativa al congelamento e alla confisca dei proventi di reato nell’Unione.
I due istituti condividono l’obiettivo, sia pure in ambiti evidentemente diversi.
Per quanto concerne il sequestro per equivalente non si sono avute indicazioni di variazioni sostanziali rispetto all’anno precedente. E’ stato apprezzato che, con l’art. 75 della legge 6 novembre 2012 n. 190, il legislatore si è finalmente fatto carico di modificare l’art. 322-ter del codice penale, prevedendo la possibilità di procedere alla confisca per equivalente anche del profitto del reato.
Si tratta di un aspetto importante su cui avevamo richiamato l’attenzione nella precedente relazione, anche su sollecitazione dei presidenti delle corti di appello, che avevano sottolineato come tale mancanza, non emendabile in sede interpretativa secondo la giurisprudenza delle Sezioni unite, fosse gravemente pregiudizievole per l’applicazione
dell’istituto nell’ambito dei reati contro la pubblica amministrazione.
Da più parti viene segnalato l’incremento del numero delle procedure relative alle misure di prevenzione patrimoniali e il crescente ammontare del valore dei sequestri e delle confische, esprimendosi soddisfazione per i risultati raggiunti mediante il ricorso a questo istituto soprattutto nelle aree più direttamente interessate a fenomeni di criminalità mafiosa (Palermo, Catania, Messina, Napoli, Reggio Calabria, Catanzaro).
Nella stessa prospettiva la Direzione nazionale antimafia è impegnata a studiare le possibilità di coordinamento operativo per l’esecuzione dei sequestri anche all’estero (Olanda, Belgio, Francia, ecc.).
E’ evidente la necessità di rimuovere gli ostacoli operativi nel caso in cui – come sempre più spesso accade - i beni da attingere siano collocati fuori dai confini nazionali, ma soprattutto, va apprezzato l’impegno di estendere a Paesi a noi vicini la consapevolezza (maturata con l’esperienza di questi anni) che l’aggressione ai patrimoni illeciti è la forma più efficace e concreta di contrastare i fenomeni di criminalità organizzata che hanno assunto oramai carattere transnazionale.
Alla base vi è l’idea (sottolineata dal presidente della corte di appello di Catania) di Giovanni Falcone, di cui nei mesi scorsi abbiamo voluto ricordare in questo Palazzo di
giustizia, a vent’anni dalla strage di Capaci, l’insegnamento ed il ruolo di guida etica ed operativa nel contrasto alla mafia, ciò che lo accomuna agli altri martiri della criminalità mafiosa o terroristica, a cominciare dal suo fraterno amico Paolo Borsellino.
Vi è generale apprezzamento, pur in presenza di alcune scelte criticate, per l’iniziativa di riordinare e razionalizzare l’intera disciplina delle misure di prevenzione personali e reali, concretatasi nel decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. E’ comune anche il convincimento che la reciproca autonomia tra misure di prevenzione patrimoniali e personali, introdotta con il cd. codice antimafia, abbia rafforzato l'incidenza operativa del controllo dei patrimoni ed ha consentito al sistema penale di realizzare una sostanziale proficua armonizzazione tra le confinanti misure.
Tale soddisfazione non deve impedire tuttavia di prendere coscienza dei problemi ancora segnalati come irrisolti.
La Direzione nazionale antimafia rileva che l’urgenza che ha caratterizzato la fase attuativa della legge delega 13 agosto 2010 n. 136, più nota come “Piano straordinario contro le mafie”, ha prodotto un risultato ancora lontano dall’obiettivo di realizzare un unico corpo normativo antimafia, come strumento di maggiore efficacia per il contrasto alle organizzazioni criminali, sottolineando, con riferimento alla materia delle misure di prevenzione, la cui disciplina è contenuta nel Libro I del d.lgs. 6 settembre 2011 n. 159, chei limiti imposti dalla legge delega hanno fortemente inciso sulla portata dell’intervento legislativo, che si è risolto in un’opera di mera ricognizione e riordino della normativa preesistente.
Si fa notare tuttavia che l’effettiva operatività delle innovazioni introdotte in materia di misure di prevenzione con gli interventi legislativi via via operati (d.l. 23 maggio 2008, n.92, conv. in legge 24 luglio 2008, n.125; legge 15 luglio 2009 n. 94) e, da ultimo, con il d.l. 4 febbraio 2010, conv. con mod. nella legge 31 marzo 2010, n. 50, concernente l’istituzione dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati e sequestrati alle organizzazioni criminali, passa
attraverso una verifica dei profili di criticità emersi sin dalle prime fasi applicative del codice antimafia, cui solo in parte sarà possibile fare fronte con le disposizioni integrative e correttive che l’art. 1 della legge 13 agosto 2010, n. 136, consente di adottare entro tre anni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo.
Inoltre, sempre secondo l’analisi della Direzione nazionale antimafia, occorre avere consapevolezza che per quanto concerne in particolare l’operatività dell’Agenzia nazionale(chiamata a svolgere compiti più rilevanti ed efficaci), non è stato ancora possibile realizzare appieno quelle finalità di ricollocazione nel circuito economico legale dei beni confiscati alla criminalità organizzata a causa dell’inadeguatezza delle procedure amministrative di destinazione e/o assegnazione dei beni.
E’ necessario, da un lato, garantire le indispensabili risorse economiche e strutturali che consentano all’Agenzia di fare adeguatamente fronte ai compiti che le sono assegnati e, dall’altro, assicurare la piena sinergia con gli altri soggetti istituzionali che, a vario titolo, sono coinvolti nel processo di gestione e destinazione dei beni.
In questo contesto non si può che esprimere l’auspicio che, al più presto, si giunga a superare nelle sedi competenti i profili di criticità tuttora esistenti per non vanificare un risultato di strategica importanza qual’è indiscutibilmente il sequestro di prevenzione patrimoniale.


3. Considerazioni sullo stato della giustizia penale.
3.1. La riforma dei reati in tema di corruzione.
Il quadro della giustizia penale di quest’ultimo anno ripropone i più rilevanti aspetti di negatività tracciati nelle precedenti relazioni, dovendosi però registrare come importante segno di novità l’iniziativa legislativa, in tema di riforma dei reati contro la pubblica amministrazione, sfociata nella legge 6 novembre 2012, n. 19091, che, tra le varie disposizioni, eleva sensibilmente la pena massima per i reati di corruzione propria (art. 319 cod. pen.) e di corruzione in atti giudiziari (art. 319-quater cod. pen.) portando così per il
primo reato il termine di prescrizione massimo a dieci anni e per il secondo a dodici anni e sei mesi.
Non è questa la sede per una analitica valutazione degli effetti di un simile importante e complesso intervento normativo, che si segnala non solo per la introduzione delle nuove figure di traffico di influenze illecite (art. 346-bis cod. pen.), di corruzione tra privati (art. 2635 cod. civ.) e per lo scorporo della condotta meramente induttiva del pubblico ufficiale (nuovo art. 319-quater cod. pen., in cui è prevista anche la punibilità del privato) da quella costrittiva (mantenuta confinata nell’art. 317 cod. pen.), ma anche per una serie di misure di carattere preventivo-amministrativo rivolte al contrasto dei fenomeni di illegalità nell’ambito della pubblica amministrazione, il cui effettivo impatto dovrà essere vagliato attraverso la prassi applicativa e l’elaborazione giurisprudenziale.
E’ doveroso, tuttavia, dare atto al Governo di avere concretamente dimostrato consapevolezza dell’esigenza di porre finalmente mano a una incisiva azione di contrasto nei confronti della corruzione, che rappresenta una storica piaga del nostro Paese, al pari
della criminalità mafiosa, e caratterizza in senso negativo l’immagine dell’Italia nel consesso internazionale e incide pesantemente sulla fiducia dei cittadini verso la pubblica amministrazione e, di riflesso, sull’economia nazionale.
Negli ultimi venti anni, il fenomeno corruttivo, in ambito politico, amministrativo ed economico, secondo le valutazioni di attendibili analisti ed osservatori italiani e stranieri, è andato crescendo in gravità e diffusione. A tale allarmante espansione non avevacorrisposto fino ad ora alcuna significativa reazione politica e legislativa, al punto che si è omesso, per undici anni, finanche di procedere alla ratifica della Convenzione penale sulla corruzione fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999, ratifica avvenuta soltanto con la legge 28 giugno 2012, n. 110.
Il Ministro Severino, subito dopo il suo insediamento, pose al centro del suo impegno la corruzione, con una intervista, intitolata “Subito una legge contro la corruzione”.
In un Paese ricco di annunci e carente di realizzazioni, dobbiamo costatare che la legge promessa è stata approvata ed è entrata in vigore. Quali che siano le valutazioni sulle nuove fattispecie penali, nessuno può negare che questa riforma interrompe finalmente un troppo lungo periodo di inerzia e di indifferenza legislativa, che ha finito per alimentare il fenomeno corruttivo. Di ciò va dato merito al Governo e, particolarmente, alla determinazione, alla tenacia e alla capacità di Paola Severino.
3.2. Eccessiva durata dei procedimenti. Necessità di incidere su più fattori.
La eccessiva durata dei procedimenti costituisce, come è ampiamente noto, un punto dolente che, anche nel settore penale, non mostra segni di inversione di tendenza e continua a caratterizzare sfavorevolmente l’immagine del nostro Paese nel consesso europeo.
L’incidenza dei ritardi della giustizia sull’economia del Paese, da più parti concordemente sottolineata, è questione che riguarda prevalentemente il settore della giustizia civile, ma sarebbe sbagliato sottovalutare l’influsso negativo determinato dalla incertezza sui tempi dell’accertamento dei reati, in specie di quelli che attengono all’attività della pubblica amministrazione e della gestione imprenditoriale.
Lo scorso anno si era osservato che la capacità del sistema giudiziario penale di fare fronte in tempi accettabili al carico dei procedimenti doveva confrontarsi con vari fattori, tra cui venivano in particolare evidenziati i seguenti: numero delle notizie di reato; razionale
organizzazione territoriale e funzionale degli uffici, onde evitare sprechi di risorse; tempi di prescrizione dei reati, di per sé incentivanti tattiche dilatorie; quantità delle procedure incidentali, con particolare riguardo a quelle relative all’applicazione di misure cautelari;
adempimenti formali imposti dalla legge in assenza di esigenze di garanzie; eccessiva rigidità del modulo procedimentale; sistema delle impugnazioni.
Per ognuno di questi aspetti si erano posti in rilievo gli aspetti di criticità e indicate possibili soluzioni, che, senza attenuare il livello delle garanzie realmente identificative di un “giusto processo” nel quadro delineato dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, consentirebbero di perseguire efficacemente l’obiettivo della sua “ragionevole durata”, valore anch’esso affermato, senza alcuna contrapposizione al primo, in quelle Carte fondamentali.
Occorre riconoscere che l’azione del Governo, su impulso in particolare del Ministro della giustizia, ha concretamente mostrato un’accentuata sensibilità verso incisive riforme del settore penale, che se solo in piccola parte è stato possibile portare a compimento, a causa soprattutto del tempo ristretto definito dallo scorcio della legislatura, lasciano comunque sperare che in quella alle porte l’intento riformatore sia ulteriormente perseguito dal nuovo Governo, con simili impegno e chiarezza di idee riformatrici.
3.3. Riduzione delle fattispecie di reato.
Lo sfoltimento delle fattispecie di reato, che secondo una indicazione di fonte non ufficiale raggiungono l’incredibile numero di 35.00095, che anno dopo anno si accresce, rappresenta un obiettivo non eludibile, e va apprezzata l’iniziativa assunta dal Ministro della giustizia di istituire, in accordo con il disegno di legge-delega presentato alla Camera il 29 febbraio 2012 (A. C. 5019-ter), una commissione di studio per la previsione di nuove norme in tema di depenalizzazione, i cui lavori non sono stati interrotti e il cui esito potrà essere affidato tempestivamente all’esame del prossimo Parlamento. Il lavoro di questa commissione potrebbe e dovrebbe utilmente estendersi anche all’individuazione di lineeguida per il legislatore ai fini della valutazione circa la introduzione nel futuro di nuove
figure di reato.
Occorre però ribadire la sollecitazione affinché, accanto ad un’opera di depenalizzazione, che per il vero il citato d.d.l. non delinea come particolarmente incisiva, e ad un parallelo intervento di decriminalizzazione che superi la visione “panpenalistica” rispetto a ogni comportamento deviante dei consociati, si estenda grandemente il novero delle fattispecie perseguibili a querela della parte lesa, soprattutto nei reati che ledono interessi patrimoniali di privati, fatta ovviamente eccezione di quelli caratterizzati dall’uso di violenza o dalla lesione di soggetti deboli. Basti ricordare, soltanto per segnalare l’ordine di grandezza, che dei circa 50 mila ricorsi che pervengono annualmente in Cassazione, il 23 per cento circa riguarda reati contro il patrimonio, in gran parte perseguiti d’ufficio.
3.4. Modifica della disciplina della prescrizione.
La necessità di una revisione della disciplina della prescrizione si basa essenzialmente sulla costatazione del grande numero di procedimenti penali che si risolvono ogni anno con declaratoria di estinzione del reato per questa causa.
Non è superfluo ricordare che la chiusura del procedimento penale per prescrizione rappresenta: un enorme spreco di risorse materiali e umane dell’apparato della giustizia; una vanificazione delle aspettative della società, con conseguente offuscamento della credibilità dell’azione di tutti gli organi dello Stato coinvolti nella repressione dei reati e nell’accertamento di essi; un indebolimento della funzione di prevenzione generale delle comminatorie associate agli illeciti penali; un mancato appagamento delle pretese delle vittime del reato; molto spesso, anche, un rilevante intralcio e ritardo (se non una obliterazione) nel soddisfacimento degli interessi risarcitori dei danneggiati dal reato.
Inoltre, un sistema, nel quale è concreta la prospettiva che il procedimento penale “non si concluda in tempo” per evitare la prescrizione dei reati, è di per sé fattore, da un lato, di incentivo alla proposizione di impugnazioni avventurose, che hanno cioè come unico scopo quello di procrastinare il momento dell’accertamento finale; dall’altro, di disincentivo al ricorso ai riti alternativi, con conseguente intasamento dell’apparato giudiziario e dilatazione dei tempi della giustizia, in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo.
L’alto tasso di prescrivibilità di alcune gravi fattispecie criminose, tra cui quelle in tema di corruzione, favorito spesso dalla emersione ritardata della relativa notitia, ha suscitato, come già sottolineato nella relazione dello scorso anno102, preoccupati richiami da
parte di organismi internazionali.
Abbiamo avuto già modo di avanzare la proposta di una modifica normativa che colleghi termini di prescrizione autonomi ad ogni passaggio di fase o grado, senza limiti temporali massimi globali, così da rendere tendenzialmente ininfluenti tattiche dilatorie della definizione del procedimento e da scoraggiare impugnazioni prive di fondamento; ma ogni altra soluzione che si muova nella stessa finalità ben può essere positivamente salutata, tenendo conto in particolar modo della esigenza di introdurre rimedi alla inazione (non importa se conseguente a fattori non fronteggiabili) dei giudici investiti della impugnazione, una volta affrancati dalla prospettiva di una prossima prescrizione del reato. Nello stesso tempo, dovrebbe essere rivista la disciplina della decorrenza del termine di prescrizione, proprio per ovviare allo squilibrio che intercorre tra reati che si consumano palesemente o vedono come persone offese soggetti privati e reati in cui le modalità del fatto o l’incidenza di questo su interessi esclusivamente pubblici ritarda di gran lunga l’acquisizione della notizia di reato e quindi il concreto inizio dell’accertamento giudiziale.
Il dichiarato intento del Governo di procedere a una profonda revisione della disciplina della prescrizione non ha potuto trovare sbocco in iniziative legislative; ma è motivo di speranza il fatto che l’apposita commissione istituita con decreto del Ministro della giustizia, anch’essa sollecitata a concludere in tempi brevi i suoi lavori con un ben definito progetto di riforma, possa offrire un prodotto che costituisca la base per una pronta iniziativa normativa nella prossima legislatura.
3.5. Il processo contumaciale.
Nell’ambito dei fattori che costituiscono un impaccio alla celere definizione dei procedimenti va annoverata senza dubbio l’attuale disciplina del processo contumaciale, estesa ai casi di irreperibilità dell’imputato, con frequenti superfetazioni procedurali anche dopo la definizione del procedimento, stante l’attivabilità della procedura di restituzione in termini, ex art. 175 cod. proc. pen., anche alla luce della giurisprudenza della Corte Edu, che richiede giustamente conoscenze effettive, e conseguenti facoltà di iniziative difensive, circa l’esistenza di un procedimento a carico.
Si è già avuto occasione di osservare che, se non si vuole rendere coercibile, come previsto in alcuni Paesi, la presenza dell’imputato in dibattimento, il giudizio in absentia dovrebbe riguardare solo i casi in cui l’imputato abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento, in tal modo rendendo equiparabile la sua condizione a quella dell’imputato presente, ed eliminandosi così i gravosi adempimenti successivi alla decisione concernenti la notifica dell’estratto contumaciale; essendo in caso contrario, e cioè di irreperibilità dell’imputato, da sospendere il procedimento (e i termini di prescrizione del reato) fino al momento in cui si abbia notizia della sua reperibilità.
Occorre sottolineare che i ritardi degli adempimenti post-sentenza derivano in gran parte proprio dalla esigenza di notificare l’estratto contumaciale agli imputati contumaci.
Un intervento nel senso auspicato era contenuto nel d.d.l. A.S. 3596, di cui la chiusura della legislatura non ha consentito il vaglio parlamentare. Non può che esprimersi la speranza che esso sia ripresentato nella prossima e celermente esaminato.
3.6. I frequenti mutamenti dell’organo giudicante.
Altra causa di frequente ritardo nella definizione dei procedimenti deriva dai mutamenti dell’organo giudicante: appare conforme al buon senso e alle esigenze dell’amministrazione della giustizia, che devono prevalere su interessi individuali, che nei casi di trasferimento del magistrato ad altro ufficio sia prevista una prorogatio delle sue funzioni nell’ambito del processo già incardinato, quanto meno nei processi in avanzata trattazione dibattimentale.
Inoltre, con riferimento alla ipotesi di giudice collegiale, dovrebbe essere generalizzata la disciplina dell’art. 190-bis cod. proc. pen., prevedendosi la rinnovazione delle acquisizioni probatorie dibattimentali solo se il nuovo esame riguardi fatti o circostanze diverse da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se ricorrano specifiche esigenze: proposte di evidente ragionevolezza, già avanzate nella precedente relazione, che aveva posto in evidenza la compatibilità di esse con la giurisprudenza della Corte Edu.
3.7. Necessità di ulteriori procedure deflative.
Come è ampiamente noto, la riforma in senso accusatorio del codice di procedura penale del 1988, con la conseguente maggiore laboriosità della trattazione dibattimentale, implicava come correttivo imprescindibile un ampio ricorso a procedure accelerate di definizione del giudizio, in un contesto, quale quello italiano, caratterizzato dalla pesante incidenza dei reati contro la criminalità organizzata e dei relativi procedimenti (cd. “maxiprocessi”).
Se è vero che questo obiettivo è stato perseguito dal legislatore con l’estensione dei casi di patteggiamento (cd. “patteggiamento allargato”), sono da registrare, da un lato, passi indietro, dall’altro, una scarsa attenzione a ulteriori procedure deflative del giudizio dibattimentale, la cui introduzione reputo essenziale per la tenuta del sistema processuale penale.
Quanto al primo aspetto, occorre ribadire forte contrarietà, che trova riscontro in quella manifestata da molti autorevoli commentatori, alla soppressione, avvenuta nel 2008, sulla base di impulsi emotivi, dell’istituto del cd. “patteggiamento in appello”, già disciplinato dall’art. 599, comma 4, cod. proc. pen., che aveva prodotto ottimi risultati in termini di abbreviazione dei tempi dei procedimenti di appello, anche in tema di criminalità organizzata.
Un suo ripristino, eventualmente accompagnato da limiti di tipo normativo e dall’adozione di protocolli operativi da osservare nell’ambito degli uffici del pubblico ministero, darebbe un forte impulso alla celere definizione dei procedimenti di appello, e, conseguente, di cassazione.
Con riferimento al secondo aspetto, vanno valutate positivamente l’iniziativa governativa, compresa nel già citato d.d.l. A.S. 3596, di introdurre anche nel procedimento ordinario la messa alla prova (probation), e quella, di impulso parlamentare (A.C. 2094), della definizione del procedimento con declaratoria di irrilevanza (o di particolare tenuità del fatto), istituti già sperimentati, con ottimi risultati, nel processo minorile. Anche in relazione a tali proposte innovative l’auspicio è che esse vengano prontamente riavviate e tempestivamente definite alla ripresa parlamentare.
Occorre però ribadire la necessità di ulteriori interventi deflativi, quali l’ampliamento dei casi di definizione del procedimento mediante oblazione, da estendere anche ai delitti per i quali sia prevista la pena pecuniaria in alternativa a quella detentiva, ove siano eliminate dall’autore del fatto le conseguenze dannose o pericolose del reato, nonché di speciali cause di non punibilità in presenza di sopravvenuta ottemperanza a prescrizioni imposte dall’autorità amministrativa, con ciò introducendosi, in entrambe le situazioni, un aspetto premiale collegato a un ravvedimento operoso dell’autore del reato.
3.8. Disciplina del giudizio di appello.
Con riferimento al sistema delle impugnazioni, è necessario sottolineare che un giudizio di appello che potenzialmente investe l’intero thema decidendum, ma che si articola su moduli decisionali per lo più esclusivamente cartolari basati su una rivisitazione della condivisibilità delle argomentazioni svolte nella sentenza di primo grado, non solo si pone in contraddizione con il modello accusatorio che regge il nostro ordinamento processuale, ma non si giustifica neppure su un piano strettamente epistemologico, non essendo dato comprendere per quale ragione la decisione di merito di secondo grado possa ritenersi in via di principio più idonea al raggiungimento della verità processuale di quella di primo grado.
Nel caso di una sentenza di condanna di primo grado, la riforma in senso assolutorio è logicamente sostenibile solo in base al principio in dubio pro reo, e al canone decisorio recentemente introdotto nell’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., secondo cui la condanna può essere pronunciata solo se l’imputato risulta colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Invece, dopo una sentenza assolutoria in primo grado, non vi sono plausibili ragioni di carattere logico o di sistema per giustificare un esito di reformatio in pejus. La prospettiva che invece merita di essere perseguita, da tempo tracciata da autorevoli studiosi del
processo penale, è, in questa seconda ipotesi, quella di un giudizio di appello con funzione prevalentemente rescindente, idoneo a rimettere il processo, in presenza di violazioni di legge o di vizi di motivazione, davanti al giudice di primo grado.
Una simile soluzione presenterebbe vantaggi in termini di tempi di definizione del procedimento, considerata la prevedibile percentuale di casi in cui, ribaditosi dopo il rinvio, il giudicato assolutorio in primo grado, la decisione non sia ulteriormente impugnata, e, soprattutto, costituirebbe un consistente filtro a ricorsi per cassazione contro decisioni di appello che ritengano fondati i motivi dedotti dal pubblico ministero avverso la sentenza assolutoria di primo grado.
Essa, inoltre, eliminerebbe radicalmente il pericolo di contrasto con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che, come è noto, ritiene non conforme alla previsione dell’art. 6 Cedu il ribaltamento in sede di appello di un giudicato assolutorio non basato su un nuovo esame delle fonti dichiarative di accusa.
Quanto al giudizio di cassazione, si rinvia alle osservazioni svolte nel Capitolo. VIII, § 4, sottoparagrafo 4.5.
3.9. Situazione carceraria. Misure custodiali. Pena detentiva.
Un’attenzione particolare abbiamo il dovere di dedicare alla drammatica situazione carceraria, come peraltro abbiamo già fatto nelle due precedenti relazioni, evidenziando il sovraffollamento degli istituti detentivi; le condizioni di vita degradanti che ne derivano; i tanti suicidi in carcere, sintomo estremo di una inaccettabile sofferenza esistenziale; la sostanziale inattuazione delle Raccomandazioni del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle regole penitenziarie europee; le condanne per situazioni simili ad opera della Corte Edu, che aveva già stigmatizzato come esse fossero contrarie ad umanità, lesive dei diritti fondamentali, indegne di uno Stato democratico.
Evidenziammo lo scorso anno che il problema era altrettanto grave per la detenzione cautelare e per quella definitiva, e come per entrambi gli aspetti non bastasse far appello ad interventi di edilizia carceraria (per altro di difficile realizzazione nei tempi brevi e nella situazione di crisi economica), ma occorressero interventi normativi dello Stato e una assunzione di responsabilità dei singoli giudici nella corretta applicazione dei principî che governano la materia della restrizione della libertà personale e nella sorveglianza del
rispetto dei diritti fondamentali dei reclusi.
Oggi, dobbiamo costatare, sulla base dei dati rilevati dal D.A.P. al 31 dicembre 2012, che nonostante una certa riduzione della forbice, dovuta agli interventi che il Governo è faticosamente riuscito a realizzare, nelle carceri italiani sono presenti ancora 65.701 detenuti, a fronte di una capienza “regolamentare” (divenuta ora) di 47.040 posti: 18.661 reclusi sono dunque in “esubero”.
Se si considera che ciascuno di essi riduce lo spazio minimo vitale di almeno un altro detenuto, deve convenirsi che certamente più della metà della popolazione carceraria è indecorosamente ristretta.
La recentissima sentenza della Corte europea dei diritti umani, che ha ingiunto allo Stato italiano di introdurre, entro un anno, «un ricorso o un insieme di ricorsi interni idonei ad offrire un ristoro adeguato e sufficiente per i casi di sovraffollamento carcerario, in conformità ai principi
stabiliti dalla giurisprudenza della Corte», ha risvegliato la nostra amarezza, assieme a quella di tutti gli operatori del diritto, espressa con parole sofferte dal Presidente della Repubblica, ma era nelle cose annunciata.
Questa sentenza “pilota” (nel senso che, a seguito dell’esame di ricorsi seriali, individua nel sistema deficit strutturali) prescrive allo Stato italiano, con un comando che è anche di legislazione, di porvi rimedio adottando, sotto il controllo del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, le misure individuali e le misure generali necessarie a ovviare alla violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti, sia assicurando adeguati ristori per le violazioni già subite (rimedi compensatori) sia - soprattutto -impedendo simili violazioni e ponendo fine a quelle ancora in essere (rimedi preventivi).
Quello che qui preme sottolineare è che la Corte Edu:
- ha respinto l’eccezione d’inammissibilità del Governo italiano per mancato ricorso ai rimedi interni, sul rilievo che gli stessi si sono mostrati privi di effettività (uno dei ricorrenti, che aveva ottenuto dal magistrato di sorveglianza il trasferimento ad altro istituto, aveva di fatto dovuto aspettare sei mesi per l’attuazione);
- ha preso atto degli sforzi emergenziali compiuti negli ultimi mesi dal Governo, rilevando tuttavia che essi attenuavano solo in minima parte il fenomeno ed evidenziando che soltanto interventi a lungo termine possono risolvere adeguatamente un tale problema strutturale;
- ha sottolineato come le specifiche misure da adottare restano affidate alla valutazione discrezionale delle autorità italiane, ma ha richiamato le raccomandazioni Rec(99)22 e Rec(2006)13 del Comitato dei Ministri che invitano non soltanto gli Stati, ma anche ciascun pubblico ministero e giudice, a ricorrere il più ampiamente possibile alle misure alternative alla detenzione e a riorientare la loro azione in materia penale verso un minor ricorso alla detenzione allo scopo, tra l'altro, di ridurre la crescita della popolazione carceraria (§ 95).
Con riguardo alle misure precautelari e cautelari detentive, nel gennaio 2012, abbiamo qualificato come inaccettabile una percentuale dei detenuti in custodia cautelare pari a circa il 40%, che, per quanto diminuita negli ultimi decenni, e pur tenendo conto del fatto che circa la metà di questa aliquota riguarda imputati condannati in primo grado, rappresenta un sintomo perdurante dei gravi squilibri del sistema processuale penale italiano.
Davamo atto del positivo intervento normativo in tema di interventi precautelari (d.l. 211 del 2001, così detto “porte girevoli”), segnalando tuttavia la necessità oramai inderogabile: della rivisitazione del catalogo dei reati per i quali è imposto l’arresto (con
particolare riguardo a due settori che contribuiscono grandemente all’affollamento carcerario, quello della materia della immigrazione clandestina e quello del piccolo spaccio di sostanze stupefacenti, anche “leggere”); dell’estensione della previsione dell’obbligo di liberazione (art. 121 disp. att. cod. proc. pen.) alle ipotesi di richiesta di misura non custodiale; della riconduzione anche normativa della detenzione carceraria alla sua natura di extrema ratio in controtendenza rispetto agli interventi “emergenziali” (di recente attuati ad esempio sull’art. 275 cod. proc. pen. su spinte emozionali–populistiche, piuttosto che in base a ragioni costituzionalmente accettabili di politica criminale); del potenziamento degli strumenti di tipo interdittivo.
Riconducendo il sacrificio della libertà personale alla sua natura di extrema ratio, non solo si diminuirebbe la popolazione carceraria e si ridurrebbe il pericolo di carcerazioni sofferte da persone che potrebbero poi essere riconosciute innocenti, ma si otterrebbe indirettamente di rendere più celeri i giudizi sul merito della responsabilità penale, riversando su di questi corrispondenti mezzi materiali e umani.
E’ questo che ci spinse a richiamare i giudici a un più responsabile ricorso alla misura carceraria, segnalando come già il sistema imponga di considerare realisticamente le esigenze cautelari e di saggiarne prudentemente l’effettiva attualità; di valutare e privilegiare ogni modo alternativo di loro contenimento, adeguando le decisioni ai principî di proporzionalità e di adeguatezza.
Sennonché, a dicembre 2012 circa il 60% dei 65.701 detenuti, di cui si è detto, risultano condannati in via definitiva; sicché il numero di detenuti in custodia cautelare è ancora inaccettabilmente elevato.
Delle misure legislative suggerite, solo quella del potenziamento delle misure interdittive, come strumento alternativo alle misure coercitive, è stata parzialmente recepita, trovando attuazione nella citata legge 6 novembre 2012, n. 190, che, introducendo nell’art. 308 cod. proc. pen. un comma 2-bis, estende, peraltro con riguardo solo ai reati contro la pubblica amministrazione, la durata di efficacia della misura interdittiva a sei mesi e prevede la possibilità di rinnovazione della misura esclusivamente per esigenze probatorie (mentre, come è ampiamente noto, le misure cautelari vengono in genere disposte soprattutto per fronteggiare il pericolo di reiterazione di condotte criminose).
Nel silenzio del legislatore, sulla presunzione di adeguatezza della sola misura cautelare carceraria è dovuta nuovamente intervenire, inevitabilmente in forma episodica, la Corte costituzionale con la sentenza n. 110 del 3 maggio 2012; e nuovamente la Corte di cassazione ha dovuto sollevare questione di costituzionalità, con le ordinanze Sez. U, nn. 34473 e 34474 del 19 luglio 2012.
Nel corso dell’anno 2012 – in cui la Corte di cassazione ha deciso 4.721 ricorsi in materia di misure cautelari personali in genere, di cui circa 800 accolti (attorno al 17%) –sono stati registrati oltre 4.422 ricorsi relativi alle sole misure coercitive, dei quali 2.899 proposti da imputati in stato di detenzione carceraria per il titolo impugnato, e solamente 758 da imputati in stato di arresti domiciliari.
Le ordinanze cautelari e i provvedimenti di riesame continuano a essere caratterizzati da assoluto squilibrio tra la parte dedicata alla gravità indiziaria e la motivazione in punto di necessità cautelare, troppo spesso dedicando poche stereotipate parole alla valutazione d’inadeguatezza di misure attenuate, che di fatto continuano ad essere adottate in misura percentuale significativamente ridotta (in particolare per stranieri e
indigenti).
Proiettando i dati dei ricorsi per cassazione, emerge infine che ancora nell’anno trascorso le procedure relative alle misure cautelari personali costituiscono circa il 9% del totale di tutte le decisioni assunte nel settore penale (cognizione, esecuzione, sorveglianza, prevenzione), impegnando dunque in termini corrispondenti magistrati e personale amministrativo delle procure e degli uffici giudicanti (in particolare, g.i.p., tribunale “della libertà”, Corte di cassazione), con indiretta significativa incidenza sui tempi di definizione dei procedimenti ordinari.
Con riguardo alla carcerazione in espiazione pena, nella precedente relazionesottolineammo che «un’eccessiva sovrappopolazione carceraria pone di per sé un problema sotto il profilo dell’articolo 3 della Convenzione» e dell’art. 27 della nostra Costituzione.
Osservammo che non era tollerabile – nemmeno in nome delle ben note difficoltà economiche – una condizione di sovraffollamento che vedeva 67.000 detenuti ridotti in un condizioni logistiche adeguate a 45.000 persone; che il pur necessario incremento, per numero e adeguatezza, dei posti-carcere non poteva bastare a condurre il sistema al punto
di equilibrio, la sovrappopolazione degli incarcerati manifestandosi oramai come una anomalia strutturale, che come tale andava seriamente affrontata, ponendo mano ad interventi deflativi seri, diretti alla selezione sia delle fattispecie davvero meritevoli di pena in genere sia alla riduzione delle pene detentive, e dando nuovo impulso alle misure alternative al carcere.
Anche per questo aspetto, rivolgemmo ai giudici un appello a una maggiore assunzione di responsabilità, segnalando come il ricorso alle misure alternative registrava differenze marcate e apparentemente inspiegabili tra ufficio ed ufficio.
Evocammo storiche sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione in tema di necessità di tutela giurisdizionale effettiva nei confronti degli atti dell'amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale e la funzione della magistratura di sorveglianza a garanzia dei diritti dei reclusi,
anche in relazione al malessere provocato dal sovraffollamento, sottolineando il carattere (teoricamente) vincolante per l'Amministrazione di tali provvedimenti.
A gennaio 2013, dobbiamo costatare che, come detto, il progetto di depenalizzazione è ancora un progetto e che il disegno di legge del Ministro Guardasigilli, meritoriamente volto a introdurre pene principali alternative all’arresto e alla reclusione e
regimi restrittivi mirati o attenuati, non ha avuto sbocco al Senato.
Il rapporto tra espiazione della pena in carcere e ricorso a misure alternative extramurali appare ancora assolutamente sbilanciato se si pensa che nell’arco del 2012, su una popolazione carceraria di 65.701 detenuti, 2.459 erano stati condannati a pena inferiore ad un anno e 10.106 avevano da scontare meno di un anno residuo; 3.560 erano stati condannati a pena inferiore a due anni e 7.558 avevano da scontare meno di due anni;
4.380 erano stati condannati a meno di tre anni e 5.834 avevano da scontare meno di tre anni (insomma, all’incirca la metà della popolazione carceraria è rimasta in carcere nonostante avesse da espiare meno di tre anni); e che a tutta la popolazione carceraria sonostati concessi poi complessivamente, nel 2012, solamente 25.275 permessi premio (che
costituiscono il primo passo del percorso di reinserimento sociale).
I pochi provvedimenti dei giudici di merito che hanno ritenuto di potere direttamente incidere sulla situazione di sovraffollamento carcerario, disponendo il trasferimento del detenuto, sono rimasti sostanzialmente per lungo tempo inattuati, come ha rilevato la stessa Corte Edu valutando i rimedi interni, di fatto inutili: a dimostrazione
della ineffettività, in questo campo e allo stato, della pretesa di una tutela giurisdizionale diretta al “modo” della condizione carceraria anziché – soprattutto – al “se” del carcere.
E’ evidente dunque che, come magistrati, non possiamo limitarci a sollecitare al Governo la realizzazione di interventi di edilizia penitenziaria idonei a rendere vivibili i luoghi di carcerazione, né possiamo interamente rimettere al legislatore, e perciò alla politica, il problema della riduzione della popolazione carceraria mediante intelligenti
interventi normativi di selezione delle fattispecie punibili con pena carceraria e di significativa riduzione delle ipotesi di esclusione delle misure alternative legate soltanto al titolo di reato commesso.
La sollecitazione chiaramente rivolta dalla Corte Edu a pubblici ministeri e giudici «a ricorrere nella misura più larga possibile alle misure alternative alla detenzione e a riorientare la loro politica penale verso un minore ricorso alla carcerazione», costituisce un esplicito richiamo alla responsabilità dei magistrati quali giudici della libertà e garanti del rispetto dei diritti fondamentali.
Essa a ricordare, sul piano sostanziale, che l’aspetto della compatibilità della detenzione carceraria con livelli elementari di decoro e di dignità riguarda la legalità della privazione della libertà. E per l’aspetto strettamente processuale, impone, permanendo l’attuale condizione, di considerare invertita la presunzione di compatibilità tra detenzione e rispetto della dignità, sulla quale ciascuno di noi s’era sin’ora abituato a confidare.
Occorre perciò rilanciare su questi temi l’impegno e la responsabilità di tutti gli organi giudiziari.
I giudici di merito devono davvero adeguare le scelte e le decisioni in tema di libertà ai principî di proporzionalità e di adeguatezza, tenendo a mente che essi operano come parametro «di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale».
I giudici della cognizione e della sorveglianza devono tenere sempre presente che una distanza temporale eccessiva tra condanna ed esecuzione della pena costituisce un difetto endemico del nostro sistema che, seppur provocato, non può mai risolversi, né sul piano sanzionatorio né sul piano delle modalità di espiazione, a detrimento del condannato
e che, anzi, in assenza di successive significative manifestazioni di recidiva, impone di presumere una positiva evoluzione della sua personalità.
Anche la Corte di cassazione deve assumere in pieno il suo ruolo in funzione di controllo sulla legalità delle decisioni in materia di libertà, rigorosamente verificando la completezza e la concretezza delle giustificazioni offerte al rifiuto di adottare - secondo il canone di priorità imposto dalla Costituzione, dalla Convenzione, dalle leggi e purtroppo oramai dal notorio - misure extramurali.
La formale raccomandazione rivolta il 15 gennaio scorso dal Procuratore della Repubblica di Milano ai suoi sostituti a tenere «nel massimo conto, sia in tema di misure cautelari che in fase di esecuzione, gli auspici della Corte europea dei diritti dell’uomo», rappresenta, tra molti, il segnale di un impegno diretto che va additato ad esempio.
3.10. La mancata introduzione del delitto di tortura.
Secondo principî oramai consolidati nella giurisprudenza della Corte Edu, la “tortura” «marchia di speciale infamia, tra tutte le categorie di maltrattamenti proibiti dall’art. 3, trattamenti inumani deliberati che provocano sofferenze estremamente gravi e crudeli», e il divieto è per essa assoluto, né, secondo il diritto internazionale, può esservi alcuna giustificazione o deroga per azioni di tal fatta.
Sicché dal divieto discende per lo Stato anche l’obbligo, che la Corte europea definisce “procedimentale”, di garantire che la risposta punitiva nei confronti degli autori della violazione sia adeguata, efficace e, soprattutto, effettiva.
Ricordavamo nella precedente relazione la sentenza Alikaj e altri c. Italia, del 29 marzo 2011, nella quale la Corte di Strasburgo ammonisce che quando un agente dello Stato è accusato di atti contrari agli artt. 2 e 3, il procedimento o la condanna nei suoi confronti non possono essere resi inutili dalla prescrizione e non può essere autorizzata l'applicazione di misure come l'amnistia o la grazia.
Alla radice dell’obbligo stanno difatti, come è noto, non soltanto l’art. 3 della Convenzione Edu, che nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo si combina con i precetti degli artt. 2, 4 e 5, o i principi analogamente ricavabili dagli artt. 2, 13, quarto comma, e 27, terzo comma, della nostra Costituzione. Già l’art. 5 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani proclamava «Il divieto di tortura è assoluto. “Nessuno dovrà essere sottoposto a tortura o trattamenti o punizioni crudeli, inumani e degradanti”», e nel 1984 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottava la Convenzione per l’abolizione della tortura e dei trattamenti o delle punizioni crudeli, inumani o degradanti, entrata in vigore il 26 giugno 1987, che espressamente prevede l’obbligo dello Stato di legiferare affinché qualsiasi atto di tortura sia considerato reato dall’ordinamento interno e affinché l’attività finalizzata alla punizione degli agenti sia solerte ed efficace e le vittime abbiano effettiva e adeguata
riparazione.
La Convenzione è stata ratificata con la legge 2 gennaio 1989, n. 7. Con la legge 15 dicembre, 1998 n. 467, si è proceduto alla ratifica ed esecuzione dei Protocolli n. 1 e n. 2 di detta Convenzione, fatti a Strasburgo il 4 novembre 1993. Alla fine dell’anno appena trascorso, con la legge 9 novembre 2012, n. 195 è stato ratificato è si data esecuzione al Protocollo opzionale, fatto a New York il 18 dicembre 2002 (dieci anni fa).
Il reato di tortura non è però mai stato introdotto, non essendo i relativi disegni sfociati in legge; mentre le fattispecie penali applicabili (maltrattamenti, abusi di mezzi di autorità, abuso dei mezzi di correzione o disciplina, lesioni personali), sono lontane dal corrispondere alle condotte di particolare gravità riconducibili alla nozione di tortura e non assicurano nel concreto, considerati anche i termini di prescrizione, effettività alla risposta sanzionatoria.


6. La giustizia civile
6.1. Premessa.
Non può esservi dubbio che un sistema di giustizia sarà sempre più efficiente quanto più diffusa e crescente sarà la consapevolezza che il “fattore tempo” è una condizione imprescindibile del “rendere giustizia”, in particolare in un sistema economico integrato nel quale le scelte imprenditoriali includono nell’analisi degli investimenti anche (e non in uno spazio residuale) l’efficacia e la rapidità della risposta giudiziale.
Di qui la necessità di concentrare l’attenzione, com’è già stato sottolineato nella presente Relazione, ogni sforzo possibile – con l’impegno secondo le specifiche competenze di tutti i protagonisti del sistema giustizia (legislatore, governo, magistrati e personale amministrativo, avvocati) – nella direzione di una riduzione quanto maggiore possibile della durata dei procedimenti. E in questa prospettiva si è mosso chiaramente il legislatore con il primo comma dell’art. 37 del D.L. n. 98 del 6 luglio 2011, già considerato
nel capitolo IV.
Non si possono ancora apprezzare i risultati dei programmi annuali imposti dal citato art. 37. E’ possibile soltanto prendere in esame i dati statistici per verificare se emerga qualche tendenza generale, capace di rassicurare sul percorso intrapreso o eventualmente raccomandare “correzioni di rotta”.
Nell’analizzare i dati statistici ci limiteremo a menzionare quelli essenziali, quelli cioè che possono essere considerati segnali di tendenze in corso di sviluppo, per il resto rinviando alla documentazione allegata al testo, che contiene le statistiche elaborate dalla Direzione generale delle Statistiche del Ministero della giustizia e quelle dell’Ufficio di statistica della Corte di cassazione. D’altro canto, il fatto che nel sito web del Ministero della giustizia e in quello della Corte di cassazione siano pubblicate, con diversa periodicità (mensile, semestrale o annuale), tutte le statistiche rilevanti in materia di attività giudiziaria, esime dall’illustrare in questa sede dati già noti, per essere stati resi pubblici dai mezzi d’informazione, evitando così gravose e non utili ripetizioni.
Sullo stato della giustizia civile, svolgeremo soltanto considerazioni di ordine generale, tenendo conto delle indicazioni provenienti dalle analisi e valutazioni svolte dai presidenti delle corti d’appello nelle loro relazioni, alle quali si rinvia per l’illustrazione della situazione dei ventisei distretti territoriali. Queste considerazioni vanno inquadrate, per una più ampia valutazione, nel confronto con la giustizia di altri Stati europei, a cui si è dedicato il capitolo III.
6.2. La pendenza e i tempi.
I dati oggetto di analisi in questa sede sono prima di tutto una conferma delle difficoltà dalle quali ancora non riesce a districarsi il sistema giustizia, ma non mancano disegnalare un ulteriore miglioramento per quanto concerne la pendenza dei procedimenti.
Nella precedente relazione, sulla scorta dei dati comunicati dal Ministero della giustizia (Direzione generale di Statistica), avevamo evidenziato un decremento del 2,4% della pendenza complessiva dei procedimenti. Quest’anno, sulla scorta dei dati forniti dalla medesima fonte, dobbiamo rilevare che questo decremento si è sostanzialmente rafforzato, situandosi al 4,5%, con un numero di procedimenti pendenti di merito che è passato dai 5.640.130 al 30 giugno 2011 ai 5.388.544 del 30 giugno 2012. E’ l’effetto della significativa diminuzione delle sopravvenienze, pari al 3,7%, essendo passati i procedimenti iscritti dai 4.445.016 del 30 giugno 2011 ai 4.283.310 del 30 giugno 2012 e della sostanziale tenuta del numero delle definizioni, passato dai 4.500.276 del 30 giugno 2011 ai 4.493.999 del 30 giugno 2012 (con una diminuzione dell’appena lo 0,1%).
E’ evidente come il sistema sconti ancora il pesante carico del cd. “arretrato”, che finora si è dimostrato una montagna insensibile alla pur costante e generosa attività di erosione posta in essere nei diversi programmi di gestione dai dirigenti, nel difficile quadro di rilevante riduzione del personale, sia per quanto riguarda i magistrati, sia per quanto riguarda il personale amministrativo, che senza dubbio influisce negativamente (e in modo considerevole) sulle potenzialità delle strutture organizzative.
Ma anche i profili positivi che emergono dai dati analizzati denunciano una difficoltà.
La diminuzione delle sopravvenienze, che pur c’è e che non può essere considerata di proporzioni assolutamente marginali, è tuttavia ancora troppo “ridotta” per assurgere a chiaro segnale di una consolidata inversione di tendenza. I numeri complessivi dei procedimenti iscritti sono ancora molto alti e testimoniano l’insufficienza allo stato degli strumenti adottati per un contenimento dell’accesso alla giustizia, perché questo non continui a rappresentare lo sbocco “obbligato” di ogni controversia che si sviluppi all’interno della società civile.
La sostanziale tenuta del numero dei processi definiti, se pur è suscettibile di una lettura positiva del dato (soprattutto a fronte della notevole flessione delle definizioni registrata nell’anno precedente), testimonia, tuttavia, la non decisiva incisività degli sforzi adottati per la riduzione delle pendenze dal lato prospettico delle definizioni.
Può ritenersi comunque incoraggiante il risultato ottenuto, ove si rifletta che su un possibile aumento delle definizioni ha influito, in modo non irrilevante, l’art. 26 (poi abrogato) della legge n. 183 del 12 novembre 2011 (legge di stabilità 2012), il cui primo comma disponeva: «Nei procedimenti civili pendenti davanti alla Corte di cassazione, aventi ad oggetto ricorsi avverso le pronunzie pubblicate prima della data di entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69, e in quelli pendenti davanti alle corti di appello da oltre due anni prima della data di entrata in vigore della presente legge, la cancelleria avvisa le parti costituite dell’onere di presentare istanza di trattazione del procedimento, con l’avvertimento delle conseguenze di cui al comma 2 (ossia l’estinzione del procedimento)».
La norma ha certamente ostacolato una fluida formazione dei ruoli d’udienza e ritardato una più serrata accelerazione dei tempi di definizione dei procedimenti, che se già fissati hanno dovuto scontare un rinvio a udienze successive, oltre a provocare un notevole impegno delle cancellerie per l’invio degli avvisi richiesti dalla legge.
Nonostante tutto ciò, la durata media dei procedimenti, pur rimanendo ancora attestata su tempi decisamente “lunghi”, non ha subito stravolgimenti particolari, confermando così l’impegno che magistrati e personale amministrativo dei vari uffici collocati nel territorio hanno profuso per conquistare un accettabile livello di esercizio
dell’attività giurisdizionale.
Così, se per le corti d’appello vi è stato un aumento tutto sommato contenuto della durata dei procedimenti (pari all’1,7%), passata dai 1.033 giorni del 30 giugno 2011 ai 1.051 giorni del 30 giugno 2012, una diminuzione è stata registrata per quanto riguarda i tribunali (-1,6%, da 479 a 463 giorni) e ancor più per i giudici di pace (-1,9%, da 386 a 378 giorni).
Una situazione questa che può autorizzare qualche ottimismo circa un positivo inizio del cammino verso l’obiettivo del “tempo ragionevole del processo”.


3. Analisi dei dati statistici.


3.1. I dati ripartiti per aree geografiche.
La diminuzione della pendenza – determinata in modo particolare dalla diminuzione delle sopravvenienze – è un fenomeno che ha interessato tutte le aree geografiche.
La percentuale maggiore di decremento si registra nel Centro (-1,3%), la minore nelle Isole (-1,5%). Sostanzialmente sullo stesso livello della media nazionale la diminuzione registrata nel Nord-Est (-4,6%). Su valori analoghi le diminuzioni registrate nel Nord-Ovest (-3,5%) e nel Sud (-3,9%).
Quanto alla diminuzione delle definizioni il dato è sostanzialmente analogo nel NordEst (-2,1%), nel Sud (-2,6%) e nelle Isole (-2,3%), molto più ridotto nel Nord-Ovest (-0,5%). Di segno contrario, invece, la situazione registrata nel Centro dove si è realizzato un aumento non marginale delle definizioni (6,6%).
3.2. I dati relativi agli uffici.
a) Dati generali.
Con riferimento alla ripartizione tra gli uffici, la pendenza complessiva è in diminuzione a ogni livello: sia nelle corti d’appello, dove tuttavia si registra il dato minore di decremento (-1,3%), sia nei tribunali (-3,5%), sia negli uffici del giudice di pace, dove il decremento registra i valori più alti (-7,6%). Nei tribunali per i minorenni il decremento si ferma ad un valore intermedio (-2,3%), tra quello delle corti d’appello e quello dei tribunali ordinari.
La diminuzione delle sopravvenienze investe tutti gli uffici, in modo più significativo per quanto riguarda le corti d’appello (-7,4%) e gli uffici del giudice di pace (-5,8%), mentre si attesta su valori minori per i tribunali (-2,4%). In controtendenza la situazione per i tribunali per i minorenni, dove si registra un aumento delle sopravvenienze (4,0%).
b) Le corti d’appello.
La situazione delle corti d’appello, pur registrando un complessivo decremento delle pendenze, presenta in proposito dati molto diversificati rispetto alle differenti macroaree di rilevazione.
Interessante, per la forza evocativa del segnale che ne deriva, è che il decremento riguardi anche se pur in lieve misura (-1,6%), le controversie relative all’equa riparazione;
ma ancor più interessante è la consistenza della diminuzione delle sopravvenienze nella medesima area (-19,2%), cui si unisce l’effetto moltiplicatore dell’aumento, anch’esso non marginale, delle definizioni (13,2%). Nel giustificato ottimismo che può indurre questa rilevata tendenza, soprattutto se essa ricevesse nel tempo ulteriori conferme, non si può non rinnovare l’auspicio, già formulato nella precedente relazione, che si incrementino le situazioni nelle quali la pubblica amministrazione adempia spontaneamente all’obbligo di indennizzo e ricerchi le possibilità di una soluzione transattiva delle controversie in materia, alla luce degli indirizzi ormai consolidati della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e della Corte di cassazione, che consentono un’agevole previsione dell’eventuale “successo giudiziale” delle pretese risarcitorie.
Consistente anche la diminuzione delle pendenze interessanti le controversie in materia di previdenza (-7,0%), compensata, tuttavia, dal notevole aumento delle controversie in materia di pubblico impiego (12,5%), ma con un risultato comunque positivo, nel senso della diminuzione delle pendenze per il settore lavoro nel suo complesso (-1,1%). In proposito va rilevato altresì che, mentre per il settore previdenza la diminuzione interessa anche le sopravvenienze (-15,7%), per quanto riguarda il settore lavoro nel suo complesso le sopravvenienze aumentano (1,1%) e ancor più se si guarda alle controversie in materia di pubblico impiego (20,7%). Il quadro si completa con uno sguardo alle definizioni che registra per le controversie relative al pubblico impiego un aumento (19,0%) sostanzialmente “compensativo” dell’aumento delle iscrizioni, così come aumenta il numero delle definizioni per le controversie in materia di previdenza (10,1%), mentre diminuisce il numero delle definizioni per il settore lavoro nel suo complesso (-3,6%).
Mentre c’è una diminuzione delle pendenze per tutte le altre controversie “residuali” complessivamente considerate (-9,1%), aumentano le pendenze per quanto riguarda la cognizione ordinaria (1,4%), ma in senso positivo nello stesso settore diminuiscono le sopravvenienze (-0,2%) e aumentano le definizioni (6,9%).
c) I tribunali.
Per quanto riguarda i giudizi innanzi ai tribunali la diminuzione delle pendenze è un fenomeno che riguarda la cognizione ordinaria (-6,1%), le controversie in materia di previdenza (-17,0%), dei procedimenti esecutivi mobiliari (-6,6%) e in modo significativo le controversie relative allo stato patologico del rapporto matrimoniale: separazioni consensuali (-17,4%), separazioni giudiziali (-6,1%), divorzi consensuali (-12,0%), divorzi giudiziali (-2,4%).
Si registra, invece, un aumento delle pendenze per quanto riguarda le controversie di lavoro in genere (2,8%) e del lavoro in materia di pubblico impiego in particolare (8,7%), delle istanze di fallimento (10,2%) e, in misura decisamente minore, dei fallimenti (0,1%), dei procedimenti esecutivi immobiliari (7,8%) e, in misura rilevante, dei procedimenti speciali (30,1%).
Le sopravvenienze registrano una diminuzione delle cause di lavoro (-6,6%), ma un aumento di quelle riguardanti il pubblico impiego (2,4%), nonché delle controversie relative a separazioni consensuali (0,2%), separazioni giudiziali (7,6%), divorzi consensuali (2,3%), divorzi giudiziali (5,1%). Questo dato testimonia come la crisi economica abbia inciso anche sulle scelte di vita familiare riducendo le ipotesi di irreparabile disgregazione del rapporto coniugale: diminuisce così il ricorso alla separazione – pur con un aumento dellaconflittualità segnalato dal fatto che il ricorso alla separazione giudiziale è più frequente del ricorso alla separazione consensuale – e ancor più con il ricorso al divorzio (anche qui con
la significativa differenza segnalata dall’aumento dei divorzi giudiziali, rispetto ai divorzi
consensuali), sempre più riservato ai casi nei quali si presenti l’opportunità di una nuova scelta matrimoniale.
La crisi economica può costituire una sensata spiegazione anche dell’incremento dei procedimenti esecutivi immobiliari (7,6%) - diminuiscono, invece, i procedimenti esecutivimobiliari (-1,6%) - e dei fallimenti (5,4%), mentre decrescono le istanze di fallimento (-2,7%), in ragione molto probabilmente delle innovazioni decise recentemente dal legislatore.
Merita di essere segnalata la notevole diminuzione delle sopravvenienze di controversie in materia previdenziale (-23,6%), che testimonia l’incidenza, già registrata in precedenza, dell’introduzione del pagamento del contributo unificato che ha avuto una efficacia dissuasiva di livello significativo, riducendo i fenomeni di malcostume giudiziario che alimentavano controversie meramente fittizie o non corrispondenti comunque a un effettivo interesse della parte privata.
Va qui, ancora una volta, menzionata la proficua collaborazione con l’INPS per contrastare la “domanda drogata” in materia previdenziale, costituente una parte cospicua dell’intero contenzioso civile.
Innanzitutto va osservato con soddisfazione che prosegue il trend di una drastica riduzione del numero delle controversie pendenti, causata in primo luogo dalla costante riduzione di quelle nuove. Secondo i dati provenienti dall’INPS e raggruppati su base annua al 31 dicembre, il carico totale nazionale del contenzioso civile ammontava a 747.000 cause nel 2010, a 662.000 nel 2011 e a 560.000 nel 2012.
Questi risultati sono l’effetto di azioni coordinate, volte a incidere in primo luogo sulle inefficienze dell’amministrazione, che causavano o consentivano l’istaurazione di un contenzioso inutile (quando volto a ottenere il riconoscimento di diritti palesemente sussistenti e negati per ritardi o errori dell’Istituto) o strumentale.
Ciò che sembra più significativo, tuttavia, è l’approccio che parte dalla valutazione dell’impatto quantitativo e qualitativo dei fenomeni di contenzioso seriale o diffuso, al fine di approntare gli strumenti di volta in volta necessari per rapportarsi ad essi in una logica non solo deflativa, ma di effettiva tutela dei diritti. Auspichiamo vivamente che siffatto approccio sia imitato da altri soggetti (ad es. Agenzia delle entrate, Poste Italiane, Ferrovie dello Stato e altre pubbliche amministrazioni), cui si deve una parte considerevole del carico complessivo della giustizia civile, come già evidenziato nella relazione per l’anno 2011.
Le definizioni registrano un aumento generalizzato, salvo che per le cause di cognizione ordinaria, rispetto alle quali si registra una diminuzione del 3,9%, e delle istanze di fallimento (-2,5%). Per il resto, invece, aumentano le definizioni in materia di lavoro (4,6%) – e ancor più relativamente alle controversie in materia di pubblico impiego (29,5%), di previdenza (0,7%), di fallimento (0,2), di separazioni consensuali (0,2%), di separazioni giudiziali (7,6%), di divorzi consensuali (2,3%), di divorzi giudiziali (5,1%), di procedimenti esecutivi mobiliari (7,2%), di procedimenti esecutivi immobiliari (5,8%), di procedimenti speciali (1,6%).
d) Gli uffici del giudice di pace.
Anche per gli uffici del giudice di pace si registra una non irrilevante diminuzione complessiva delle pendenze (-7,6%), diminuzione che è più alta avendo riguardo alle opposizioni alle sanzioni amministrative (-17,7%) e alle cause in materia di previdenza (-10,3%), ma minore per quanto riguarda le cause relative a beni mobili (-3,7).
Tale diminuzione è determinata soprattutto dal decremento delle sopravvenienze complessive (-5,8%), diminuzione che è stata particolarmente incisiva per le opposizioni alle sanzioni amministrative (-12,1%), ragionevolmente in conseguenza dell’introduzione del contributo unificato, e per la previdenza (-40,6%), per analoghe ragioni e per la determinante attività deflativa messa in campo dall’INPS, e per le cause relative a beni mobili (-16,4%). Le suddette flessioni hanno efficacemente contrastato la diminuzione delle definizioni, che deve essere registrata oltre che a livello complessivo (-5,0%), anche per quel che riguarda le opposizioni alle sanzioni amministrative (-13,6%), per la previdenza (-55,9%), e in misura molto minore per le cause relative a beni mobili (-1,8%).
Una significativa diminuzione delle sopravvenienze si è registrata anche per i ricorsi in materia di immigrazione (-17,1%), non compensata tuttavia ai fini della pendenza, che è aumentata (1,9%), in ragione della diminuzione delle definizioni (-12,3%). Un aumento della pendenza si registra, invece, per le opposizioni a decreti ingiuntivi (5,0%) e per le cause di risarcimento danno da circolazione di veicoli e natanti (5,0%), e ciò nonostante la diminuzione dei procedimenti iscritti, sia per le opposizioni (-4,7%), che hanno, tuttavia registrato un aumento non marginale delle definizioni (17,2%), sia per le cause di risarcimento (-2,3%), per le quali vi è stato anche un decremento delle definizioni (-1,1%).
4. La situazione nei distretti.
4.1. I dati provenienti dai distretti.
Guardare ai descritti fenomeni nell’angolo prospettico delle corti d’appello, come emerge dalle relazioni comunicate dai rispettivi presidenti, può meglio illuminare le ragioni che ne possono essere la giustificazione nelle diverse realtà territoriali.
L’aggravarsi della crisi economica nel Paese è un elemento che trova spazio in molte relazioni, che vedono in ciò la causa dell’incremento delle controversie che più possono essere influenzate dalle difficoltà economiche che alla crisi sono conseguenti: come i procedimenti in materia di fallimento (Ancona, Firenze, Messina, che tuttavia segnala in controtendenza le procedure esecutive, Milano), le procedure concorsuali (la cui durata risulta ancora molto alta, soprattutto a causa del protrarsi delle controversie civili e tributarie promosse dai curatori, L’Aquila, Napoli, Perugia) o anche le procedure esecutive e gli sfratti (Firenze, L’Aquila, Milano, Perugia, Salerno, Venezia, che segnala un aumento solo per le esecuzioni immobiliari). In alcuni distretti (ad es. Roma, Trieste, Venezia) si segnala come ulteriore effetto della crisi economica l’ aumento delle istanze di fallimento non corrispondente ad un aumento dei fallimenti dichiarati: ciò potrebbe testimoniare che il creditore è indotto a presentare istanza di fallimento per indurre il debitore al pagamento, anche in quei casi in cui non sono raggiunte la cd. soglie di fallibilità stabilite dall’art. 1 R.D. n. 267 del 1942 o non è superato il tetto minimo d’indebitamento di cui all’art. 15, u.c., della legge fallimentare.
In alcuni distretti alla crisi economica si imputa anche un aumento delle cause di lavoro indotte da una maggiore diffusione di licenziamenti dovuti alle difficoltà delle imprese (Milano, Napoli, che segnala la possibilità che questo contenzioso sia destinato ad aumentare per effetto della legge Fornero, Trieste), mentre in molti distretti è rilevato un forte incremento delle cause in materia di pubblico impiego (Bari, Firenze, Napoli, Potenza, Reggio Calabria), dovuto in gran parte al proliferare di giudizi promossi dal personale docente precario della scuola e alla sempre più frequente contestazione delle selezioni effettuate dalle ASL per la copertura dei posti dirigenziali (L’Aquila, Salerno, Trieste, Venezia, in controtendenza Roma, che segnala in proposito una flessione).
Alle medesime ragioni è addebitata in alcuni distretti la flessione delle controversie relative a separazioni e divorzi, ritenendo che detta flessione non sia disgiunta dalla negativa congiuntura economica, che disincentiva la disgregazione dei nuclei familiari (Bari, Firenze, Genova, Messina, Perugia, Roma, che suggerisce anche l’affiancamento di un percorso di mediazione familiare che riduca la conflittualità e incrementi la difesa del minore, Venezia, mentre in controtendenza Catanzaro, Milano e Trento segnalano un aumento di tali controversie, con incremento dei profili di conflittualità). E’ positivo che da più relazioni sia posto in evidenza come questo tipo di controversie appaia per la maggior parte dei casi definita in tempi brevi (Ancona, che dichiara una definizione in corte d’appello «praticamente in tempo reale», Genova, L’Aquila, Lecce, Palermo, Roma, Salerno, Trento, Trieste, Venezia).
Una consistente diminuzione delle controversie relative alla previdenza è segnalata in molte relazioni (Bari, che definisce notevole la flessione registrata, Bologna, che la definisce particolarmente significativa, Caltanissetta, Firenze, che definisce la diminuzione “vistosa” e ne riconduce la possibile ragione anche al miglior filtro garantito dall’unificazione in capo all’INPS di ogni competenza, Messina, Perugia, Reggio Calabria, Roma, Salerno, Torino, Venezia, che tuttavia segnala la pendenza di un elevato numero di controversie concernenti l’esposizione all’amianto).
Controversa, infine, è la situazione delle controversie in materia di equa riparazione, che sono segnalate in diminuzione in alcuni distretti (Ancona, Catanzaro, L’Aquila, Messina, Napoli, Roma, Torino, che però ritiene solo congiunturale la flessione, Venezia), in aumento in altri (Bologna, Caltanissetta, Lecce, Perugia), e stabile in altri ancora (Salerno, Trento).
4.2. Gli sforzi organizzativi.
In tutti i distretti, con riferimento al settore civile come a quello penale, si lamentano carenze di organico che ostacolano in modo grave lo sviluppo delle potenzialità produttive che potrebbero essere assicurate con una maggiore attenzione a questi non marginali aspetti delle crisi di efficienza che può gravare sul sistema giustizia. Si tratta di carenze non soltanto di magistrati, ma anche di personale amministrativo, che costituisce un insostituibile, quanto prezioso supporto in tutte le fasi dell’attività giurisdizionale.
Eppure questa, relativa all’insufficienza degli organici, è nel quadro generale, solo una notazione doverosa alla quale non può rinunciare chi abbia la responsabilità di un ufficio, ma non costituisce una “via di fuga” per sottrarsi all’impegno organizzativo, che anzi appare rafforzato ampiamente nella piena consapevolezza che il futuro si gioca sul coraggio
di affrontare le difficili sfide che la situazione pone.
Così in molti distretti si evidenziano, non solo l’ampio utilizzo degli strumenti informatici forniti dal Ministero di giustizia (Caltanissetta, Trieste), ma anche un positivo sviluppo dell’informatizzazione (Roma, che evidenzia l’implementazione di procedure per la tenuta automatizzata dei registri principali, degli atti e dei provvedimenti), in particolare per la gestione delle procedure concorsuali, nella pubblicità delle vendite online e nella creazione di fascicoli elettronici (Bari, Trento), l’attivazione del servizio PolisWeb nazionale di consultazione dei registri informatici del contenzioso civile, delle esecuzioni mobiliari eimmobiliari e delle procedure concorsuali (Catania, Venezia), l’adozione di un sistema informatico per l’assegnazione automatica dei processi (Napoli), nonché l’esecuzione per via telematica delle comunicazioni alle parti (Brescia, Catania, Catanzaro, L’Aquila, Firenze, Salerno, Trento, Trieste, Venezia), e l’avvio di corsi di formazione in materia di informatizzazione degli uffici e delle procedure e la gestione informatizzata dell’Ufficio Biblioteca (Bari).
Si segnalano altresì sforzi organizzativi funzionali ad una più efficace gestione dei procedimenti, come l’individuazione di specifiche priorità nella definizione delle controversie (Brescia, Firenze, Roma, Salerno, Torino) o il contenimento dei rinvii e dei tempi di redazione e pubblicazione delle sentenze, mediante l’adozione di appositi progetti (Brescia, Catania, Perugia, Roma, Torino, Venezia), la predisposizione di “udienze filtro” (Reggio Calabria), l’adozione di protocolli d’intesa per attività di tirocinio e di formazione dei giovani e dei non occupati o cassintegrati (Catania, Perugia, Roma, Venezia) e lo sviluppo di incontri funzionali alla formazione di prassi interpretative che rendano più prevedibili le decisioni (Perugia, L’Aquila, che sottolinea anche la positività in questa direzione dell’incremento della specializzazione dei magistrati, Roma).
5. I recenti interventi legislativi.
5.1. Generalità.
Nell'anno appena trascorso, il settore civile è stato contrassegnato da numerosi interventi normativi, alcuni dei quali soltanto hanno riguardato direttamente la disciplina processuale, sebbene molti altri, aventi ad oggetto principalmente istituti di carattere sostanziale, presentino risvolti tutt'altro che indifferenti ai fini di un tempestivo ed efficace funzionamento dell'amministrazione della giustizia.
In questa sede, si procederà esclusivamente all'esame delle modificazioni normative che hanno riguardato la disciplina del processo d'appello, quella del processo del lavoro, la materia commerciale e quella fallimentare, riservando alle sezioni relative al giudizio di cassazione ed a quello minorile la trattazione degl'interventi che hanno interessato tali settori.
5.2. L'introduzione del “filtro in appello”: un passo nella giusta direzione?
Con il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83 (cd. “decreto sviluppo”), convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, il legislatore è intervenuto sulla disciplina del giudizio di appello, individuato come la fase maggiormente critica del processo civile. Tra tutti gli uffici giudiziari, le corti d'appello si sono infatti rivelate quelli affetti da più evidenti criticità,
manifestatesi soprattutto attraverso un allungamento dei tempi processuali: nel periodo più recente considerato (1/7/2011-30/6/2012), la durata media dei giudizi davanti alle corti d'appello (1.051 giorni) si è allungata (dell'1,7%) rispetto a quella, già lunghissima, dell'anno precedente (1.033 giorni), a differenza di quella dei giudizi dinanzi al tribunale ordinario ed al giudice di pace, per i quali la durata media si è invece abbreviata (rispettivamente, nella misura dell'1,6 % e dell'1,9%).
Nella nostra relazione dell'anno precedente, era stata formulata una precisa proposta, in cui si era prospettata la riduzione dei motivi proponibili con l'atto di appello, con conseguente valorizzazione e perfezionamento del giudizio di primo grado. In una visione piramidale dei gradi del processo, le impugnazioni devono infatti servire a controllare i risultati della fase precedente, e non a rinnovare gli accertamenti e le valutazioni già compiuti in detta fase. La possibilità che il giudizio di appello sia totalmente devolutivo, da un lato, non è richiesta dalle norme costituzionali e sopranazionali, dall'altro è destinata ad allungare sensibilmente i tempi della giustizia e a determinare la durata non ragionevole dei processi, come è chiaramente dimostrato dai tempi medi dei giudizi davanti alle corti di appello (1.051 giorni), enormemente più lunghi dei giudizi davanti ai tribunali (463 giorni).
Il decreto legge n. 83 non ha, però, seguito la linea da noi proposta. Attraverso i nuovi artt. 348-bis e 348-ter del cod. proc. civ., si è introdotta una originale figura di inammissibilità dell'appello, che dovrebbe svolgere la funzione di «filtro» rispetto all'esame del merito dell'atto di appello, riservato alle sole impugnazioni che superino tale nuovo esame di ammissibilità.
Le valutazioni pervenute dalle corti di appello sulla innovazione del «filtro» sono in generale prudenti e, non raramente, speranzose di risultati positivi, rinviati peraltro al futuro, perché il filtro si applica, ovviamente, ai nuovi giudizi, e quindi non può giovare alla decisione degli appelli pendenti.
Pur con un doveroso atteggiamento non pessimistico, non può non segnalarsi la natura enormemente elastica della nuova causa di inammissibilità (quando l'appello «non ha una ragionevole probabilità di essere accolto»). Essa implica un esame del contenuto
dell'atto di appello e, quindi, rischia di determinare – come è stato posto in risalto da molte corti di appello – un lavoro aggiuntivo in tutti i casi in cui il giudizio di accertamento della causa di inammissibilità – che il giudice deve compiere «sentite le parti» – si concluda per l'inesistenza della stessa, e quindi per l'ammissibilità del ricorso, che dovrà allora essere deciso con la sentenza di merito.
Ma ciò che è sicuramente criticabile è la conseguenza (sullo sviluppo del processo) dell’ordinanza di inammissibilità dell'appello. Essa determina la ricorribilità per cassazione della sentenza di primo grado. L'inammissibilità dell'appello legittima, pertanto, il soccombente alla proposizione del ricorso per cassazione per saltum. E la Corte di legittimità dovrà prendere cognizione della sentenza di primo grado, contrariamente alla regola generale secondo cui il giudizio di cassazione ha per oggetto la sentenza di appello.
Vengono non solo sconvolte le caratteristiche del giudizio di legittimità, ma soprattutto si creano i presupposti per un aumento rilevante del numero dei ricorsi per cassazione, aumento che sarà correlato alla percentuale dei casi in cui all’ordinanza di inammissibilità farà seguito la proposizione del ricorso avverso la sentenza di primo grado.
Il già enorme numero dei ricorsi per cassazione non ha certo bisogno di altri fattori incentivanti la ricorribilità. Non occorre, poi, illustrare l'incidenza fortemente negativa sulla durata complessiva del processo che ha l'eventualità in cui la Cassazione accolga il ricorso avverso la sentenza di primo grado, con il conseguente rinvio al giudice di appello (art. 383, ultimo comma, cod. proc. civ.).
Le considerazioni che precedono sulla natura del «filtro» giustificano la prudenza con la quale, in non poche relazioni delle corti di appello, si ritiene di fare applicazione dell’innovazione, ritenendosi preferibile, per gli appelli manifestamente infondati, la decisione della causa ai sensi dell'art. 281-sexies cod. proc. civ. (sentenza con «lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione»), disposizione – quest'ultima – recentemente estesa al giudizio di appello dall'art. 352, ultimo comma, cod. proc. civ. (in vigore dal 15 dicembre 2011).
Non può tacersi che il decreto legge n. 83, come si dirà amplius nella parte della Relazione dedicata alla Corte di cassazione, è intervenuto anche sul giudizio di legittimità, con il condivisibile intento di restringere l'ambito del controllo (esercitabile in questa sede) sui vizi di motivazione dell'accertamento dei fatti compiuto dal giudice del merito, restringendo in linea generale il tipo di vizio (secondo la formulazione del n. 5 dell'art. 360, che è tornata a quella originaria del codice di rito civile) ed eliminandolo nel caso di doppia pronunzia di merito conforme (salvo il caso in cui la motivazione sia così carente da configurare una ipotesi di nullità della sentenza di merito, inquadrabile nel n. 4 del citato art. 360).
Ma le opportunità che le recenti modifiche offrono alla Corte di cassazione di recuperare il tradizionale ruolo di giudice di legittimità, resistendo ai tentativi della prassi giudiziaria di trasformarla in un terzo grado di merito, non sembrano sufficienti a fare fronte all’ondata dei nuovi ricorsi di cassazione che, secondo logiche previsioni, conseguirà alle applicazioni del nuovo «filtro» da parte del giudici di appello, specie se esse saranno numerose e di ampia interpretazione dell’insussistenza di «una ragionevole probabilità» di accoglimento dell'appello.
5.3. Il processo del lavoro.
Con la legge 28 giugno 2012, n. 12 (cd. "riforma Fornero", oggetto poi di talune successive modifiche recate sia dal decreto legge n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 134 del 2012, che dal decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221), il legislatore ha posto mano ad un articolato intervento nella materia del lavoro e della previdenza, con obiettivi ad ampio spettro, che dovrebbero, nelle intenzioni dichiarate, convergere nella realizzazione di «un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione» (art. 1, comma 1).
A tal fine, si prevedono misure di vario genere e diversamente calibrate a seconda delle esigenze in concreto da soddisfare, che muovono dall’affermata centralità della forma del rapporto di subordinazione a tempo indeterminato, ritenuto «contratto dominante», per favorire la stabilità dei rapporti lavorativi, per poi valorizzare l'apprendistato come forma privilegiata di rapporto di ingresso nel mercato del lavoro e provvedere ad una rimodulazione delle forme di impiego flessibile (lavoro a progetto, contratto di inserimento
e di lavoro intermittente, stages, prestazioni occasionali ed accessorie, etc.), con la finalità di contrastarne l'uso improprio e strumentale.
La riforma, come detto, tocca anche l'ambito previdenziale, investendo segnatamente la materia degli ammortizzatori sociali in una prospettiva di «universalizzazione», tendendo così a ridurre le differenze tra situazioni implicate, attraverso l'estensione dell’integrazione salariale, la parificazione del trattamento di disoccupazione e l'eliminazione dell'indennità di mobilità, in vista della introduzione della cd. "Aspi", Assicurazione sociale per l'impiego.
In questo mutato contesto, si innesta l'adeguamento della «disciplina del licenziamento, con previsione altresì di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative controversie» (art. 1, comma 1, lett. c).
Come è agevole intuire, trattasi dell'ambito - quello che ruota intorno all'art. 18 dello statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300) - di più spiccata risonanza mediatica, in ragione della sua rilevanza sociale e politica, ma è del pari evidente l'impatto, immediato, che tale settore della riforma determina sull’organizzazione della giustizia del lavoro, in quanto coniuga le modifiche della disciplina di carattere sostanziale con quelle che toccano il versante processuale, modellando un rito apposito che si snoda per tutti i gradi del processo, incluso quello davanti alla Corte di cassazione.
La novella, sotto il profilo sostanziale (art. 1, comma 42), ha circoscritto l'applicazione del citato art. 18, e la tutela reale della reintegrazione nel posto di lavoro, che esso somministra, a talune fattispecie soltanto di recesso datoriale. Anzitutto al licenziamento discriminatorio (ad es., per ragioni di credo politico, religioso, per quelle basate sulla razza, sull'orientamento sessuale, etc.), rispetto al quale si configura la nullità dell'atto di recesso, tale da rendere pienamente operativa la tutela nella sua formulazione reale originaria, con reintegrazione e risarcimento del danno pari ad un'indennità corrispondente alle retribuzioni spettanti dalla data del licenziamento a quella dell'effettiva riabilitazione.
E' poi rivisitata l'ipotesi di licenziamento disciplinare, motivato da una condotta del lavoratore integrante giusta causa di recesso ovvero un giustificato motivo soggettivo notevole; in siffatta ipotesi, il giudice può accertare l'illegittimità del licenziamento se il fatto non sussiste o se il fatto può essere punito con una sanzione di diverso tipo e così stabilire
se applicare la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, con risarcimento limitato a un massimo di 12 mensilità, ovvero condannare il datore di lavoro unicamente al pagamento di un'indennità compresa tra le 12 e le 24 mensilità.
Anche il licenziamento economico (art. 1, comma 40), e cioè sorretto da un giustificato motivo oggettivo, è stato oggetto di modificazioni, prevedendosi che, nel caso di illegittimità (e, dunque, di mancanza delle ragioni inerenti all'attività produttiva o all'organizzazione del lavoro), il giudice debba condannare il datore di lavoro al pagamento di un'indennità da 12 a 24 mensilità; là dove, però, emerga che il fatto posto a base dell'atto di recesso è manifestamente infondato, allora trova applicazione la tutela reintegratoria. Il medesimo tipo di tutela si ha, peraltro, in quei casi, equiparati al licenziamento per
giustificato motivo oggettivo, in cui il recesso illegittimo riguardi il superamento del periodo di comporto per malattia o infortunio, oppure per inidoneità fisica o psichica del lavoratore.
A fronte del mutato quadro di riferimento di carattere sostanziale, la novità processuale è il rito speciale per l'impugnazione dei licenziamenti (art. 1, commi da 47 a 68), dettato per evidenti finalità acceleratorie, che si propone con ricorso al tribunale del lavoro e che trova applicazione soltanto «alle controversie instaurate successivamente all'entrata in vigore della legge» (art. 1, comma 67), là dove, peraltro, anche la nuova disciplina in materia di licenziamenti spiega i suoi effetti esclusivamente nei confronti di atti di recesso intimati dopo l'entrata in vigore della stessa legge n. 92 del 2012.
Il nuovo rito è introdotto da una fase sommaria, ma non già cautelare, in quanto tende alla formazione del giudicato. In tale fase non sono contemplate decadenze e preclusioni, e il giudice procede senza formalità che non siano essenziali a garantire il contraddittorio, decidendo con ordinanza immediatamente esecutiva.
Avverso tale provvedimento può essere proposta opposizione con ricorso ai sensi dell'art. 414 cod. proc. civ. (cui l'opposto deve rispondere con memoria ai sensi dell'art. 416 cod. proc. civ.), la quale tuttavia non sospende l'esecutorietà dell'ordinanza, che permane sino alla decisione del giudizio di opposizione. Giudizio, questo, che deve svolgersi senza formalità, seppure contemplando una fase istruttoria (anzitutto) ad iniziativa delle parti. In tal senso, la complessiva architettura del giudizio di opposizione parrebbe propendere per un processo a cognizione piena, sia pure con aspetti di specialità. La decisione ha luogo con sentenza immediatamente esecutiva da depositare entro dieci giorni dall'udienza di discussione, per la quale non si prevede, dunque, la lettura del dispositivo in udienza.
L'appello avverso la sentenza emessa dal tribunale all'esito della fase di opposizione va proposto con «reclamo» e spetterà alla corte di appello valutare la sussistenza di gravi motivi per sospendere l'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado (così alla stessa corte territoriale è affidato il potere di sospensione della sentenza emessa all'esito del gravame). Anche il giudice di appello dovrà evitare, nello svolgimento del giudizio innanzi a sé, formalità inessenziali al contraddittorio, e provvedere al rigetto o all'accoglimento della domanda con sentenza che, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall'udienza di discussione.
L'obiettivo di celerità che permea l'intero rito appare evidente anche in riferimento al giudizio di legittimità. Questo, infatti, deve essere proposto (art. 1, comma 62), a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza di appello o dalla notificazione se anteriore (in ogni caso, in mancanza di comunicazione o notificazione della sentenza trova applicazione l'art. 327 cod. proc. civ.). Inoltre, la Corte è tenuta a fissare l'udienza di discussione non oltre sei mesi dalla proposizione del ricorso. Peraltro, con disposizione che, però, spiega effetti in tutte le fasi e gradi del giudizio, alla trattazione delle controversie da esso regolate «devono essere riservati particolari giorni nel calendario delle udienze» (art. 1, comma 65).
5.4. L'istituzione del tribunale delle imprese.
Con l'art. 2 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 24 (recante «Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività»), convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, si è invece provveduto a modificare il d.lgs.27 giugno 2003, n. 168, istitutivo delle sezioni specializzate in materia di proprietà
industriale ed intellettuale, trasformando quelle già esistenti presso i tribunali e le corti d'appello di Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Triste e Venezia in sezioni specializzate in materia di impresa, ed istituendone altre presso i tribunali e le corti d'appello aventi sede nei capoluoghi di regione (fatta eccezione per la Valle d'Aosta, inclusa nella competenza territoriale delle sezioni specializzate del tribunale e della corte d'appello di Torino), nonché presso il tribunale e la corte d'appello di Brescia (art. 1 del d.lgs. n. 168 del 2003, come modificato dal decreto legge n. 1 del 2012).
A tali sezioni è attribuita una competenza per materia in ordine: a) alle controversie in tema di proprietà industriale che, ai sensi dell'art. 134 del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 e succ. mod. (cd. «Codice della proprietà industriale») già rientravano nella competenza delle sezioni specializzate per la proprietà industriale ed intellettuale, b) alle controversie in tema di diritto d'autore, anch'esse rientranti nella competenza delle vecchie sezioni, c) alle controversie di cui all'art. 33, comma 2, della legge 10 ottobre 1990, n. 287, ovverosia quelle in tema di violazione della normativa antitrust italiana, già devolute alle corti d'appello in unico grado, d) alle controversie concernenti la violazione della normativa antitrust dell'Unione europea, e) alle cause ed ai procedimenti in materia di rapporti societari, trasferimento di partecipazioni sociali o dei diritti ad esse inerenti, patti parasociali, azioni di responsabilità promosse dai creditori di società controllate contro le società controllanti, rapporti di influenza dominante, direzione o coordinamento fra società e cooperative, purché riguardanti società di capitali, società cooperative, mutue assicuratrici, società e cooperative europee, stabili organizzazioni di società estere nel territorio italiano o società che esercitano o sono sottoposte alla direzione ed al coordinamento di tali società, f) procedimenti relativi a contratti pubblici di appalto di lavori, servizi o forniture di rilevanza comunitaria, dei quali sia parte una delle predette società o un consorzio o un raggruppamento temporaneo al quale la stessa partecipi, purché sussista la giurisdizione del giudice ordinario, g) alle cause ed ai procedimenti connessi con quelli appena indicati (art. 3 del d.lgs. n. 168 del 2003, come modificato).
La ratio dell'intervento normativo consiste nell'affidare la trattazione di tali controversie ad organi giudiziari che, in quanto composti da magistrati dotati di una specifica preparazione professionale e di una particolare competenza tecnica in materia di diritto industriale e societario, siano in grado di fornire una risposta tempestiva e qualitativamente adeguata alla domanda di giustizia in un settore ritenuto essenziale per la competitività del sistema economico.
Peraltro, a dispetto della denominazione di «tribunale delle imprese», prescelta dal legislatore per i nuovi organi, la competenza degli stessi abbraccia un ambito ben più limitato di quello del contenzioso concernente l'attività d'impresa, restandone escluse sia le controversie in materia di rapporti societari inerenti a società di persone sia quelle in materia di contratti d'impresa, nonché (almeno ad un primo esame) i procedimenti di volontaria giurisdizione in materia societaria e, ovviamente, quelli esecutivi e fallimentari. Il novero delle controversie devolute alle sezioni specializzate comprende inoltre materie piuttosto eterogenee, la cui individuazione è affidata a criteri d'interpretazione tutt'altro che agevole, e quindi suscettibili di dar luogo a questioni pregiudiziali idonee a complicare e ritardare lo svolgimento del processo.
La trattazione delle controversie in questione è affidata ad articolazioni interne degli uffici giudiziari indicati, la cui costituzione ed organizzazione devono ritenersi pertanto rimesse allo strumento tabellare, così come l'individuazione dei criteri per la scelta dei
giudici chiamati a comporle, la quale deve aver luogo tra i magistrati dotati di specifiche competenze ed esperienze in materia di diritto societario ed industriale (art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 168 del 2003, come sostituito). Alla luce di tale criterio di selezione e della stessa finalità dell'intervento normativo, non appare tuttavia agevolmente comprensibile il motivo per cui è stata attribuita alle sezioni specializzate anche la competenza in ordine alle controversie in materia di appalti pubblici, la cui estraneità al bagaglio culturale e professionale dei magistrati chiamati a trattarle non trova un'adeguata compensazione nella circostanza che il giudizio coinvolge gl'interessi di una o più imprese costituite in forma societaria, e la cui consistenza numerica potrebbe in molti casi risultare di gran lunga superiore a quella delle controversie in materia industriale e societaria.
La nuova disciplina, inoltre, al pari di quella modificata, non percorre fino in fondo la strada della specializzazione, in quanto prevede che ai giudici delle sezioni specializzate può essere assegnata dal capo dell'ufficio anche la trattazione di processi diversi, purché ciò non comporti ritardo nella trattazione e decisione dei giudizi in materia di impresa (art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 168 del 2003). Quest'ultima condizione potrebbe peraltro risultare di difficile realizzazione, se si considera che, non essendo stato previsto alcun incremento dell'organico in favore degli uffici destinati ad accogliere le sezioni specializzate, la costituzione delle stesse comporterà una sottrazione di personale alla trattazione delle controversie non incluse nella loro specifica competenza, con inevitabili ricadute negative, soprattutto negli uffici di più modeste dimensioni. In tale prospettiva, potrebbe risultare opportuno che i capi degli uffici concentrino nelle medesime sezioni anche la trattazione delle controversie in materia industriale e societaria anteriori all'entrata in vigore della nuova disciplina, ovviamente nei limiti di quelle di competenza del medesimo ufficio, restando le altre attribuite ai tribunali ed alle corti d'appello competenti secondo i criteri ordinari, applicabili fino all'entrata in vigore del decreto legge.
L'applicabilità delle nuove disposizioni ai giudizi istaurati in data successiva al centottantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge n. 27 del 2012 impedisce allo stato di esprimere qualsiasi giudizio in ordine al funzionamento delle sezioni specializzate ed alla loro capacità di far fronte effettivamente alle esigenze per la cui soddisfazione sono state istituite. Ciò che può dirsi fin d'ora, tuttavia, è che, in mancanza di un adeguamento degli organici dei tribunali e delle corti d'appello presso i quali sono destinati ad operare, il successo di tali organi è affidato in larga parte alle doti organizzative del capo dell'ufficio, ed in particolare alla sua capacità di selezionare i magistrati più idonei per queste delicate funzioni, di disciplinare la composizione dell'organo e la ripartizione degli affari con le altre sezioni in modo da evitare perniciose interferenze e complicazioni, e, non da ultimo, di prevedere modalità di funzionamento idonee a garantire effettivamente una corsia preferenziale alle controversie indicate.
5.5. Le innovazioni in materia concorsuale ed esecutiva.
In tema di regolazione delle crisi d'impresa, significative innovazioni sono state introdotte sia dal decreto legge n. 83 del 2012 e dalla legge di conversione n. 134 del 2012, che dal decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179 (cd. «decreto crescita») e dalla legge di conversione 17 dicembre 2012, n. 221. La legge 24 dicembre 2012, n. 228 (cd. legge di stabilità) ha poi completato la disciplina di settore relativa al funzionamento delle procedure
concorsuali, parzialmente integrando l’appena mutato sistema generale delle notifiche in via telematica, mentre in materia di insolvenza del debitore civile la legge 27 gennaio 2012, n. 3 ha introdotto i procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento, in seguito modificati dal citato decreto n. 179 e dalla legge di conversione n. 221.
In particolare, l'art. 33 del decreto legge n. 83 cit. ha apportato alla legge fallimentare un serie di modificazioni volte a favorire la continuità dell'attività economica.
Esso ha esonerato dalla revocatoria fallimentare le vendite ed i preliminari di vendita conclusi a giusto prezzo ed aventi ad oggetto immobili ad uso non abitativo destinati a costituire la sede principale dell'attività d'impresa dell'acquirente (art. 67, terzo comma, lett. c).
In riferimento agli accordi di ristrutturazione dei debiti, ha chiarito che l'accordo deve consentire la soddisfazione integrale dei creditori estranei, ammettendo, a tal fine, anche la previsione di una moratoria non superiore a centoventi giorni (art. 182-bis), e prevedendo, per agevolare l'accordo, l'esonero dalla revocatoria degli atti posti in essere in esecuzione dello stesso (art. 67, terzo comma, lett. d) e dei pagamenti di crediti anteriori effettuati con l'autorizzazione del tribunale, in quanto essenziali per la prosecuzione dell'attività d'impresa e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori (art. 182-quinquies).
In tema di concordato preventivo, ha previsto espressamente che il debitore debba depositare il piano contenente la descrizione delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta, ammettendo tuttavia anche la possibilità di depositare la domanda di concordato con riserva di presentazione della proposta, del piano e della relativa documentazione entro un termine fissato dal giudice, disponendo che dal deposito del ricorso e fino al decreto di omologazione il debitore può compiere in ogni caso gli atti di ordinaria amministrazione, e con l'autorizzazione del tribunale anche quelli di straordinaria amministrazione, e prevedendo che i crediti dei terzi eventualmente sorti in conseguenza degli atti legalmente compiuti siano prededucibili ai sensi dell'art. 111 (art. 161). Sempre al fine di favorire l'iniziativa del debitore, ha precisato che dalla data di pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese non possono essere iniziate azioni non solo esecutive, ma anche cautelari sul patrimonio del debitore, aggiungendo che le ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni precedenti sono inefficaci nei confronti dei creditori anteriori al concordato (art. 168); ha chiarito la sorte dei contratti pendenti al momento della presentazione della domanda, consentendo al debitore di chiedere l'autorizzazione a sciogliersi dal contratto o la sospensione dello stesso (art. 169-bis), ed ha introdotto una più articolata disciplina per l'esercizio del diritto di voto ai fini dell'approvazione della proposta da parte dei creditori (art. 178). Ha previsto che dalla data di deposito della domanda di ammissione al concordato preventivo o di omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti e sino all'omologazione non trovino applicazione le regole societarie in tema di conservazione del capitale sociale (art. 182-sexies).
Ha introdotto il cd. “concordato” con continuità aziendale, che consente la prosecuzione dell'attività d'impresa, subordinatamente alla presentazione della relazione di un professionista che attesti che tale attività è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori; in tal caso, ha consentito la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa e, previa autorizzazione del tribunale, il pagamento dei crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi, purché ne sia attestata l'essenzialità per la prosecuzione
dell'attività d'impresa e la funzionalità ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori;
ha previsto che i contratti in corso di esecuzione alla data di deposito del ricorso non si risolvono per effetto dell'apertura della procedura, dichiarando inefficaci eventuali patti contrari, e disponendo che l'ammissione alla procedura non impedisce la partecipazione a procedure di assegnazione di contratti pubblici (art. 186-bis).
Ha infine consentito al debitore, che presenti una domanda di ammissione al concordato preventivo o di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti, di chiedere l'autorizzazione a contrarre finanziamenti, prededucibili ai sensi dell'art. 111, ove un professionista in possesso dei requisiti di cui all'art. 67, terzo comma, lettera d), verificato il complessivo fabbisogno finanziario dell'impresa sino all'omologazione, attesti che tali finanziamenti sono funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori (art. 182-quinquies).
La legge n. 3 del 2012 ha invece introdotto un articolato procedimento per porre rimedio alle crisi da sovraindebitamento, consentendo al debitore, che versi in una situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte ed il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, di concludere un accordo con i creditori (art. 6), con l'ausilio di organismi appositamente istituiti presso enti pubblici e dotati di adeguate garanzie di indipendenza e professionalità (art. 15). L'accordo ha luogo sulla base di un piano che deve assicurare il regolare pagamento dei creditori ad esso estranei e l'integrale pagamento dei creditori privilegiati e deve prevedere le modalità di adempimento, le garanzie a tal fine rilasciate e le modalità per l'eventuale liquidazione dei beni (art. 7). La proposta deve essere depositata presso il tribunale, unitamente all'elenco dei creditori e degli elementi necessari per valutare la sua fattibilità (art. 9), e la sua presentazione comporta il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari sul patrimonio del debitore (art. 10); essa è sottoposta all'approvazione dei creditori, a seguito della quale ha luogo l'omologazione da parte del giudice, previa verifica della sussistenza dei presupposti, con decreto reclamabile dinanzi al tribunale (art. 12). L'esecuzione dell'accordo ha poi luogo mediante la nomina di un liquidatore, che dispone dei beni eventualmente sottoposti a pignoramento e delle somme incassate, sotto la vigilanza dell'organismo di composizione della crisi e con l'autorizzazione del giudice (art. 13). Tale procedura, originariamente prevista per i soli debitori non assoggettabili a procedure concorsuali, è stata in seguito estesa dall'art. 31 del decreto legge n. 179 del 2012 alle imprese qualificabili come start-up innovative ai sensi dell'art. 25 del medesimo decreto legge, le quali sono state esonerate dalle altre procedure concorsuali.
Il tratto comune ai predetti interventi normativi consiste nella finalità d'incentivare imprenditori e privati a porre tempestivamente rimedio alle difficoltà di pagamento, o comunque a ristrutturare le proprie attività economiche o le proprie prospettive reddituali in sofferenza, ponendo a loro disposizione soluzioni operative che consentano, con il consenso dei creditori, la fuoruscita dalla crisi mediante l'approntamento di appositi piani o atti d'indirizzo. Le procedure in questione si caratterizzano anche per la centralità del ruolo assegnato al giudice, il quale è chiamato non solo ad esercitare un controllo di regolarità formale in ordine alla formazione dell'accordo tra il debitore ed i creditori ed alle modalità di coagulazione delle maggioranze necessarie per l'omologazione del progetto, ma anche e soprattutto ad esprimere delicati giudizi prognostici in ordine all'idoneità delle misure
prospettate a consentire il superamento della crisi. In tale prospettiva, e avuto riguardo anche alle difficoltà determinate dalla sfavorevole congiuntura economica, non può sottacersi la gravità delle conseguenze che l'attivazione della procedura può comportare per le aspettative di soddisfazione dei creditori, soprattutto laddove, come nel caso della domanda di ammissione al concordato con riserva della presentazione del piano, la proposta del debitore non sia accompagnata da informazioni sufficienti in ordine alle iniziative da adottare per sanare lo squilibrio. Il moltiplicarsi degli strumenti di risoluzione delle crisi d'impresa, nel quadro di una legislazione emergenziale volta a stimolare la ripresa e la crescita economica, in quanto concretamente suscettibile d'incidere sulla competizione tra i soggetti operanti sul mercato interno, inizia d'altronde a far sorgere delicate questioni di compatibilità con il divieto di aiuti di Stato, o comunque a suscitare critiche nei confronti di misure come quelle in esame, che, agevolando la sola impresa in crisi, finiscono inevitabilmente per operare a sfavore del concorrente che sia un normale pagatore.
5.6. Le modifiche alla cd. legge Pinto.
Come si è già ricordato (nel capitolo IV, par. 6) il Rapporto CEPEJ 2012 considera l’indennizzo dei pregiudizi derivanti dal malfunzionamento del servizio giudiziario come uno dei più rilevanti aspetti dell’effettiva tutela dei diritti degli utenti. Per tale ragione horitenuto di dedicare opportuna attenzione all’applicazione della legge 24 marzo 2001, n. 89,
cosiddetta Legge Pinto a partire dalla mia prima relazione sull’amministrazione della giustizia per l’anno 2011.
Si è segnalata (v. retro, par. 3.2) la rilevante diminuzione delle nuove iscrizioni (-19,2%). Il dato s’inserisce nella tendenza generale alla diminuzione delle sopravvenienze (-3,7%), ma nelle sue dimensioni, ove il fenomeno si dimostrasse non limitato al periodo preso in considerazione, ha un rilevante significato che potrebbe essere spiegato anche con una stabilizzazione della giurisprudenza in materia che indubbiamente ha effetti deflattivi sulla domanda.
Il dato relativo alle nuove iscrizioni nelle corti d’appello trova corrispondenza in quello relativo alla Corte di cassazione, in cui nell’ambito del fenomeno generale della diminuzione delle sopravvenienze (-5,7%) si è verificato una diminuzione anche delle sopravvenienze di ricorsi in materia di equa riparazione per irragionevole durata dei giudizi, sia pure molto contenuta (-0,9 % pari a 1.676 nuove iscrizioni), che tuttavia è significativa se messa in relazione con la rilevante diminuzione delle sopravvenienze verificatisi nel 2011 (-37,4 % con 1691 nuovi ricorsi rispetto ai 2.703 ricorsi iscritti nel 2010).
E’ prevedibile che le modifiche introdotte alla legge Pinto con l’art. 55 del d.l. “sviluppo” 22 giugno 2012 n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabili ai ricorsi depositati a decorrere dall’11 settembre 2012 (art. 55, secondo comma) avranno un ulteriore effetto deflativo, sia attraverso il recepimento in norme di legge di alcuni orientamenti giurisprudenziali e sia per effetto dell’introduzione di alcune limitazioni all’indennizzabilità.
Dal primo punto di vista viene espressamente affermato che si considera rispettato il termine ragionevole se il processo, sia di cognizione che di esecuzione, non eccede la durata di tre anni o di sei in caso di procedure concorsuali, in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità, termini decorrenti dalla data del deposito del ricorso introduttivo del giudizio ovvero della notificazione dell'atto di citazione o con l'assunzione della qualità di imputato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero quando l'indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari. Viene ribadito che, come affermato in giurisprudenza, il calcolo non deve essere effettuato separatamente per ogni singolo grado, dovendosi ritenere comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni.
Con disposizione parzialmente innovativa è previsto che dalla durata del giudizio rilevante ai fini dell’equa riparazione sono espunti i periodi di sospensione, indipendentemente dal fatto che sia stata chiesta dalle parti, e l’intero periodo intercorso tra l’inizio del termine per proporre impugnazione e l’effettiva proposizione.
E’ espressamente escluso l’indennizzo in favore di chi: 1) sia stato condannato per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c.; 2) abbia rifiutato la proposta di conciliazione quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta stessa (art. 13, 1 comma, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, sulla mediazione); 3) sia stato prosciolto per estinzione del reato per intervenuta prescrizione dipendente da condotte dilatorie della parte; 4) non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini di durata ragionevole; 5) abbia determinato un’ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento abusando dei poteri processuali.
Quanto alla determinazione dell’indennizzo sono dettati precisi criteri di liquidazione:
a) l’equa riparazione consiste nell’attribuzione di una somma di denaro non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo; b) deve tenersi conto dell'esito del processo, del comportamento del giudice e delle parti, della natura degli interessi coinvolti, del valore e della rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni personali della parte; c) la misura dell'indennizzo non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice.
Molto rilevanti sono anche le innovazioni in tema di procedimento, essendosi previsto uno speciale procedimento per ingiunzione da chiedere al presidente della corte d’appello competente, allegando al ricorso introduttivo l'atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relative al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata nonché i verbali di causa e i provvedimenti del giudice, compresi, ovviamente, quelli che hanno definito il giudizio. Contro il decreto che ha deciso sulla domanda di equa riparazione può essere proposta opposizione che viene trattata secondo il rito camerale di cui agli artt. 737 e seguenti del codice di procedura civile. Con il decreto del presidente della corte d’appello che rigetta la domanda di equa riparazione o con il provvedimento che definisce il giudizio di opposizione, il giudice, quando la domanda per equa riparazione è
dichiarata inammissibile ovvero manifestamente infondata, può condannare il ricorrente al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma di denaro non inferiore a euro 1.000 e non superiore a euro 10.000.
Le modifiche legislative meritano certamente apprezzamento anche se, in sede di audizione al Senato, nell’ambito del procedimento legislativo per l’esame del disegno di legge n. 3125 (Della Monica e altri), avevo espresso la mia preferenza per la soluzione secondo la quale le richieste di indennizzo avrebbero dovuto essere valutate innanzi tutto in sede extragiudiziaria, dalle amministrazioni competenti, riservando l’intervento del giudice a una fase successiva ed eventuale, conseguente al mancato raggiungimento di un accordo tra le amministrazioni stesse e la parte danneggiata.


7. La giustizia minorile
1. L’Europa alza l’asticella nella protezione dei diritti fondamentali dei soggetti particolarmente “esposti”: donne e bambini.
Il 2012 segna tappe importanti nella costruzione dell’Europa dei diritti e della giustizia potenziando il livello di protezione delle persone particolarmente “esposte”, donne e bambini, e chiamando gli Stati nazionali a fare la loro parte.
Il 27 settembre di quest’anno l’Italia ha firmato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul), che è il primo strumento giuridicamente vincolante, pensato per la prevenzione di questo fenomeno dilagante, per combatterlo e per affrontarne le cause.
Esso affina i mezzi di contrasto, criminalizzando nuove fattispecie come il matrimonio forzato, le mutilazioni dei genitali femminili, la violenza psicologica e dà nuovo slancio -inserendolo in un programma europeo di promozione dei diritti delle donne - alle strategie di prevenzione, repressione, assistenza e riabilitazione delle vittime, mirando a garantire, in una Europa dei diritti, il concreto esercizio del diritto fondamentale all’integrità fisica ed alla salute psicologica delle donne e delle bambine.
Con obiettivo analogo, neanche un mese dopo, l’Italia ha ratificato, con la già citata legge n. 172, la Convenzione del Consiglio d’Europa di Lanzarote del 25 ottobre 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale. Convenzione che rappresenta l’approdo della costante preoccupazione dell’Europa nei confronti dei diritti delle vittime del reato e un formidabile volano culturale ed operativo nella promozione dei diritti delle persone di età minore e nell’elaborazione di nuove e più efficaci strumenti vincolanti per gli Stati parte, al fine di contrastare la violenza, declinata in diverse forme, nei confronti di soggetti minorenni. Le più importanti novità legislative riguardano, quanto ai profili processuali, l’ampliamento del novero dei reati a termine di prescrizione “raddoppiato”, operato dall’art. 4, primo comma, lett. a); mentre sotto il profilo sostanziale la lettera b) introduce nel codice penale l’art. 414-bis e con esso la nuova fattispecie di pubblica istigazione o apologia a pratiche di pedofilia o pedopornografia. La successiva lettera c), invece, esprime l’attenzione del legislatore ai nuovi modelli familiari emergenti: l’art. 572 c.p.c., come modificato, assicura, infatti, tutela non solo ai soggetti che costituiscono la “famiglia”, quale “società naturale fondata sul matrimonio”, ma anche alle “persone conviventi”, con ciò mostrando di accogliere la valorizzazione giurisprudenziale della famiglia di fatto, per la quale già era stata assicurata tutela al convivente more uxorio.
Il legislatore, peraltro, spinge il raggio di tutela oltre, operando un più generico riferimento al rapporto di convivenza, non necessariamente qualificato dalla particolare natura del legame che ha portato alla sua istaurazione, allargando quindi significativamente il “potenziale” della norma incriminatrice. Estremamente utile, per una più efficace tutela, è la previsione di cui all’art. 602-quater, sull’inescusabilità dell’ignoranza dell’età della persona
offesa e l’estensione della protezione alla minore età in generale e non più solo agli infraquattordicenni.
Senza alcuna pretesa di esaustività, va ancora sottolineata l’introduzione del reato di adescamento, anche per via telematica, di minorenni, cd. grooming (art. 609-undecies), e la riformulazione dell’art. 600-ter con oggetto la pornografia minorile; mentre è interessante osservare come il “nuovo” testo dell’art. 600-bis configuri due distinte fattispecie, con oggetto, la prima, il reclutamento o induzione alla prostituzione del minore di anni diciotto e, la seconda, la condotta di chi favorisca, sfrutti, gestisca, organizzi o controlli la prostituzione di infradiciotenni ovvero ne tragga in altro modo profitto.
Al giudice nazionale rimane il peso della responsabilità di dare pieno sviluppo, con la sua costante opera di adeguamento del “fatto” al principio normativo, ai maggiori livelli di protezione della comunità domestica e delle persone minori, voluti dal legislatore “europeo”, utilizzando la ratio della disciplina sovranazionale come criterio ermeneutico prioritario. Giudice nazionale che, grazie ad una sempre maggiore uniformità dell’interpretazione del sistema delle fonti del diritto e della norma sovranazionale, contribuirà a disegnare un’unica identità dei cittadini europei, con il medesimo patrimonio “genetico” di diritti e doveri, assicurando, al contempo, il rispetto del principio di uguaglianza di tutti di fronte alla legge.
2. I diritti della “vittima” minorenne e la giustizia riparativa.
Nella costruzione di questo patrimonio comune, che implementa il ruolo della giurisdizione, deve essere letta la direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, manifesto dei “diritti della vittima”, dentro e fuori il procedimento penale e a prescindere dai suoi risultati: diritti di informazione e sostegno [diritto di comprendere ed essere compresi (art. 3), diritto di ottenere informazioni fin dal primo contatto con l’autorità competente (art. 4) e sul proprio caso (art. 6), diritto all’interpretazione e alla traduzione (art. 7), diritto di accesso ai servizi di assistenza (art. 8), per citarne alcuni], diritti di partecipazione al procedimento penale [diritto di essere sentiti (art. 10), diritti in caso di decisione di non esercitare l’azione penale (art. 11), diritto a garanzie nel contesto dei servizi di giustizia ripartiva (art. 12), per citarne altri]. Il legislatore dell’Unione ribadisce in più punti che si tratta di “norme minime” e richiama gli Stati membri all’impegno di innalzare il livello dei diritti e di potenziarli al fine di “ mantenere e sviluppare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia”.
La direttiva dedica, in particolare, l’art. 24 ai diritti dei minori a beneficiare di protezione nel corso del procedimento penale, consapevole della criticità costituita dalla rappresentanza sostanziale e processuale della persona minore e dall’elevato rischio di vittimizzazione secondaria. Ribadisce, poi, che “l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente, conformemente alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e alla Convenzione delle Nazioni unite sui diritti del fanciullo adottata il 20 novembre 1989” (§14) e che il minore deve essere considerato detentore a pieno titolo di diritti, capace e sostenuto nell’esercitarli, trattato in maniera rispettosa, sensibile e professionale. Espressione di questa sensibilità è la decisione Cass. Sez. 3 n. 33362 del2012, nella quale il giudice di legittimità sottolinea la necessità di attribuire “maggior tutela” ai minori, in particolare se in tenera età, in quanto la violazione della loro integrità (nella specie sessuale) “può influire negativamente sul processo formativo del bambino”.
Il giudice, in questi procedimenti, è chiamato a un delicato bilanciamento tra l’"interesse preminente" suddetto, sia esso riferibile all’autore o alla vittima del reato, e le legittime esigenze repressive statuali coniugate ad istanze di sicurezza sociale. In quest’ottica la frontiera è quella della giustizia riparativa, già auspicata dalle linee guida adottate il 17 novembre 2010 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia child friendly e oggi dal legislatore dell’Unione (§9 e §46 nelle premesse, art.12 della direttiva), che chiede agli Stati membri l’istituzione di “servizi di giustizia riparativa, fra cui ad esempio la mediazione vittima-autore del reato, il dialogo esteso ai gruppi parentali e i consigli commisurativi”.
E’ questa una sfida che il nostro Paese deve raccogliere; infatti, in un processo penale, come quello disegnato con lungimiranza dal legislatore dell’88 con il D.P.R. n. 448, in cui, da un lato si pone al “centro” la dimensione della rieducazione del reo, e dall’altro è evidente l’attenzione alla vittima, le ragioni della giustizia riparativa devono trovare spazi operativi molto più ampi di quelli attuali. Le importanti esperienze di mediazione avviate da tempo in numerosi distretti del territorio nazionale non possono rimanere gli unici strumenti, unitamente a quelli preziosi relativi alla “messa alla prova”, per realizzare una rivoluzione culturale, che faccia evolvere paradigmi processuali e tecniche sanzionatorie verso un modello di giustizia penale minorile non formalista, non inquisitoria, non retributiva, ma anche non “indulgenziale”. Gli stimoli che provengono dall’Europa devono innestarsi sulla nostra tradizione giuridica e giudiziaria, e questo permetterà di costruire un modello in grado di coinvolgere la vittima, il reo e l’intera collettività nella ricerca di soluzioni agli effetti negativi del conflitto generato dal fatto delittuoso, perché l’orizzonte della riparazione del danno, della riconciliazione tra le parti e del rafforzamento del senso di sicurezza collettivo possa essere più vicino.
3. La Corte europea “sensore” dei diritti fondamentali del minore.
E’ ancora dall’Europa che ci viene chiesta una nuova riflessione sui diritti fondamentali, sul diritto fondamentale del bambino abbandonato ad una sua identità personale e biologica e su quello confliggente della madre a recidere qualunque legame con lui, negandogli per sempre tale identità.
E’ il caso emblematico della sentenza del 25 settembre 2012, Godelli c. Italia (ric. n. 33783/09), sul segreto delle origini nelle procedure di adozione: secondo la Corte il sistema
giuridico italiano non prende in considerazione l’interesse del bambino, poiché, una volta che la madre biologica ha deciso di restare anonima, sacrifica completamente e definitivamente il suo diritto a conoscere le proprie origini e a formare una propria identità.
Lo sforzo è quello di costruire un meccanismo che garantisca l’accesso alla propria identità biologica, salvaguardando nel contempo la libertà della donna di rifiutare lo status di madre, senza essere costretta a ricorrere all’interruzione della gravidanza. Del resto già la Corte Costituzionale con la sentenza n. 425 del 2005 aveva sottolineato come l’art. 28 della legge sull’adozione, novellata dalla legge n. 149 del 2001, garantisca efficacemente la duplice finalità di garanzia della libertà all’anonimato e il diritto a nascere in una condizione sanitaria e sociale “protetta”.
In materia di idoneità dell’ambiente familiare a crescere un minore, è di particolare interesse, a proposito dell’istituto dell’adozione, il confronto tra culture che vive nelle decisioni della Corte di giustizia, così come nelle sentenze della nostra Corte di legittimità;
l’istituto dell’adozione è infatti ammesso nei Paesi occidentali e generalmente negato nei vicini Paesi arabi.
Nella decisione Harroudj c. Francia (ric. n. 43631/09) del 4 ottobre 2012, la Corte affronta la questione dell’ammissibilità dell’adozione di un bambino algerino affidato con l’istituto della kafala a una donna francese, che, tornata in patria, ne aveva chiesto l’adozione; in particolare, questa, dopo il rigetto della sua domanda, in quanto la legislazione francese pone il divieto di adozione di un minore, il cui Paese di origine la vieti, era ricorsa alla Corte di Strasburgo assumendo che negare l’adozione e quindi, negare i diritti successori del bambino e quelli connessi alla cittadinanza, violasse il suo diritto alla vita privata e familiare e quindi l’art. 8 della Convenzione. Secondo la Corte non esiste, in base alla Convenzione europea, un obbligo per gli Stati di equiparare la kafala all’adozione e, inoltre, il sistema giuridico francese garantisce un giusto equilibrio tra diritto all’adozione e tutela del legame con il proprio Paese e le proprie origini culturali.
Sulla configurabilità o meno di tale equiparazione, pur con riferimento ad uno specifico profilo parzialmente diverso, con ordinanza 24 gennaio 2012 n. 996 è stata rimessa alle Sezioni unite la questione di particolare importanza, sulla quale la sezione semplice si era espressa in senso negativo (Cass. n. 4868 e 25661 del 2010, 19450 e 20722 del 2011) se possa essere rifiutato il nulla osta all'ingresso nel territorio nazionale per ricongiungimento familiare richiesto nell'interesse di minore extracomunitario affidato in kafala a cittadino italiano, diversamente da quanto ritenuto in caso di affidamento a cittadino extracomunitario.
Sulla questione del diritto al ricongiungimento familiare è di grande interesse la sentenza del 6 dicembre 2012 della Seconda sezione della Corte di Strasburgo, nelle cause riunite C-356/11 e C-357/11, che dà contenuto alla cittadinanza europea dei minori, figli di madri di paesi terzi, affermando che l’eventuale diniego del ricongiungimento familiare (nella specie del marito della madre anch’esso cittadino di paese terzo) è da ritenersi legittimo unicamente qualora esso non determini una privazione del godimento effettivo del nucleo essenziale dei diritti attribuiti dallo status di cittadino dell’Unione.
4. Una conquista di civiltà: l’unificazione dello status filiationis.
Di grande rilievo, nella costruzione di un effettivo sistema europeo di protezione dei diritti nel quale l’Italia possa inserirsi a pieno titolo, sono le disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali definitivamente approvate dalla Camera il 27 novembre 2012, in quanto eliminano dall'ordinamento le residue distinzioni tra figli legittimi e figli naturali.
Il riformato art. 74 del codice civile afferma infatti che la parentela è il vincolo tra le persone che discendono dallo stesso stipite sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo ed il successivo art. 315 c.c. che tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico. Se, quindi, dette
disposizioni, quanto ai principi enunciati, devono essere salutate con estremo favore, anche perché, finalmente, danno giuridico riconoscimento ad una realtà sociale di proporzioni sempre più importanti e per troppo tempo marginalizzata, tuttavia non può suscitare più di una perplessità il massiccio spostamento di competenze, previsto nel riformulato art. 38 disp. att. c.c., dal tribunale per i minorenni al tribunale ordinario. Perplessità che ineriscono la specializzazione dei giudici, l’organizzazione degli uffici, il rito da applicare.
Sotto il primo profilo, è chiaro che lo spostamento massiccio delle competenze già del tribunale per i minorenni al tribunale ordinario (basti pensare al rilevante contenzioso sull’affidamento, il mantenimento e la disciplina delle visite riguardo ai figli “naturali”, o ai procedimenti de potestate nel caso, tutt’altro che infrequente, in cui questi siano collegati a procedimenti di separazione o divorzio, per comprendere lo “svuotamento” di fatto delle competenze del Tribunale per i minorenni) crea l’urgenza di preservare il principio della specializzazione dei giudici che trattano questa materia; specializzazione necessaria che risponde, oltre alla nostra tradizione giuridica, ad un preciso requisito voluto dalle linee guida del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di bambino, adottate dal Comitato dei ministri il 17 novembre 2010 e che, allo stato, non è assicurata dai Tribunali ordinari, sia per quanto riguarda la formazione dei giudici togati, sia per la mancanza del prezioso contributo della magistratura onoraria. L’effettività della specializzazione è una priorità in questo settore della giustizia che, più di ogni altro, richiede operatori qualificati, formati e “vocati”. E’ auspicabile, quindi, che sia predisposta una seria attività di formazione dei giudici “ordinari” dei minori e della famiglia da parte della Scuola superiore della magistratura appena inaugurata e che anche il Consiglio superiore della magistratura svolga una sapiente opera di normazione secondaria in tal senso.
Quanto all’organizzazione degli uffici è necessario assicurare che in ogni tribunale sia individuata una sezione che tratti esclusivamente la materia di famiglia e minori, stante la delicatezza degli interessi in gioco, strettamente collegati, per la loro protezione in concreto, alla rapidità dell’intervento giudiziario, essendo inconcepibile che l’affidamento di un bambino a un genitore, magari in una situazione familiare a rischio, vada a confondersi in un ruolo promiscuo del giudice.
Infine, il legislatore sembra aver dimenticato la centralità della funzione del “rito” nella concreta realizzazione dei diritti. Esemplificando, pur nella consapevolezza del rischio della sintesi, il rito “deformalizzato” della camera di consiglio, con le note critiche di larga parte della dottrina e dell’ avvocatura nel suo complesso, continuerà ad applicarsi nelle controversie ex art. 317-bis c.c., relative all’affidamento ed al mantenimento dei figli naturali, mentre il rito contenzioso di cui agli art. 706 e segg. c.p.c. a quelle per l’affidamento ed il mantenimento dei figli legittimi, con buona pace del principio di una effettiva parificazione tra figli legittimi e figli naturali.
5. Una priorità: la definizione legislativa di disposizioni specifiche in materia di esecuzione dei provvedimenti giudiziari che riguardano i minori.
La centralità degli schemi procedimentali, quali garanti della realizzazione in concreto dei diritti, emerge in tutta la sua drammaticità da taluni episodi di cronaca legati alla esecuzione dei provvedimenti giudiziari che riguardano i minori. E’ urgente una seria riflessione sul problema dell’esecuzione di tali provvedimenti, che deve raccogliere il contributo dei migliori giuristi per varare al più presto disposizioni specifiche, non potendosi più tollerare l’attività di “supplenza” della magistratura, chiamata a riempire di contenuti una lacuna legislativa così imponente e potenzialmente devastante nei suoi effetti sul bambino e sulle sue relazioni familiari.
Anche su questa delicatissima materia qualche utile indicazione proviene dalla Corte europea dei diritti umani. La Corte di Strasburgo, infatti, con la sentenza del 5 aprile 2012 Sromblad c. Svezia (ric. n. 3684/07), ha affermato che viola l’articolo 8 della Convenzione la mancata esecuzione della decisione sull’affidamento del figlio minore da parte delle Autorità nazionali, quando il genitore non affidatario, pur avendo denunciato agli organi competenti le proprie difficoltà, non riesca, di fatto, ad incontrarlo da oltre cinque anni.
Nella sentenza del 17 aprile 2012 Pascal c. Romania (ric. n. 805/09) la Corte nega, invece, la violazione dell’art. 8 medesimo, qualora la (lamentata) mancata esecuzione di una decisione concernente l’affidamento di figli minori sia giustificata, pur in presenza di una atteggiamento ostativo del genitore affidatario, dal rifiuto ostinato del figlio ad incontrare l’altro genitore. In questa occasione la Corte precisa che è ammissibile una esecuzione “rallentata” della decisione da parte delle autorità nazionali causata dalla esasperata ostilità dei genitori e dalla attenta modulazione del best interest del minore, che, in ogni caso, deve prevalere su quello degli adulti, offrendo, in tal senso, ai giudici nazionali un criterio ermeneutico assai significativo.


8. La Corte di cassazione
1. Il ruolo della Cassazione: tradizione e mutamenti.
L’art. 111 Cost. ha recepito, sostanzialmente, la tradizione dottrinale che, alla stregua dell'art. 122 dell'ordinamento giudiziario approvato con r. d. 6 novembre 1865, n. 2626, definiva la Corte di cassazione come «organo unificatore dell'interpretazione giurisprudenziale del diritto», nonché la portata dell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario approvato con r. d. 30 gennaio 1941, n. 12. Esso, pur non realizzando una vera e propria costituzionalizzazione delle disposizioni di ordinamento giudiziario, ha conferito alla funzione di nomofilachia un fondamento costituzionale che impedisce di attribuire alla Corte una posizione di mero vertice del sistema delle impugnazioni, assegnandole invece il compito di garantire, attraverso la tendenziale certezza del contenuto delle disposizioni normative e la conseguente prevedibilità delle decisioni giudiziarie, la parità di trattamento tra i soggetti che invocano la tutela giurisdizionale, conformemente ai principi di cui agli artt. 3 e 24 Cost.
Peraltro della nomofilachia si possono avere e si sono avute diverse concezioni. Una che potrebbe essere definita verticistica e autoritaria, che sulla base di una lettura un po’ formalistica, e anche datata, dell’art. 65 ord. giud., vede come esito estremo l’affermazione dell’efficacia vincolante del precedente, e l’altra tendenziale e dinamica, più compatibile con un corretto assetto della giurisdizione e della Corte di cassazione nell’ordinamento democratico. Di questa visione è stato autorevole assertore Antonio Brancaccio, Primo Presidente dal dicembre 1986 al gennaio 1995, un grande magistrato, che nel discorso pronunciato in occasione del suo insediamento, con riferimento alle oscillazioni che talvolta si verificano all’interno della giurisprudenza della Corte, affermava: “Quando le oscillazioni della giurisprudenza non sono casuali – e per ciò stesso deprecabili e quindi da evitarsi con opportuni accorgimenti diretti a migliorare l’informazione dei giudici – esse sono per la maggior parte espressione di motivati punti di vista contrapposti…in questi casi la dialettica fra le opposte tesi può essere non un fatto patologico, ma un momento di un procedimento fisiologico per raggiungere la certezza, che non
si lascia attingere attraverso una o anche poche decisioni, ma che necessita di un processo spesso lungo e articolato di maturazione. Questo processo interessa da un duplice punto di vista: perché in esso trova modo di esprimersi il pluralismo ideologico e perché vi si può inserire la giurisprudenza di merito con le peculiarità della sua esperienza. La sintesi spetterà sempre alla Cassazione, ma sarà una sintesi che si porge come un valore non imposto autoritativamente, sibbene risultante da un’opera attenta di mediazione, che avrà tenuto nel giusto conto il contributo dei giudici di merito….la certezza del diritto, che costituisce lo scopo della nomofilachia, ne risulta ridefinita nel senso che essa si presenta non come un valore assoluto ed astratto, ma come valore tendenziale, correlato al dibattito che ha preceduto la decisione che la esprime.”
E’ opportuno sottolineare anche che la nomofilachia, che costituisce compito specifico ed esclusivo della Corte di cassazione, deve essere considerata non tanto come manifestazione del potere ad essa attribuita dall’ordinamento, ma come espressione della funzione, del servizio che è chiamata a svolgere. Questa consapevolezza è utile per evitare i pericoli dell’individualismo e del soggettivismo che possono indurre a trascurare l’idea che ogni magistrato della Corte deve sempre avere ben presente di far parte di un’istituzione che deve parlare ai cittadini in quanto tale e non come semplice somma di provvedimenti imputabili a ciascun collegio e tanto meno a singoli magistrati. Anche qui è doveroso richiamare l’opinione di Antonio Brancaccio che, nell’invitare a ridurre al minimo possibile i contrasti giurisprudenziali, affermava: “A quest’ultimo proposito non sarà mai troppe volte ripetuto l’avvertimento ai magistrati della Cassazione dei pericoli che presenta, per la irrinunciabile funzione nomofilattica dell’organo supremo della giustizia ordinaria, la prospettiva personalistica dell’esercizio della giurisdizione a scapito di quella suggerita dalla coscienza istituzionale, cioè dal consapevole impegno di concorrere tutti insieme alla realizzazione dei fini unitari dell’istituto. La milizia nella Cassazione non comporta la compressione delle idee e delle personalità dei singoli componenti di questa, con l’assurda pretesa di offrire una immagine monolitica, ma richiede un’attenta quanto difficile opera di mediazione fra apporti individuali e discorso collettivo, sicché i primi possano inserirsi quanto più armonicamente sia possibile nel secondo, favorendone un continuo avanzamento, alla luce dell’esigenza di tendenziale certezza di cui si è detto”.
E’ utile ricordare che il termine «nomofilachia» ha fatto la sua prima apparizione nel decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, il quale, unitamente alla legge 18 giugno 2009, n.
69, ha introdotto importanti innovazioni nella disciplina del giudizio civile di cassazione, conferendo particolare risalto all'enunciazione del principio di diritto. In proposito, appare
sufficiente richiamare: il nuovo testo dell'art. 363 c.p.c., il quale, in caso di rinuncia o inammissibilità del ricorso per cassazione, consente alla Corte, su richiesta del Procuratore generale o anche d'ufficio, di enunciare il principio di diritto «nell'interesse della legge», al solo fine di assicurarne per il futuro l'esatta interpretazione, e senza alcun effetto nei rapporti tra le parti; l'art. 384, primo comma, il quale prevede l'enunciazione del principio di diritto in ogni caso in cui la Corte è chiamata a decidere una questione di diritto di particolare importanza, e non solo nell'ipotesi di cui all'art. 360 n. 3; l'art. 374, terzo comma, il quale conferisce una particolare efficacia al principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite, rendendo obbligatoria la rimessione a queste ultime della decisione del ricorso, nell'ipotesi in cui la sezione semplice alla quale è stato assegnato ritenga di non condividerlo.
L'impulso che in tal modo il legislatore ha voluto dare all'esercizio di quella che, secondo l'art. 65 dell'ordinamento giudiziario (sostanzialmente ripreso, come si è visto, dalla Costituzione repubblicana), costituisce la funzione tipica della Corte di cassazione, fa apparire indispensabile, anche nell'operatività quotidiana, il recupero del significato reale di tale funzione, orientata, secondo le già citate parole di Calamandrei, a rendere giustizia ai singoli soltanto come mezzo in vista del conseguimento di una più ampia finalità, concernente il rapporto con la funzione legislativa (ovvero, come più propriamente potrebbe affermarsi alla luce dei segnalati sviluppi, con la pluralità delle fonti di produzione giuridica).
Nell'attuale fase, caratterizzata, come si dirà tra breve, dal permanere nel settore civile di uno squilibrio tra sopravvenienze, che pure segnano una diminuzione, e capacità di definizione e dalla conseguente formazione di un consistente arretrato, la cui definizione costituisce un ostacolo al pieno dispiegamento delle energie della Corte, il recupero della predetta funzione postula innanzitutto che l'esigenza di definizione del contenzioso pendente non prevalga su quella di conservazione e, se possibile, di miglioramento della qualità delle decisioni. Il contemperamento di queste esigenze può essere realizzato soltanto mediante una migliore organizzazione del lavoro, che porti a distinguere, nella congerie dei ricorsi che quotidianamente affluiscono, quelli che, ponendo questioni effettivamente controvertibili sotto il profilo normativo, rispondono realmente allo jus constitutionis, da quelli che invece pongono questioni di mero fatto o comunque già decise con orientamento conforme. Per queste ultime, la cui decisione risponde esclusivamente all'interesse del litigante (cd. jus litigatoris), possono infatti trovare giustificazione modalità di trattazione e definizione più snelle, anche attraverso il ricorso, in sede di redazione della sentenza o dell'ordinanza, a forme di motivazione semplificata, la cui utilizzazione consenta alla Corte di concentrare il proprio impegno sulla decisione dei ricorsi che davvero coinvolgono l'esercizio della funzione nomofilattica.
Tale soluzione trova conforto nei più recenti interventi normativi, con cui il egislatore ha da un lato modificato la disciplina del giudizio civile di cassazione, introducendo nuove ipotesi di inammissibilità del ricorso (il cd. «filtro») e prevedendo forme diverse per il procedimento in camera di consiglio, dall'altro ha inciso sulla stessa struttura tradizionale della sentenza, escludendo la necessità che la stessa contenga una parte specificamente dedicata alla narrazione dello svolgimento del processo, disponendocomunque che l'esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione sia «concisa» e «succinta», e consentendo anche che le ragioni della decisione siano espresse mediante il «riferimento a precedenti conformi». All'indirizzo emergente da tali disposizioni ho ritenuto di dare applicazione con il provvedimento emesso il 22 marzo 2011, con cui, ferma restando l'esigenza che la motivazione fornisca una spiegazione chiara della ratio decidendi, riferita specificamente alla fattispecie decisa, ho rivolto ai collegi del settore civile, quando sono chiamati a decidere su ricorsi che non richiedono l'esercizio della funzione di nomofilachia o che sollevano questioni giuridiche la cui soluzione comporta l'applicazione di principi giuridici già affermati dalla Corte e condivisi dal collegio, l'invito a redigere sentenze o ordinanze «a motivazione semplificata», di tipo estremamente sintetico con riferimento ai vizi di motivazione o con richiamo dei precedenti conformi.
Il restauro della funzione di nomofilachia postula anche la garanzia di un elevato livello professionale dei magistrati chiamati a esercitarla, sia attraverso una rigorosa disciplina dell'accesso in Cassazione, che selezioni i magistrati effettivamente dotati delle specifiche capacità richieste dall'attività in questione, sia attraverso una costante opera di formazione e aggiornamento, orientata non solo ai settori tradizionali del sapere giuridico, ma anche alle nuove aree di intervento del giudice, nonché ai più vasti orizzonti offerti dal diritto dell’Unione europea ed internazionale. Non si tratta di ripristinare quella sorta di diversità ontologica della Corte di cassazione rispetto agli altri organi giurisdizionali a lungo predicata o comunque sottintesa, prima che il legislatore, anche a seguito dell'intervento della Corte costituzionale, si facesse carico dell'attuazione del principio sancito dall'art. 107, co. 3, Cost., secondo cui «i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni». Occorre invece prendere atto della peculiarità e delicatezza della funzione demandata alla Corte, la quale esige che la stessa sia composta da magistrati che, per preparazione e capacità di analisi, siano in grado di cogliere, nell'interpretazione del diritto positivo, tutte le implicazioni connesse al segnalato pluricentrismo delle fonti. In tale prospettiva, un positivo apprezzamento può essere espresso in ordine alle innovazioni introdotte dal decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, che ha subordinato il conferimento delle funzioni giudicanti e requirenti di legittimità al riscontro della capacità scientifica e di analisi delle norme, per la cui valutazione ha previsto che la deliberazione istituzionalmente demandata al Consiglio superiore della magistratura sia preceduta dal parere di un'apposita commissione da quest'ultimo nominata ed avente composizione particolarmente qualificata.
La corretta attuazione di tale iniziativa, essenziale per la salvaguardia di un corretto esercizio della funzione di nomofilachia, rappresenta il solo mezzo in grado di evitare che, sotto il peso di un accesso indifferenziato e privo di controllo, il giudizio di cassazione smarrisca i connotati che lo caratterizzano nella visione recepita dalla stessa Carta costituzionale e si trasformi in una terza istanza, di merito, facendo in tal modo apparire giustificata l'opinione di chi, cogliendo tutte le implicazioni dell'attuale stato di emergenza, prospetta provocatoriamente i vantaggi di un'eventuale reintroduzione delle Cassazioni regionali, quanto meno sotto il profilo della ragionevole durata del processo. Il carattere
palesemente provocatorio della proposta non può tuttavia esimere, in questa sede, dal richiamo dei valori sottesi all'unicità della Corte, la consapevolezza dei quali traspare peraltro con evidenza dalle parole dello stesso Autore che l'ha formulata. Secondo quest'ultimo, infatti, «la tensione verso il valore dell'uniformità della giurisprudenza è diretta derivazione del valore costituzionale del principio d'uguaglianza dei cittadini (e non solo dei cittadini) davanti alla legge:
principio che sarebbe inevitabilmente compromesso ove la Corte di cassazione di Sicilia interpretasse l'art. 2059 c.c. in un modo e la Corte lombarda in un altro. La stessa unità nazionale finirebbe per esser compromessa, e questo proprio in un momento storico in cui sempre più (si pensi alla Carta di Nizza divenuta legge nel nostro ordinamento) si avverte l'esigenza di un'uniformità della giurisprudenza a carattere addirittura sovranazionale». La profonda diversità, che si è cercato di evidenziare
nell'esposizione che precede, del quadro normativo e istituzionale in riferimento al quale tali parole sono state pronunciate, non può far sottacere la significativa assonanza del concetto espresso con quello emergente dalle parole pronunziate da Calamandrei nella Assemblea Costituente: «La Cassazione è un istituto, è un meccanismo, la cui struttura è tale che o la
Cassazione è unica, ed allora serve a qualcosa, o non lo è, ed allora non serve più a niente».


2. Le Corti supreme degli altri Paesi.
Prima di fornire alcuni dati statistici relativi al lavoro svolto dalla Corte nel 2012 ritengo utile fornire un quadro informativo relativo ad alcune Corti supreme europee vicine alla nostra Corte di cassazione per struttura e funzioni.
2.1. La Cour de cassation francese.
La Cour de cassation deve gestire una media di circa 30.000 ricorsi l’anno (di cui circa 2/3 in materia civile e 1/3 in materia penale – dati 2011). Alla fine degli anni ‘90 soltanto le pendenze civili erano pari a circa 30.000 ricorsi, e nel 2001 si era raggiunta la punta massima di oltre 35.000 ricorsi. La riduzione del numero dei ricorsi civili è stata possibile a seguito di iniziative organizzative, come la dematerializzazione di tutti gli atti del procedimento, a iniziare dai ricorsi, che debbono essere necessariamente presentati in via telematica con posta elettronica certificata, e normative, come la semplificazione dei riti, e l’estensione della rappresentanza necessaria a mezzo di avvocati aventi una speciale abilitazione, gli avocats aux Conseil, i quali costituiscono una categoria a numero chiuso, attualmente composta da 106 persone, cui è riservato in via esclusiva l’esercizio della professione davanti alla Corte di cassazione ed al Consiglio di Stato, e che, però, non possono difendere davanti alle corti ed ai tribunali di merito.
La Cour de cassation è costituita da cinque sezioni (Chambres) civili e una penale. Ogni sezione è composta da un presidente, dai consiglieri pleno iure e dai consiglieri referendari, che esprimono un voto deliberativo solo in relazione ai ricorsi a essi assegnati. Tra i consiglieri pleno iure, è scelto, di solito in base a criteri di anzianità, per ogni sezione, il consigliere doyen (decano), che partecipa a tutte le camere di consiglio della sezione in formazione ordinaria, con la funzione di rappresentare la memoria storica della sezione e di
assicurare l’uniformità della giurisprudenza. I collegi sono composti in formazione ristretta da tre componenti, e, in formazione ordinaria, da almeno cinque magistrati, ma spesso più di dieci: in particolare, i collegi possono essere in formation plénière della singola sezione, per risolvere contrasti di giurisprudenza all’interno della singola sezione, e in Chambres mixtes, composte da 13 a 21 magistrati, per risolvere i contrasti di giurisprudenza tra le diverse sezioni. L’assemblea plenaria, infine, composta dal Primo Presidente, dai presidenti e dai consiglieri doyens delle sei sezioni, e da un consigliere per ogni sezione, per un totale di 19 magistrati, decide soprattutto nei casi di rébellion del giudice di rinvio il quale non si sia attenuto al principio di diritto enunciato nel precedente arrét della Corte, ed è la sede nella quale, proprio alla luce del confronto dialettico con i giudici di merito, avviene più frequentemente il revirement.
I ricorsi, appena pervengono alla Corte, sono esaminati dal Service de Documentation des études et du Rapport (il corrispondente del nostro Ufficio del massimario e del ruolo) per lo spoglio; inoltre, il Service de Documentation, nei casi di maggiore complessità, su segnalazione del consigliere relatore, cura la predisposizione di un dossier con il materiale legislativo, giurisprudenziale e dottrinale. Il consigliere relatore, poi, esamina preliminarmente il ricorso e decide se lo stesso deve essere trattato in camera di consiglio per la verifica di situazioni di inammissibilità (quale anche la manifesta infondatezza dei motivi) con una procedura semplificata, che statisticamente attiene a più di un quarto delle controversie, ovvero se in pubblica udienza, ma dal collegio in composizione ristretta di tre magistrati, in ragione della semplicità delle questioni, ovvero sempre in udienza pubblica, ma dal collegio in composizione normale. Il collegio, tuttavia, anche su istanza delle parti o dell’Avvocato generale, può reindirizzare la trattazione del ricorso da una formazione all’altra. Inoltre, il consigliere relatore predispone un rapport, in cui sono indicati i termini della questione e i riferimenti normativi e giurisprudenziali, uno o più progetti di sentenza, ed un avis riservato ai soli componenti del collegio, e nel quale anticipa il proprio orientamento.
Al giudizio partecipa la Procura generale, i cui Avvocati generali, anche nel giudizio civile presentano conclusioni scritte (avis).
Le udienze sono pubbliche, ma la loro durata è breve, perché solo raramente gli avvocati chiedono di illustrare oralmente le loro difese. In realtà, molto importante è il lavoro preparatorio nella pre-camera di consiglio antecedente all’udienza, dove si mettono a punto il progetto o i progetti di sentenza per ciascun ricorso, cosicché, poi, nella camera di consiglio, quando la causa viene decisa, viene redatto ed approvato anche il testo definitivo della sentenza, e la pubblicazione di questa segue nei giorni immediatamente successivi.
La pronuncia della Corte, arrêt, si caratterizza per proposizioni secche e meramente assertive, che non esplicitano il percorso argomentativo della decisione, ma che debbono chiarire solo qual è il punto controverso, qual è il motivo di ricorso, qual è il principio di diritto applicato dal giudice di merito e censurato dal ricorrente. La mancata possibilità di confronto tra decisioni, sotto il profilo della plausibilità argomentativa, rende più difficili i contrasti di giurisprudenza, anche se non è esclusa la modifica dei principi affermati, poiché la Corte può ripensare i propri enunciati, compiendo il revirement, e sovrapponendo un nuovo principio al vecchio principio. Ciò, ovviamente non significa che la Corte non esamini la questione di diritto; semplicemente, il rapporto (rapport) del consigliere relatore
resta un atto interno del procedimento decisorio.
Nei casi più importanti, gli arrêts vengono pubblicati unitamente al rapport nel Bollettino della Corte; se ciò avviene, la sentenza è inviata al Service de Documentation per la redazione della massima. Per comprendere l’estensione del fenomeno in termini quantitativi, è sufficiente considerare che, nel 2001, su circa 20.000 ricorsi civili decisi, sono state massimate e pubblicate 1317 sentenze.
Al fine di diffondere la giurisprudenza della Corte di cassazione e di poter meglio
stabilire le priorità nella trattazione degli affari, il Primo Presidente riunisce una volta l’anno
i presidenti delle corti di appello, per incontri che, in presenza dei presidenti di sezione della Corte di cassazione e di rappresentanti della Cancelleria, consentono scambi di opinione su questioni giuridiche nuove e la conoscenza delle problematiche e del contenzioso degli uffici di merito. I verbali di queste riunioni vengono anch’essi inseriti nel Bollettino della Corte.
La Cour de Cassation è esclusivamente juge du droit, che prende in considerazione i fatti così come accertati e valutati dai giudici di merito. Va però precisato che per legge si intende anche il contratto, atteso che, per l’art. 1134 cod. civ. francese, il contratto ha forza di legge tra le parti. Il vizio di motivazione è deducibile, e spesso invocato, ma raramente accolto; allo stesso modo, i vizi di procedura sono accolti solo se già eccepiti nei gradi di merito, e sempre che il ricorrente superi la generale presunzione di legittimità della procedura.
La Corte, poi, può essere chiamata a esprimersi anche in via pregiudiziale, su richiesta del giudice di merito, quando si tratti di una normativa nuova, che presenti difficoltà di interpretazione e che sia suscettibile di porsi in numerose controversie; in questo caso delibera in una formazione composta dal Primo Presidente, dai presidenti delle sezioni e da due consiglieri della sezione competente per materia, e la sua decisione (avis), non vincolante per i giudici di merito, e strutturata sul modello assertivo dell’arrêt, è pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Corte, unitamente al rapport del consigliere relatore ed alle conclusioni dell’Avvocato generale.
La Corte, infine, è l’unico organo giurisdizionale, unitamente al Consiglio di Stato, che può sollevare, eventualmente su richiesta dei giudici di merito, e procedendo in composizione plenaria, questione di legittimità costituzionale al Conseil constitutionnel. Essa, invece, non è competente sulle questioni di giurisdizione, che sono riservate al tribunale dei conflitti, a composizione mista tra consiglieri della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato, ma, a seguito della riforma costituzionale del 2008, l’accesso alla Corte presuppone che la proposizione del ricorso sia stata preceduta dall’esecuzione della sentenza impugnata, salvo che non risultino particolari ragioni che sono sottoposte alla valutazione del Primo Presidente o del consigliere da lui delegato.
2.2. La Cour de cassation belga.
In Belgio, la Cour de cassation tratta circa 3.500 ricorsi l’anno. Precisamente, nel 2010, il numero degli affari iscritti a ruolo era pari a 3.486, di cui 748 civili, 15 disciplinari, 144 tributari, 2.068 penali e 216 sociali; le pronunzie sono state 716 in materia civile, 19 in materia disciplinare, 1.944 in materia penale e 128 in materia sociale. Importantissimo, per il settore civile, è il filtro determinato dal fatto che i ricorsi possono essere presentati
solo dagli avvocati specificamente abilitati a difendere nel giudizio di cassazione, e che sono soltanto 20. L’organico è di 30 magistrati, di cui 2 Presidenti, 6 presidenti di sezione e 22 consiglieri, ed è composta di tre sezioni (Chambres), Ogni Chambre è composta di una (sotto)sezione in lingua francese e di una (sotto)sezione in lingua fiamminga. I collegi sono composti da tre magistrati per i casi più semplici, ma di regola sono formati da cinque membri e sono di nove unità quando la Chambre decide in sezione plenaria composta da componenti di entrambe le (sotto)sezioni. Gli affari più importanti sono normalmente deferiti alle Sezioni unite, che sono costituite da un collegio composto da magistrati appartenenti alle tre Chambres, e che, di massima, è formato da tutti i componenti della Corte, ma può riunirsi anche con un numero diverso, però non inferiore a 11 unità.
A tutti i giudizi partecipa la Procura generale, il cui rappresentante, anche nel giudizio civile, deve essere sentito ed esprime il suo avviso.
I ricorsi vengono tutti trattati in udienza pubblica: la procedura camerale per le inammissibilità è prevista solo in relazione ai procedimenti pendenti davanti alla (sotto)sezione fiamminga della Chambre civile. Il giudice relatore, prima dell’udienza, predispone un progetto di sentenza, mentre l’Avvocato generale può formulare conclusioni scritte; talvolta, il giorno prima dell’udienza, si svolge anche una pre-camera di consiglio nella quale si discute il progetto di sentenza. Dopo l’udienza, il progetto di sentenza è immediatamente approvato. Le sentenze della Corte, in genere, non accennano al fatto, ma sono concentrate esclusivamente sulle considerazioni in diritto, ed in esse non è consentito fare riferimento ai precedenti giudiziari. Esse sono pubblicate sia in francese, sia in fiammingo, e, siccome i due testi debbono essere perfettamente concordati, ciò induce a maggiore concisione nello sviluppo delle motivazioni.
Il lavoro dei consiglieri è agevolato dalla collaborazione dei referendari, che redigono progetti di sentenza e studi sugli argomenti oggetto di deliberazione.
La Cour de cassation è esclusivamente giudice di diritto: l’art. 147 della Costituzione, infatti, prevede che “C’è per tutto il Belgio una Corte di cassazione. Questa non conosce il merito degli affari”. Essa, inoltre, ha competenza sui conflitti di attribuzione, in forza di quanto stabilisce l’art. 158, che è l’altra disposizione che nella Costituzione belga si occupa della Corte.
2.3. Il Bundesgerichtshof tedesco.
Il Bundesgerichtshof (BGH) tratta circa 3.500 ricorsi l’anno, ma procede a vero e proprio giudizio in relazione a poco più di 1.000 procedimenti. Occorre infatti premettere che sono sottoposte a controllo (Revision) solo le decisioni in relazione alle quali le impugnazioni sono dichiarate ammissibili dal giudice che ha emesso il provvedimento, ovvero dalla Corte in sede di riesame sulle pronunzie di inammissibilità dei giudici a quo.
Precisamente, nel corso del 2011, le sopravvenienze nel merito per il Bundesgerichtshof sono state pari a 1.166 ricorsi, e in sede di reclamo sull’inammissibilità pari a 2.483 ricorsi; dei 1.166 ricorsi da trattare nel merito, 874 erano tali per dichiarazione di ammissibilità del giudici a quo, mentre 292 erano tali per dichiarazione di ammissibilità del BGH in sede di riesame sulle pronunzie di inammissibilità, quindi con una percentuale di accoglimento delle relative istanze pari all’11,8% di quelle proposte (2.483). Le decisioni sono state pari a 937 per i ricorsi che hanno dato luogo al giudizio di Revision e a 2.479 per i ricorsi contro le pronunzie di inammissibilità dell’impugnazione da parte dei giudici a quo. Un altro
importante filtro è determinato, anche in questo Paese, dalla necessità che il ricorso sia proposto da un avvocato abilitato al patrocinio davanti alle Corti supreme, poiché il numero di questi professionisti, selezionati attraverso un procedimento di designazione da parte dei vertici della magistratura e dell’avvocatura e la successiva nomina da parte del Ministro della giustizia, è pari a sole 39 unità.
Il Bundesgerichtshof ha un organico di 129 giudici, dei quali, nel 2011, 95 addetti alle sezioni civili. La composizione e le competenze delle Sezioni sono fissate nelle tabelle annuali decise da un collegio composto dal Presidente del BGH e da dieci giudici eletti tra i componenti della Corte. Attualmente, le sezioni civili sono dodici, suddivise con una marcata specializzazione per materia, e composte ciascuna da sei o sette componenti oltre che dal presidente. Ognuna di esse decide in formazione collegiale composta da cinque magistrati; tutte le udienze vengono presiedute dal Presidente o dal suo vice, ed è escluso che si possano formare contemporaneamente due distinti collegi. E’ quindi evidente, per l’altissima specializzazione, e per le modalità di composizione dei collegi, che è estremamente ridotto il rischio di decisioni divergenti. Sono ovviamente possibili i mutamenti di giurisprudenza ma essi conseguono ad un approfondito dibattito con sostanziale coinvolgimento di tutti i componenti della sezione.
I ricorsi, appena pervengono al BGH, sono esaminati preliminarmente da un gruppo di giudici assistenti (nel 2008 erano 47), normalmente distaccati dalle corti di appello.
Questi giudici assistenti, inoltre, redigono ipotesi di soluzioni motivate ed effettuano ricerche ed approfondimenti in relazione alle necessità delle sezioni cui sono assegnati.
Come si è anticipato, i ricorsi sono ammissibili solo se il giudice di appello abbia esplicitamente dichiarato in sentenza l’impugnabilità della stessa, oppure se il Bundesgerichtshof abbia accolto la richiesta di riesame contro la pronuncia di inammissibilità del giudice del merito. I presupposti di ammissibilità dell’impugnazione sono o la presenza di una questione di diritto di fondamentale rilevanza o la necessità della decisione del BGH per consentire l’evoluzione del diritto o per garantire l’uniformità della giurisprudenza: la prima ipotesi ricorre quando è necessario un chiarimento su una questione potenzialmente rilevante in un numero indeterminato di casi, la seconda quando occorre affermare un principio di diritto in tema di interpretazione di norme di legge suscettibili di generale applicazione, la terza, infine, quando si forma una divergenza di orientamento tra i giudici di merito e la Corte suprema. E’ peraltro possibile adire il Bundesgerichtshof nel caso di violazione di fondamentali principi di procedura, e precisamente quando la decisione sia basata su circostanze ed elementi di prova in ordine ai quali le parti non abbiano potuto prendere posizione, ovvero quando sia violato il diritto ad un processo leale e non arbitrario; anche in questi casi, tuttavia, pre-condizione per l’ammissibilità del ricorso è l’esistenza del rischio che lo stesso o altro giudice di merito ripeta lo stesso errore.
Le decisioni del BGH sulle pronunzie di inammissibilità debbono essere motivate solo in caso di rigetto e solo se la motivazione è idonea a contribuire a spiegare i presupposti giuridici in base ai quali la Revision è ammissibile. L’istanza di riesame della pronuncia di inammissibilità, fino al 2011, è stata subordinata ad un valore della causa superiore a 20.000 Euro.
Il giudizio di Revision inizia con una verifica di ammissibilità, che attiene al rispetto delle forme e dei termini e alla sussistenza dei presupposti di ammissibilità; nel caso che il ricorso sia ritenuto inammissibile, la decisione è adottata con un provvedimento sommariamente motivato. All’unanimità dei voti dei componenti del collegio, è possibile dichiarare l’inammissibilità anche di un ricorso dichiarato ammissibile dal giudice a quo. Se il ricorso è ritenuto ammissibile, si procede all’udienza pubblica. Oggetto del giudizio è il controllo della correttezza giuridica della decisione del giudice del merito; se il ricorso viene accolto, la sentenza impugnata viene cassata e la causa rimessa al giudice del merito, salvo che ricorra esclusivamente una violazione di diritto nell’applicazione della legge ad una fattispecie concreta già definita in fatto, poiché, in questo caso, il Bundesgerichtshof deve decidere la controversia.
2.4. Il Tribunal supremo spagnolo.
Il Tribunal Supremo tratta meno di 30.000 ricorsi l’anno. Precisamente, nel 2010, gli affari sopravvenuti sono stati 27.918 così suddivisi: 3.837 in materia civile, 5.333 in materia penale, 13.156 in tema di contenzioso amministrativo, 5.306 nel settore lavoro e 286 relativi alla giustizia militare. Le decisioni complessive sono state 30.173; tuttavia, solo circa un quarto delle decisioni assume la forma di sentenza. Nel settore civile, in particolare, nel 2011, gli affari definiti sono stati 4.839, dei quali 1.242 con sentenza, 3.427 con ordinanza e 170 con decreto del secretario judicial (quest’ultimo è competente in tema di liquidazione delle spese processuali). Risultano fondamentali il ruolo di filtro svolto dai motivi di ammissibilità del ricorso ed il lavoro della struttura di supporto, il Gabinete técnico, che, tra l’altro, esamina approfonditamente le questioni di ammissibilità.
Il Tribunal Supremo ha un organico composto di 74 magistrati, 5 presidenti ed il Primo Presidente, ai quali si aggiunge il Gabinete técnico, previsto in termini generici dalla legge, ma la cui struttura e le cui funzioni sono disciplinate in via amministrativa, e che risulta essere stato formato nel 2010 da un magistrato coordinatore, altri undici magistrati, ed oltre 75 letrados, ossia magistrati provenienti da uffici di merito o funzionari pubblici laureati in diritto, nonché più di cento funzionari. Il Tribunal Supremo è articolato in cinque Salas, una civile, una penale, una per il contenzioso amministrativo, una per gli affari sociali (lavoro e previdenza) ed una per la giustizia militare; sono tuttavia previsti al suo interno anche organi giurisdizionali speciali, a composizione particolare quali: la Sala di cui all’art. 61 della Ley orgánica del poder judicial, che decide i processi per la dichiarazione di illegalità dei partiti politici, quelli in tema di errore giudiziario e quelli relativi ai giudizi di responsabilità delle Alte cariche dello Stato, la Sala dei conflitti di competenza, che risolve i contrasti tra giudici dello stesso ordine, la Sala dei conflitti di giurisdizione, che risolve i contrasti tra giudici ordinari e giudici militari, e il Tribunale dei conflitti di giurisdizione, del quale fanno parte anche tre consiglieri di Stato, che risolve i contrasti tra un organo giudiziario e la pubblica amministrazione. Il Gabinete técnico si ripartisce in due aree, quella giurisdizionale, che affianca l’attività delle cinque Salas, e quella amministrativa, composta di soli funzionari, che si occupa delle attività di supporto (biblioteca, archivio, informatica, statistica, ecc.). Nella Corte, poi, opera una Sala de Gobierno, composta di soli magistrati del Tribunal Supremo, che svolge funzioni analoghe a quelle esercitate in Italia dal Consiglio direttivo presso la Corte di cassazione.
I procedimenti solo assai raramente, e su espressa richiesta di parte, sono trattati in udienza pubblica mentre la partecipazione del pubblico ministero, il Fiscal, è prevista solo incasi residuali. Gli affari sono assegnati al Pleno della Sala, ossia all’adunanza di tutti i suoi magistrati, su decisione del suo Presidente, di propria iniziativa, o su sollecitazione dei componenti della Sala.
I ricorsi debbono indicare i motivi e le norme che si assumono violate ed essere depositati presso il giudice a quo che procede ad una sommaria valutazione delle questioni di ammissibilità, e, in caso positivo, dispone con ordinanza la trasmissione degli atti al Tribunal Supremo. Gli atti così pervenuti alla Corte sono esaminati dal Gabinete técnico che valuta approfonditamente l’ammissibilità dei ricorsi e provvede a redigere i decreti e le ordinanze di inammissibilità, e le ordinanze di ammissibilità. Le ordinanze di ammissibilità, come quelle di inammissibilità redatte dai letrados sono esaminate prima dal magistrato coordinatore dell’unità del Gabinete addetto alla singola Sala e poi sottoposte ad un collegio di tre magistrati della Sala, che in genere si limita a sottoscrivere il provvedimento. Il Gabinete, poi, nei casi di ritenuta ammissibilità del ricorso, redige note informativo/riepilogative sul ricorso distribuite a tutti i componenti del collegio ed organizza il ruolo del Tribunal Supremo, fissando le udienze pubbliche e le camere di consiglio (tutte non partecipate), segnalando le questioni processuali che si pongono prima della fissazione. In tal modo ciascun magistrato della Sala, Presidente compreso, è relatore per meno di due ricorsi la settimana, e la sua produttività è in genere non superiore alle 80 sentenze annue; inoltre, di queste sentenze, la parte relativa allo svolgimento del processo ed ai motivi è già contenuta nelle note informativo/riepilogative dei letrados, ed il relatore redige la sola motivazione in diritto, e può avvalersi della collaborazione dei letrados anche per il completamento del dispositivo.
Due sono le tipologie di ricorsi ammissibili davanti al Tribunal Supremo in sede civile:
il recurso extraordinario por infracción procesal e il recurso de casación. Il primo è ammesso solo per violazione di norme processuali, ivi compreso il vizio di motivazione, e la violazione dei diritti fondamentali in materia di processo riconosciuti dall’art. 24 della Costituzione spagnola. La denuncia del vizio di motivazione, tuttavia, è poco frequente, sia perché essi possono essere denunciati solo dopo che ci si sia rivolti al giudice che ha emesso la sentenza per chiedere la correzione degli errori o l’integrazione della motivazione, sia perché la disciplina della struttura della motivazione del giudice di merito prevede che questi deve sì enumerare i fatti ritenuti come provati, ma non anche esporre analiticamente l’apprezzamento delle prove o il contenuto di queste, ragion per cui il vizio è riscontrabile solo se vengano dati per dimostrati fatti tra loro inconciliabili, oppure se il giudice abbia proceduto ad un clamoroso travisamento della prova. Il recurso de casación riguarda la violazione di norme di natura sostanziale ed è ammesso solo se ricorre una delle seguenti situazioni: 1) vi sia l’esigenza di tutelare uno dei diritti fondamentali diversi da quelli riconosciuti dall’art. 24 della Costituzione spagnola; 2) la causa abbia un valore non inferiore ad Euro 600.000,00, tenendo conto anche della riduzione della domanda operata nella decisione da impugnare (sono quindi escluse anche le cause di valore indeterminabile o indeterminato); 3) sussista un interés casacional, che è configurabile quando la sentenza impugnata si sia espressa di contrario avviso rispetto alla giurisprudenza del Tribunal Supremo, oppure allorché sulla questione decisa vi sia un contrasto giurisprudenziale tra i giudici di appello (Audiencias provinciales), oppure ancora se la decisione abbia applicato una
disposizione in vigore da non più di cinque anni, sulla quale non esista già un orientamento della Corte. Nel caso in cui sia dedotto un interés casacional è richiesta, come requisito formale di (ulteriore) ammissibilità, l’indicazione, nel ricorso, di due o più sentenze del Tribunal Supremo, o di una sentenza del Pleno della Sala, non smentite da successive pronunzie, ove si voglia dedurre il contrasto della decisione impugnata con la giurisprudenza di questo, ovvero, in assenza di decisioni della Corte suprema, di almeno due sentenze passate in giudicato di una stessa sezione di Audiencia Provincial che siano in contrasto con altre due sentenze passate in giudicato di altra sezione della stessa o di diversa Audiencia provincial; tuttavia, questo requisito formale non è necessario se il Tribunal Supremo ritiene di dover modificare la propria giurisprudenza, nel primo caso, o se ritenga notorio il contrasto tra Audiencias provinciales, nel secondo caso.
3. La situazione dell’organico dei magistrati e del personale amministrativo.
Continua ad essere estremamente negativa la situazione relativa alla copertura degli organici dei magistrati e del personale amministrativo.
Al 15 gennaio 2013 erano in servizio 46 presidenti di sezione sui 54 previsti dalla pianta organica con una scopertura del 12%, 226 consiglieri su 303, con una scopertura del 24% e 22 magistrati destinati al Massimario su 37 con una scopertura del 40%.
Quest’ultimo dato rappresenta una situazione intollerabile per il corretto funzionamento della Corte, non tanto per l’insostituibile e preziosissimo apporto che con le relazioni l’Ufficio del massimario fornisce all’elaborazione degli orientamenti giurisprudenziali, soprattutto delle sezioni unite nello svolgimento delle funzioni di composizione dei contrasti o di soluzione delle questioni di particolare importanza, ma per la rilevantissima sofferenza della funzione di massimazione delle decisioni, che costituisce o dovrebbe costituire, secondo le previsioni delle tabelle di composizione della Corte, la funzione primaria. Le massime, infatti, confluendo in ItalgiureWeb, rappresentano la memoria della Corte, l’unico strumento di conoscenza di una produzione giurisprudenziale elevatissima e quindi l’unico mezzo per prevenire il deleterio fenomeno dei contrasti inconsapevoli, dannoso per gli utenti ma anche per la credibilità della Cassazione.
Non meno grave è poi la scopertura dei consiglieri. La scopertura degli organici dell’intera magistratura al 31 dicembre 2012 era del 13,25%, risultante dalla media dei vari distretti. Ora, la scopertura della Corte, a parte quella di Bolzano (33,8%) e Caltanissetta (24,81%), cioè di piccoli distretti nei quali è sufficiente la destinazione di un ridotto numero di magistrati per riportare la scopertura alla media nazionale, è la più alta dell’intero territorio nazionale. Si avvicina solo la scopertura di Campobasso (21,21%), Potenza (20,72%) e Sassari (19,42%), anch’essi distretti di piccole dimensioni. Nei grandi distretti di Milano, Roma e Napoli, nei quali si concentra una rilevante quantità di contenzioso, la scopertura è, rispettivamente, del 12,8%, del 7,89% e dell’11,98%, sotto la media nazionale.
Non si individua quindi alcuna comprensibile ragione per la quale debba continuare a consentirsi la grave situazione di sofferenza della Corte, tenendo conto del fatto che le decisioni, che intervengono dopo giudizi di merito mediamente di durata eccessiva, sono attese dagli utenti per porre fine al contenzioso, e della circostanza che la posizioneistituzionale della Corte, posta al vertice del sistema delle impugnazioni e chiamata a svolgere funzioni di orientamento della giurisprudenza, imporrebbe di tutelarne la credibilità mettendola in grado di svolgere il suo compito in modo più tempestivo ed efficace. Basti pensare che sarebbe sufficiente portare la percentuale di scopertura almeno nei limiti della scopertura media nazionale del 13,25%, per ottenere un aumento di procedimenti definiti di oltre 8.000 unità, con inversione della curva di decremento delle definizioni e di aumento delle pendenze.
Non irrilevante sarebbe poi una decisione del CSM di procedere alla copertura dei posti pubblicati non solo in modo più celere ma anche distinguendo i posti da destinare al servizio civile da quelli per il servizio penale, perché in tal modo si potrebbero destinare non solo un numero adeguato di consiglieri, ma anche magistrati con preparazione ed esperienza maggiormente adatte alle funzioni svolte.
Quanto al personale amministrativo, occorre rilevare l’ulteriore aggravamento della scopertura dell’organico della Corte di cassazione, già segnalata nelle relazioni degli scorsi anni: su un organico previsto di 744 unità, risultano, infatti, fisicamente presenti soltanto 597 unità, con una conseguente scopertura del 19,7%, che determina non poche difficoltà nel funzionamento ordinario delle cancellerie e degli altri servizi della Corte. Tale carenza, particolarmente preoccupante in quanto incidente sulla funzionalità dell’organo di vertice del sistema giudiziario, che più di ogni altro ne rappresenta l’immagine anche agli occhi degli operatori di altri ordinamenti, costituisce, peraltro, soltanto un aspetto particolare del più generale fenomeno che interessa l’intero sistema giudiziario: dai dati forniti dal Ministero della giustizia, emerge infatti che, su un organico di 38.198 unità risultano vacanti 5.703 posti, con una conseguente scopertura del 14,9%. Ancor più gravi risultano le scoperture del personale Unep, che a fronte di un organico di 5.924 unità presenta vacanze per 1.207 unità, con una conseguente scopertura del 20,3%.
Alle difficoltà determinate dalla carenza di personale si aggiunge una situazione di grave insufficienza logistica, derivante dall’indisponibilità di locali in numero sufficiente a consentire l’assegnazione a ciascun magistrato, se non di una stanza, almeno di un tavolo da lavoro. Tali ristrettezze costringono i magistrati e il personale amministrativo a operare in condizioni al limite dell’agibilità, con inevitabile incidenza negativa sulle condizioni lavorative, contrastanti con la dignità di una Corte suprema, e sulla produttività del lavoro giudiziario. Perdura, in particolare, l’indisponibilità degli spazi già concessi al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma, e tuttora occupati nonostante l’avvenuto accertamento da parte del Consiglio di Stato della legittimità dell’iniziativa intrapresa dall’Agenzia del demanio per il recupero degli stessi (cfr. sent. n. 8620/2009). Alla soppressione dell’emendamento con cui, nell’ambito del disegno di legge di riforma della professione forense, si assicurava al Consiglio dell’ordine la permanenza nell’attuale sede, non hanno fatto ancora riscontro iniziative concrete volte al reperimento di una diversa allocazione, adeguata alle esigenze dell’occupante. Il problema è ulteriormente aggravato dalla frequentazione dell’Ufficio ad opera di giovani laureati, ammessi alla formazione professionale presso la Corte in virtù di apposite convenzioni stipulate con le Facoltà universitarie di giurisprudenza, con le Scuole di specializzazione per le professioni legali e
con i Consigli dell’ordine degli avvocati ai sensi dell’art. 37, comma 4, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni nella legge 15 luglio 2011, n. 211, non essendo la Corte in grado di offrire a tali collaboratori spazi e locali idonei per lo svolgimento della loro attività.


4. La Cassazione penale.
4.1. Analisi generale dei dati statistici.
Nella relazione del gennaio scorso avevamo definito “quasi un miracolo” il risultato complessivamente raggiunto dalla Cassazione penale, in relazione alla gravi carenze di organico, e avevamo evidenziato l’impossibilità di richiedere ai magistrati addetti al settore penale di accrescere ulteriormente il loro impegno.
Ebbene, nell’anno che abbiano alle spalle, con un numero di consiglieri sostanzialmente equivalente a quello dello scorso anno, il numero dei procedimenti penali definiti ha superato la soglia dei 50.000 procedimenti: esattamente 51.614 rispetto ai 49.952 dell’anno precedente (+3,3%).
L’indice di produttività si attesta quest’anno a 491 procedimenti definiti da ciascun consigliere ed è rimasto, quindi, sostanzialmente invariato rispetto all’anno precedente.
Si tratta di un dato rilevante ove si consideri che gli ultimi due anni è stato superato il tetto dei 490 ricorsi definiti da ciascun consigliere, laddove nel 2001 ne risultavano definiti 382 a testa.
Ciò testimonia visibilmente lo straordinario senso della responsabilità e del dovere di quanti (magistrati e personale amministrativo) operano nel settore penale, pur gravato da un inarrestabile flusso di procedimenti sopravvenuti, che ha raggiunto il tetto di 52.342, a fronte dei 50.922 procedimenti iscritti nel 2011 (+2,8%).
Sostanzialmente inalterati, ed eccezionalmente brevi rispetto ad altre realtà giudiziarie, rimangono i tempi medi di definizione dei ricorsi: 7,2 mesi quest’anno, a fronte dei 7,1 mesi dell’anno precedente. Più del 98% delle definizioni riguarda i procedimenti iscritti tra il 2011 e il 2012 (il 55,7% nel 2011 e il 42,6% nel 2012).
Nonostante si continui a registrare una notevole produttività dei magistrati, la pendenza rilevata per il 2012 sale del 2,4% rispetto a quella del 2011, così da arrivare a 31.289 procedimenti pendenti al 31/12/2012. E ciò per effetto del notevole aumento delle sopravvenienze, che ha raggiunto limiti assolutamente incomparabili con quelli della Corti di legittimità di Paesi a noi vicini, come già analiticamente avevano evidenziato negli anni precedenti e per le perduranti carenze dell’organico di magistrati e personale amministrativo.
L’analisi degli esiti dei procedimenti definiti mostra che, rispetto all’anno precedente, il numero delle sentenze di annullamento con rinvio è salito da 4.620 a 4.716 (+2,1%), mentre è calato considerevolmente quello degli annullamenti senza rinvio: da 4.686 a 4.074 (-13,1%).
In aumento del 7,7% risulta il numero delle prescrizioni dichiarate (435) rispetto a quelle dello scorso anno (404).
Il dato che maggiormente colpisce, confermando un trend decennale, è l’enorme quantità delle pronunzie d’inammissibilità dei ricorsi: il 65,2%, con un aumento del 3,5% rispetto al 62% del 2011. Ovviamente la stragrande maggioranza di tali definizioni (il 67,1%) viene realizzato dalla Settima sezione penale a cui sono per legge destinati i ricorsi per i quali si rilevi una causa d’inammissibilità.
4.2. La Settima sezione.
La Settima sezione penale è stata istituita in attuazione dell’art. 610, comma 1, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 6 della l. 6 marzo 2001, n. 128, secondocui “Il Presidente della Corte di cassazione, se rileva una causa di inammissibilità dei ricorsi, li assegna ad apposita sezione”.
A tal fine il Primo Presidente si avvale di un magistrato coordinatore e di consiglieri espressamente delegati che, nell’ufficio di esame preliminare dei ricorsi (cd. “ufficio spoglio”), costituito in ciascuna delle sei sezioni penali, provvedono all’assegnazione dei ricorsi alla Settima sezione penale.
Il circuito uffici spoglio/Settima sezione funziona in concreto da filtro per intercettare e definire con procedura più semplificata i ricorsi inammissibili.
Nell’anno appena concluso, sono stati destinati alla Settima sezione 22.877, pari al 43,7% del totale della sopravvenienza. Ne sono stati definiti 22.534, pari al 44,1% del totale complessivo delle definizioni.
La Corte non ha lesinato gli sforzi organizzativi necessari per assicurare il miglior funzionamento di tale sistema di filtro, che consente alle sei sezioni ordinarie di concentrarsi sulla trattazione dei procedimenti validamente istaurati.
Una particolare attenzione è stata prestata al lavoro dei magistrati addetti agli uffici dell’esame preliminare dei ricorsi, curando riunioni periodiche, volte alla discussione e alla soluzione delle questioni comuni e alla migliore efficienza del circuito destinato alla Settima sezione, con affidamento al magistrato coordinatore degli “uffici-spoglio” dell’incarico di redigere un testo unificato contenente tutte le disposizioni riguardanti la funzionalità ed i criteri operativi di questo delicato settore, recepito da ultimo anche nelle proposte di variazione tabellare in corso di esame da parte del Consiglio direttivo.
Parallelamente sono state avviate, d’intesa con il Presidente coordinatore della Settima sezione, tutte le iniziative necessarie a favorire la produttività di quest’ultima,escludendo competenze che comportano indebito allungamento dei tempi di definizione dei ricorsi.
Il tempo medio di definizione dei procedimenti della Settima sezione è, infatti, già salito dai 6,6 mesi del 2010 ai 7,5 del 2011, fino a giungere agli attuali 7,6.
Pur restando ben al di sotto dei parametri di Strasburgo, l’aumento progressivo dei tempi segnala una tendenza su cui riflettere. Vi è il rischio concreto, perdurando l’attuale tendenza di sopravvenienza, che possa rimanere frustrata l’obiettivo stesso della legge n. 128 del 2001, volta a liberare immediatamente la struttura della Corte da ricorsi “ricorsi senza speranza”.
Con l’istituzione del filtro per i ricorsi inammissibili e con la contestuale previsione di una sezione autonoma per la definizione di essi, infatti, si è inteso anche assicurare l’effettività della funzione nomofilattica della Cassazione, alleggerendo le sezioni ordinarie dalla trattazione di ricorsi inidonei persino ad istaurare un valido rapporto processuale.
Il ruolo deflativo della Settima sezione rischia tuttavia di essere seriamente compromesso per la quantità dei ricorsi privi di seria valenza d’impugnazione, la quale nella sua dimensione costituisce un’evidente patologia, che certamente non trova riscontri nelle esperienze delle Corti dei Paesi a noi vicini.
Com’è stato evidenziato nel corso di un recente convegno svoltosi in questo Palazzo di giustizia, esaminando proprio il regime delle inammissibilità ed il ruolo della Settima sezione anche alla luce della concreta esperienza maturata, il sistema non sembra aver
prodotto alcun effetto deflativo sul numero dei ricorsi in entrata né alcun effetto deterrente per i legittimati al ricorso.
Permane la tendenza a ritardare la formazione del giudicato con tutti i mezzi disponibili, compreso il ricorso inammissibile. Ciò che crea un effetto di intasamento, soprattutto delle strutture di cancelleria, che sono impegnate nel trattamento di decine di migliaia di procedimenti avviati per procrastinare di qualche mese l’esecutività della sentenza di condanna, con inutile spreco di energie umane e materiali, che più utilmente potrebbero essere impiegate nella definizione dei procedimenti validamente istaurati.
In ogni caso, va apprezzata positivamente sia l’esistenza della Settima sezione penale sia lo straordinario impegno dei magistrati che vi operano, il cui gravoso lavoro consente ai consiglieri delle sezioni ordinarie di concentrarsi su ricorsi validamente istaurati, come emerge chiaramente dalla quantità inversamente proporzionale tra numero di ricorsi assegnati per udienza al singolo consigliere delle sei sezioni ordinarie e la percentuale di ricorsi dai rispettivi uffici spoglio assegnati alla Settima sezione penale.
Merita segnalare che, per quanto in lieve flessione, non è irrilevante il numero di ricorsi (720, pari al 3,1%) restituiti dalla Settima alle sezioni ordinarie, a riprova della seria verifica effettuata dai collegi sulle assegnazioni da parte degli uffici spoglio.
Altro indice del massiccio uso dilatorio dell’impugnazione è dato dalla perdurante tendenza al ricorso per cassazione anche avverso le sentenze di patteggiamento (17% dei procedimenti), di cui un’altissima percentuale (85%) risulta inammissibile, non diversamente dalla gran parte dei ricorsi personalmente sottoscritti dai ricorrenti.
Su queste tematiche, già affrontate nelle relazioni degli ultimi due anni, ci si è soffermati nel cap. V, §§ 3.8 e 3.9.
4.3. Indici territoriali di provenienza geografica dei ricorsi.
Può essere utile segnalare, anche al fine di favorire più approfondite analisi criminologiche, che si è proceduto a rilevare il flusso dei ricorsi per cassazione anche per provenienza geografica e per ogni centomila residenti sul territorio.
L’utilizzo dell’indice di ricorso calcolato come ‘iscritti in Corte/popolazione residente’, consente di depurare l’analisi della sopravvenienza per area geografica dall’effetto dell’ammontare della popolazione.
Dalla Sicilia e dalla Sardegna, infatti, proviene il 16,1% dei ricorsi (anno 2011); se però si rapporta il numero dei ricorsi iscritti alla popolazione residente, si osserva che le due isole registrano i valori indici di ricorso più elevati (nel 2011, 119 ricorsi iscritti ogni 100.000 abitanti), insieme al Sud (116,8) e pari a circa il doppio di quelli registrati a Nord Est e a Nord Ovest. La serie storica degli indici di ricorso registra, per tutte le aree, un picco nel 2006, una tendenza alla diminuzione nei due–tre anni successivi, e un nuovo consistente aumento nel periodo 2010-2011.
Gli indici di ricorso per singola regione aumentano in generale procedendo da Nord verso Sud, con l’eccezione della Liguria, con il quarto indice in graduatoria (123,3). Le regioni con indice più elevato sono Calabria e Sicilia (140,9 e 137,2); da rilevare il posizionamento dell’Abruzzo, che dal sesto posto nel 2010, passa al terzo nel 2011.
Analizzando gli indici per distretto di corti d’appello si osservano ulteriori differenze: Reggio Calabria ha un indice pari a oltre il doppio di Catanzaro (236,9 vs 103,3) ed è quindi il distretto che determina il primo posto della Calabria nella graduatoria delle regioni. Parimenti disomogenei i risultati dei distretti campani, con una forte predominanza di Napoli rispetto a Salerno (124,7 vs 85,8).
Dettagliando gli indici di ricorso per grandi voci di reato (considerando solo le voci più frequenti nella distribuzione percentuale dei ricorsi iscritti), si osserva come Reggio Calabria registri un valore molto elevato per “delitti di associazione a delinquere” (67,7, a fronte del 3,3 nazionale e 44,00 dell’anno precedente).
Va segnalato che L’Aquila è il distretto che presenta gli indicatori più elevati rispetto alla media nazionale. Tra i distretti del Centro-Nord, rilevanti i valori registrati da Genova, in particolare per ‘stupefacenti’ (23,7 rispetto a 12,5 del totale Italia), ‘furti’ (12,0 rispetto a 5,6) e ‘delitti contro il patrimonio diversi dai furti’ (22,0 rispetto a 13,4).
4.4. Procedimenti definiti per tipologia dei reati.
Dall’analisi dei dati della Corte emerge che più del 60% dei procedimenti definiti riguarda un numero ristretto di reati e, cioè, i reati contro il patrimonio ed in materia di stupefacenti; quelli contro l’amministrazione della giustizia e contro la pubblica amministrazione; i reati associativi anche di stampo mafioso, quelli in materia di circolazione stradale e contro la fede pubblica.
Nell’elencazione si possono ricomprendere i delitti di furto riscontrati per il 2012 nel numero di 3.708 procedimenti (7,2% del totale), in crescita del 18,1% rispetto al 2011. I delitti contro il patrimonio diversi dai furti fanno registrare, invece, una diminuzione del 7,0% nel 2012 avendo raggiunto il numero di 8.148 (15,8% del totale).
Nel 2012 i procedimenti per reati in materia di sostanze stupefacenti sono stati 7.320 (14,2% del totale) con una variazione dello 0,2% rispetto all’anno precedente.
Si registra un aumento del 18,8% dei delitti contro la pubblica amministrazione ammontanti complessivamente a 2.486 (4,8% del totale) e del 25,2% dei delitti contro l’amministrazione della giustizia che nel 2012 hanno raggiunto il numero di 2.558 procedimenti (5,0% del totale).
In crescita dell’11,1% il dato relativo ai delitti di associazione a delinquere ordinaria e di tipo mafioso riscontrati in numero di 1.978 ricorsi (3,8% del totale).
Anche il dato concernente i reati connessi alla circolazione stradale è in ascesa del 24,8% avendo raggiunto il numero di 1747 procedimenti.
Ugualmente in crescita è il dato relativo ai reati contro la fede pubblica ammontante a 1.236 ricorsi, con una crescita del 14,2% rispetto all’anno precedente.
Diminuiscono, invece, i procedimenti per il reato di omicidio colposo di circa 9,8% avendo raggiunto il numero di 1.047 unità.
Per quanto concerne l’esito di tali ricorsi si conferma elevato il numero delle inammissibilità dei ricorsi per i reati di furto e per quelli contro l’amministrazione della giustizia (86,0%), rispettivamente in aumento rispetto al 2011 del 28,7% e del 30,4%.
Per i procedimenti relativi ai delitti contro il patrimonio diversi dai furti, la percentuale di inammissibilità è del 73,5%, con un calo di 9,1 punti percentuali rispetto al 2011.
Molto elevata è anche la percentuale delle inammissibilità per i reati concernenti gli stupefacenti (80,0%) così come quella dei delitti contro la pubblica amministrazione (73,9%), in aumento rispetto all’anno precedente.
Per ciò che riguarda i delitti di associazione per delinquere ordinaria e di tipo mafioso, la tipologia di esito prevalente è quella del rigetto (40,9%). Seguono la declaratoria di inammissibilità (36,3%), di annullamento con rinvio (19,6%) e senza rinvio (2,6%).
4.5. Valutazioni e prospettive di riforma.
Gli oltre 52.000 ricorsi in materia penale pervenuti nel 2012, a fronte di un organico di magistrati non mutato, e comunque non espandibile a pena di perdita di qualità della funzione di legittimità, rappresentano drammaticamente la realtà di una Corte di cassazione che corre il concreto rischio di essere ridotta a una macchina di produzione di sentenze, che mortifica e svilisce la sua funzione di nomofilachia.
Questa triste prospettiva può dirsi un dato acquisito e condiviso da ogni obiettivo osservatore: come si è già in precedenza notato, l’ultimo convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, tenutosi presso l’Aula Magna della Corte di cassazione, nei giorni 27-29 settembre 2012, aveva ad oggetto il ben indicativo tema “La Corte assediata. Per una ragionevole deflazione dei giudizi penali di legittimità”.
Nonostante l’enorme carico giudiziario, i consiglieri del settore penale sono riusciti a mantenere nella produzione giurisprudenziale, con una dedizione e uno spirito di servizio di cui è doveroso dare atto, uno standard qualitativo mediamente di ottimo livello. Nella espressione più alta della Corte, poi, le Sezioni unite penali hanno nell’anno trascorso continuato a porsi, con inalterato prestigio, a punto di riferimento ineludibile della esperienza giudiziaria di settore, giungendo talvolta, come è stato già ricordato (v. Cap. II), a proiettare le proprie decisioni nella prospettiva della affermazione di valori che sono espressione di ordinamenti multilivello, nella interazione tra principi costituzionali e sovrannazionali.
E’ tuttavia necessario che si ponga mano a urgenti riforme che recuperino alla Corte di cassazione penale il ruolo suo proprio, che, forse è banale dirlo, non è solo lo svolgimento di una funzione di giustizia ma soprattutto l’enunciazione dei principi di diritto che devono orientare i giudici di merito e ogni operatore nell’interpretazione e applicazione delle regole poste dal legislatore nel settore penale sostanziale e processuale.
L’abnorme numero degli avvocati cassazionisti non potrà essere ridotto se non in tempi lunghi. Al riguardo, la nuova disciplina recentemente approvata
140 prevede per laiscrivibilità all’albo speciale, oltre al requisito della anzianità, quello dell’attestato di lodevole e proficua frequentazione della Scuola superiore dell’avvocatura, subordinato alla valutazione di una commissione, che si spera attenta e giustamente rigorosa.
Nessuna iniziativa è stata avviata per vietare il ricorso personale dell’imputato né per introdurre procedure de plano in caso di ricorsi caratterizzati da cause di inammissibilità formali.
Nessun aumento è stato apportato alle sanzioni pecuniarie in caso di ricorso inammissibile, pur essendo i livelli fermi a quelli stabiliti un quarto di secolo fa. E considerando che ben il 17,4% dei ricorsi riguardano sentenze di patteggiamento, se non si vuole, come ben sarebbe ragionevole, introdurre una deroga all’ammissibilità del ricorso per cassazione contro simili sentenze, modificando opportunamente il settimo comma dell’art. 111 Cost., o comunque limitare la ricorribilità a ben identificabili tipologie di vizi, basterebbe quantomeno inasprire sensibilmente il livello della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 616 cod. proc. pen., aggiornandolo a quello dei prezzi correnti, per produrre un sensibile disincentivo alla proposizione di ricorsi manifestamente infondati o per altro verso inammissibili, che, seppure di facile trattazione, rappresentano, per il loro numero e per il conseguente impegno di risorse umane e materiali, un rilevante costo per lo Stato e un distoglimento delle forze operanti nella Corte di cassazione penale dagli affari che meritano effettivamente un attento esame.
5. La Cassazione civile.
5.1. I dati statistici.
I dati statistici relativi al settore civile evidenziano che l'anno appena trascorso è stato contrassegnato soprattutto dal decollo dell'attività della Sesta sezione, alla quale è affidato l'esame preliminare dei ricorsi, ai sensi dell'art. 376 cod. proc. civ., come sostituito dall'art. 46, comma 1, lett. b), della legge 18 giugno 2009, n. 69, applicabile alle impugnazioni aventi ad oggetto provvedimenti pubblicati a far data dal 4 luglio 2009. Il numero dei provvedimenti pubblicati presso tale Sezione è, infatti, praticamente raddoppiato, passando dai 4.354 dell'anno 2011 agli 8.546 dell'anno 2012, e l'incidenza della sua attività su quella complessiva della Corte in materia civile si è accresciuta in misura anche superiore, passando dal 14,1% al 35,8%. Il «filtro» introdotto dall'art. 46 cit. pare, pertnto, avviato ad assorbire una parte notevole degli affari pervenuti alla Corte, in talmodo assolvendo la funzione, ad esso assegnata dal legislatore, di consentire una rapida definizione dei ricorsi che non coinvolgono l'esercizio della funzione nomofilattica:
significativa, in proposito, appare la circostanza che i migliori risultati in termini di incremento della produttività siano stati fatti registrare dalla Sottosezione lavoro (80,1%) e da quella tributaria (1.340%), le cui competenze sono notoriamente caratterizzate da una rilevante incidenza di controversie seriali, nonché dalla Prima sottosezione (82,6%), alla
quale sono stati finora assegnati, tra l'altro, i ricorsi in materia di equa riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, anch'essi comprensivi di una notevole quota di contenzioso seriale.
I positivi risultati conseguiti nell'attività di spoglio dei ricorsi non hanno purtroppo impedito il verificarsi di una consistente riduzione nel numero complessivo dei procedimenti definiti, passati dai 32.949 dell'anno 2011 ai 25.012 del 2012, con una conseguente contrazione del 24,1%; tale decremento è stato compensato soltanto in parte dalla riduzione (5,7%) fatta registrare dal numero dei procedimenti sopravvenuti (passati dai 30.889 del 2011 ai 29.128 del 2012), e si è pertanto tradotto in un incremento del numero dei procedimenti pendenti, passati dai 95.593 in corso al 31 dicembre 2011 ai 99.792 in corso al 31 dicembre 2012 (con un conseguente aumento del 4,4%). Ulteriore conseguenza dei dati relativi alle sopravvenienze ed alle definizioni è la diminuzione dell'indice di ricambio dei sopravvenuti, passato dal 106,7% del 2011 all'85,9 del 2012.
Rispetto al 2011, si è inoltre verificata una lieve riduzione del numero medio di consiglieri presenti in udienza, passato da 126,5 a 124,6, alla quale ha fatto peraltro riscontro un più consistente decremento del numero dei ricorsi trattati in udienza da ciascun consigliere (produttività), ridottosi dai 262 del 2011 ai 229 del 2012, con una conseguente diminuzione del 12,6%: in termini più chiari, ciascun consigliere, nel corso delle udienze tenutesi nell'anno trascorso, ha trattato in media 33 ricorsi in meno dell'anno
precedente.
Il fenomeno in esame non è spiegabile unicamente con l'eccezionalità del risultato conseguito nell'anno 2011, quando, in attuazione del programma di gestione dei procedimenti civili predisposto ai sensi dell'art. 37 del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, questa Corte pose in essere
uno sforzo straordinario, pervenendo alla definizione di un numero di procedimenti inferiore soltanto a quello fatto registrare nell'anno 2008 (33.928), che rappresenta il risultato migliore mai realizzato.
L'analisi della serie storica mensile dei procedimenti definiti, evidenziando che un vistoso calo di produttività della Corte si è verificato nei primi quattro mesi dell'anno, consente di ravvisare una delle cause nella vicenda normativa inerente all'art. 26 della legge 12 novembre 2011, n. 183, che subordinava la trattazione dei ricorsi aventi ad oggetto sentenze pubblicate in data anteriore all'entrata in vigore della legge n. 69 del 2009 alla presentazione di un'istanza di trattazione, ponendo a carico della cancelleria l'obbligo di dare avviso alle parti di tale onere, imposto a pena di estinzione del procedimento. Tale disposizione, dapprima modificata dall'art. 14 del decreto legge 22 dicembre 2011, n. 212 e poi abrogata dalla legge di conversione 17 febbraio 2012, n. 10, ha imposto di fatto una sospensione nella trattazione dei predetti ricorsi, impedendo la fissazione delle relative udienze di discussione e rendendo necessario il rinvio a nuovo ruolo nel caso in cui l'udienza fosse già stata fissata. Essa ha inoltre gravato le cancellerie degli adempimenti connessi al prescritto avviso, in tal modo incidendo negativamente anche sulla fissazione delle udienze per la discussione dei ricorsi che, in quanto aventi ad oggetto sentenze pubblicate in data successiva a quella indicata, avrebbero potuto essere trattati.
Un'ulteriore causa dell'indicata riduzione di produttività potrebbe essere individuata, paradossalmente, nei positivi risultati conseguiti attraverso l'esame preliminare dei ricorsi da
parte dapprima della Struttura centralizzata e poi della Sesta sezione: tale attività, avendo consentito negli scorsi anni di definire più rapidamente i ricorsi inammissibili o quelli manifestamente fondati o infondati, ha lasciato dietro di sé un residuo di procedimenti più complessi o comunque di meno agevole definizione, il cui esame, richiedendo un maggiore impegno, ha impedito alla Corte di eguagliare gli eccellenti risultati quantitativi degli scorsi anni. Significativa, in proposito, è la circostanza, emergente dall'esame della statistica relativa ai procedimenti definiti classificati per anno di iscrizione, che l'attività delle Sezioni ordinarie nell'anno appena trascorso abbia riguardato per lo più ricorsi depositati negli anni compresi tra il 2006 ed il 2009, ovverosia nel periodo in cui ha operato la Struttura centralizzata.
La serie storica dei procedimenti sopravvenuti classificati per materia evidenzia infine un vistoso calo del numero delle sopravvenienze in settori caratterizzati da un contenzioso per lo più seriale e di rapida definizione: nell'anno appena trascorso, sono stati infatti depositati 4.532 ricorsi in materia di lavoro e 1.764 in materia di previdenza, laddove nell'anno precedente ne erano stati depositati rispettivamente 5.695 e 2.749, con una conseguente riduzione rispettivamente del 20,4% e del 35,8%; a loro volta, i ricorsi in materia di equa riparazione, già ridottisi del 37,4% nel 2011 (da 2.703 a 1.691), hanno subìto un ulteriore decremento dello 0,9%, passando da 1.691 a 1.676. Significativa è anche la circostanza che tra le materie in cui più numerosi sono i procedimenti sopravvenuti non
figuri più quella delle sanzioni amministrative diverse da quelle in materia di lavoro, previdenza, finanza e tributi, che in passato rappresentava una quota del contenzioso complessivo superiore al 5%, ed ora si è ridotta a non più di 392 ricorsi (pari all'1,3%). Tale contrazione delle sopravvenienze, dovuta a modificazioni normative (ad esempio, l'introduzione dell'obbligo di corrispondere il contributo unificato) o all'intervenuta stabilizzazione degli orientamenti giurisprudenziali, costituisce indubbiamente un fenomeno positivamente apprezzabile, ma è destinata inevitabilmente a ripercuotersi anche sulla produttività della Corte, imponendole un maggiore impegno per la decisione di un minor numero di ricorsi.
Al di là di tali considerazioni, resta il fatto che un numero di ricorsi superiore a 25.000 decisi in un solo anno rappresenta indubbiamente un'anomalia, non trovandoriscontro presso nessun'altra Corte suprema e non apparendo compatibile con un corretto esercizio della funzione nomofilattica assegnata alla Corte di cassazione. In mancanza di adeguati rimedi, ipotizzabili soltanto in sede legislativa, l'impossibilità di reiterare all'infinito
gli sforzi effettuati negli ultimi anni comporterà necessariamente un aumento dei procedimenti pendenti, il cui numero si è attestato complessivamente in 99.792 nell'anno trascorso. Tale consistente arretrato, incrementatosi a dispetto degli aumenti di produttività registratisi negli ultimi anni, fa apparire giustificato il senso di scoramento prodottosi in
non pochi consiglieri addetti al Settore civile, i quali avvertono la sostanziale inutilità dell'impegno profuso in un'opera che, nonostante i risultati ottenuti, sembra non apportare alcun beneficio alla situazione complessiva della Corte.
L'entità degli sforzi compiuti è agevolmente desumibile, oltre che dai risultati conseguiti dalla Sesta sezione, dall'analisi della tipologia dei provvedimenti pubblicati da tutte le sezioni della Corte, da cui si evince che sono state pronunciate 15.906 sentenze (il 64% del totale dei provvedimenti), 7.399 ordinanze (30% del totale) e 1.707 decreti (7%).
Le definizioni hanno riguardato soprattutto procedimenti iscritti negli anni 2009 (2.651 ricorsi, pari al 10,6% del totale), 2010 (8.351 ricorsi, pari al 33,4%) e 2011 (5.869 ricorsi, pari al 23,5%), nonché, in misura inferiore, ricorsi iscritti negli anni 2006 (2.135 ricorsi, pari all'8,5%), 2007 (3.014 ricorsi, pari al 12,1%) e 2008 (2.165 ricorsi, pari all'8,7%). Soltanto una quota complessivamente pari al 39% di tali ricorsi risulta accolta, con rinvio (21%), senza rinvio (2%) o con decisione nel merito (15%), mentre il 61% è stato rigettato (40%), dichiarato inammissibile (12%), improcedibile (1%) o estinto (2%), a conferma di un'eccessiva utilizzazione dello strumento processuale in questione, con conseguente ingiustificato differimento della definizione dell'intero giudizio.
La costante attenzione della Corte verso la durata complessiva della vicenda processuale è peraltro testimoniata non solo dalla riduzione della durata media del giudizio di cassazione, ma anche dall'incremento dell'incidenza percentuale delle pronunzie di accoglimento con decisione nel merito. La durata media è, infatti, passata dai 36,7 mesi del 2011 ai 34,1 mesi del 2012 (il valore più basso dal 2006), con un picco positivo di 19,9 mesi per i ricorsi in materia di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo e un picco negativo di 49,7 mesi per i ricorsi in materia di diritti reali. Le pronunzie di accoglimento con decisione nel merito sono invece passate dal 12% del 2011 al 15% del 2012, dato, quest'ultimo, che evidenzia efficacemente lo sforzo compiuto perevitare, ove possibile, l'ulteriore dilatazione dei tempi processuali connessa allo svolgimento del giudizio di rinvio, anche a costo di una pronuncia che richiede al collegio un maggiore
impegno decisionale.
Come di consueto, il maggior numero di decisioni ha riguardato la materia tributaria (5.966 provvedimenti, pari al 23,9% del totale) e quella del lavoro (4.503 provvedimenti, pari al 18%) e della previdenza (1.757 provvedimenti, pari al 7%), nonché quella dell'equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo (2.043 provvedimenti, pari all'8,2%); elevata è risultata anche l'incidenza delle decisioni pronunciate in materia contrattuale (2.526 provvedimenti, pari al 10,1%), mentre inferiore è risultata quella delle decisioni in materia di responsabilità civile (1.211 provvedimenti, pari al 4,8%) e in materia fallimentare (960 provvedimenti, pari al 3,8%).
5.2. L’arretrato.
Il problema dell’arretrato dei procedimenti civili ha carattere generale e rappresenta un grave ostacolo per il raggiungimento di risultati positivi per qualsiasi intervento riformatore. Questo rilievo riguarda ovviamente anche la Corte di cassazione.
Se è vero che non tutti i ricorsi pendenti sono “arretrati”, ma che, convenzionalmente, possono ritenersi tali quelli pendenti da oltre due anni, è evidente tuttavia che l’arretrato è direttamente proporzionale alla pendenza. Ora, se si guarda alla serie storica del numero dal 1993, in cui si registrano 35.107 ricorsi pendenti, al 31 dicembre 2012 con una pendenza di 99.792 ricorsi pendenti, si deve prendere atto del progressivo e costante aumento, salvo le leggere flessioni verificatesi nel 2008, nel 2009 e nel 2011 (rispettivamente del 3,4%, del 2,9% e del 2,1%).
Come è stato evidenziato nelle precedenti relazioni per gli anni 2010 e 2011, si è tentato di trovare soluzione al problema attraverso l’adozione di misure organizzative necessariamnte flessibili per consentirne l’adattamento alla situazione dell’organico e alla particolare tipologia dell’arretrato di ogni sezione. Il primo intervento è rappresentato dalla previsione di collegi che si dedichino in via esclusiva alla trattazione dei ricorsi di più risalente iscrizione. Inoltre sono state individuate due possibili modalità operative (non necessariamente alternative tra loro, ma utilizzabili all’occorrenza anche congiuntamente all’interno di ciascun collegio secondo le esigenze dei casi concreti): una incentrata sulla istituzione del ruolo del giudice (nel senso che a ciascun consigliere componente dei collegi destinati alla trattazione dell’arretrato avrebbe potuto essere assegnato un certo numero di procedimenti, affidati alla sua responsabilità per quanto riguarda l’esame preliminare e la successiva destinazione a trattazione secondo il rito della camera di consiglio, in caso di inammissibilità o di manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso, o in pubblica udienza secondo scadenze temporali dallo stesso relatore stabilite all’interno dei predeterminati calendari di udienza), e l’altra affidata al ruolo del collegio, nel senso che l’assegnazione dei
fascicoli ai relatori e la fissazione dei ruoli di udienza sarebbero state stabilite dal presidente del collegio secondo i consueti e tradizionali criteri. Lo “spoglio” dei fascicoli avrebbe dovuto essere effettuato quanto più possibile secondo modalità diacroniche su tutti gli anni di arretrato, per poter più agevolmente e in maggior numero intercettare questioni seriali o fattispecie analoghe.
Tali misure, oltre a quelle adottate in precedenza, nonostante il sensibile aumento di produttività dell'ufficio che si è avuto negli anni recenti, non hanno dato risultati apprezzabili, se si tiene presente che nel 2011, a fronte della consistente diminuzione dei ricorsi pendenti ne rimanevano comunque 95.593, numero talmente elevato da far ritenere non raggiungibile in tempi brevi e neppure medi l’obiettivo della riduzione dell’arretrato a un’entità ragionevole.
Se non dovrà certo cessare la ricerca di sempre più nuove ed efficaci soluzioni organizzative, specialmente per quanto riguarda la selezione dei ricorsi ai fini della formazione dei ruoli, la conclusione alla quale deve pervenirsi è che solo interventi esterni, prevalentemente di natura legislativa, possono avviare a soluzione il problema in tempi accettabili. Si dovrà quindi agire per assecondare la tendenza in atto alla riduzione della domanda specifica, cioè del numero dei ricorsi, sempre ovviamente nel rispetto del diritto di azione e di difesa garantiti dall’art. 6 Cedu e 24 Cost. La strada maestra, come da tempo da molte parti si è auspicato143
, sarebbe quello della decostituzionalizzazione del diritto al ricorso per cassazione, con affidamento al legislatore ordinario dell’individuazione dei casi in cui si può proporre questo particolare tipo di impugnazione. Di pari passo dovrebbe essere avviato un più rigoroso processo di formazione e selezione dei difensori abilitati al patrocinio davanti alla Corte, al cui esito si dovrebbe pervenire a una sostanziosa riduzione del numero.
Sul piano invece dell’aumento della capacità di risposta si dovrebbe pensare a una soluzione, certamente transitoria, almeno nel suo primo impianto, che preveda la destinazione di particolari figure professionali esclusivamente alla trattazione dei ricorsi
arretrati. Trattandosi di affrontare in tempi brevi, ma in modo puntuale e con modalità degne di una corte di ultima istanza, questioni spesso complesse, si dovrebbe richiedere un’adeguata esperienza del giudizio di cassazione e quindi si potrebbe pensare a utilizzare, in numero congruo rispetto all’entità dell’arretrato, magistrati cessati dal servizio, avvocati o professori universitari, che abbiano concretamente e positivamente svolto le loro funzioni presso la Corte, in modo da potere dare immediatamente il loro contributo.
5.3. La recente modifica dei motivi deducibili con il ricorso per cassazione.
Il decreto legge n. 83/2012, convertito dalla legge n. 147/2012, oltre ad introdurre il c.d filtro in appello (v. cap. VI, par. 52), è intervenuto anche sul giudizio di cassazione.
In primo luogo è modificato il testo dell’art. 360, 1° comma n. 5 passando
dall’attuale formulazione “per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio.”, introdotta con la legge 14
luglio 1950 n. 581, a quella, sostanzialmente identica alla formulazione del codice del 1942, “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. In
secondo luogo, è previsto che nel caso in cui sia dichiarato inammissibile l’appello per le stesse ragioni inerenti alle questioni di fatto poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione possa essere proposto solo per i motivi di cui ai numeri 1, 2, 3, 4 dell’art. 360, 1° comma cod. proc. civ.. In terzo luogo, nel caso di accoglimento del ricorso proposto nei confronti della pronuncia di primo grado, conseguente alla dichiarazione d’inammissibilità dell’appello, per motivi diversi da quelli relativi alla giurisdizione o alla competenza, il rinvio non deve essere fatto al giudice (di primo grado) che ha pronunciato
la sentenza cassata, ma a quello che avrebbe dovuto pronunciare sull’appello.
L’intento, del tutto condivisibile, dell’intervento normativo, è evidentemente quello di restringere l'ambito del controllo esercitabile in Cassazione sui vizi di motivazione dell'accertamento dei fatti compiuto dal giudice del merito. Lo strumento opportunamente predisposto dal legislatore dovrà certamente essere utilizzato in conformità, non tanto con la voluntas legislatoris in sintonia con gli auspici che larga parte di teorici e pratici hanno da tempo espresso, quanto con la ratio legis, fatta palese dai termini utilizzati. Né è prevedibile, e tanto meno auspicabile, che possa ripetersi quanto avvenne nel vigore del codice di procedura del 1865 (che non prevedeva uno specifico motivo di ricorso) e di quello del 1942, e cioè che, sotto la spinta delle parti che chiedono di rimettere in discussione il giudizio di fatto, si formarono orientamenti di giurisprudenza che, andando oltre una rigorosa interpretazione del dettato normativo, hanno consentito, ancor prima delle modifiche introdotte nel 1950, il sindacato sul vizio logico e sull’insufficienza della motivazione. L’entità della domanda, e la dimensione della pendenza, in particolare dell’arretrato, uniche nel panorama europeo delle corti di ultima istanza, sono corpose ragioni che debbono spingere ad adottare una interpretazione della nuova disposizione coerente con le esigenze sistematiche e funzionali che dovrebbero riportare la Corte a sviluppare le sue funzioni di nomofilachia, depresse o quanto meno fortemente ridotte
dall’enorme numero dei ricorsi.
Ma, come si è già rilevato a proposito del filtro di appello, le opportunità che le recenti modifiche offrono alla Corte di cassazione di recuperare il tradizionale ruolo di giudice di legittimità, resistendo ai tentativi della prassi giudiziaria di trasformarla in un terzo grado di merito, non sembrano sufficienti a fare fronte all’ondata dei nuovi ricorsi di cassazione che, secondo logiche previsioni, conseguirà alle applicazioni del nuovo "filtro" da parte dei giudici di appello, specie se esse saranno numerose e di ampia interpretazione dell’insussistenza di "una ragionevole probabilità" di accoglimento dell'appello.
5.4. Il ruolo essenziale della Sesta sezione.
La Sesta sezione civile, istituita, come si è detto (v. retro il par. 4.1), dalla legge 18 giugno 2009 n. 69, per verificare se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio (sussistenza di ipotesi di inammissibilità, manifesta infondatezza o manifesta fondatezza dei ricorsi) ovvero per la rimessione alle sezioni ordinarie, dopo un avvio inevitabilmente difficoltoso, nel 2012 ha raggiunto risultati eccellenti dimostrando le notevoli potenzialità di questa innovazione organizzativa.
Infatti, come si è precisato, sono stati definiti ben 8.546 ricorsi, pari al 34% delle definizioni complessive, con un aumento del 96,9% rispetto al 2011. Questo risultato è stato raggiunto per effetto del rilevante aumento del numero delle udienze passate dalle 79 del 2011 a 181 del 2012 con un aumento del 129%.
Per effetto di tale notevole performance è risultata significativamente ridotta la diminuzione delle definizioni dell’intera Cassazione civile, che avrebbe potuto essere ben superiore al decremento del 25% e soprattutto si è potuto ridurre la durata media dei giudizi a 34.1 mesi, pari a -2,7% della durata media del 2011. Ciò perché i ricorsi definitidalla Sesta sezione sono stati per il 40,5% iscritti nel 2010, per il 54,4% iscritti nel 2011 e per il 4,6% iscritti nel 2012.
L’analisi del tipo di decisione smentisce poi la tesi secondo la quale la Sesta sezione sarebbe la sezione delle inammissibilità o dei rigetti per manifesta infondatezza, una sorta di “mannaia” calata sui ricorsi. Infatti gli accoglimenti per manifesta fondatezza sono stati pari al 46%, rispetto a una percentuale di accoglimento nelle altre sezioni del 34%, e i rigetti per manifesta infondatezza sono stati pari al 34%, rispetto a una percentuale del 45% nelle altre sezioni. La funzione di “filtro” è quindi limitata alle decisioni di inammissibilità che, tuttavia, costituiscono solo il 17% rispetto all’11% dichiarato nelle altre sezioni e quindi rimangono nell’ambito di una normale attività di valutazione preliminare dei ricorsi.
Oltre alla limitazione della diminuzione del calo di produttività dell’intero ufficio, che, con il recupero di efficienza delle altre sezioni, potrà trasformarsi in contributo all’aumento delle definizioni e alla diminuzione della durata media del giudizio di cassazione, il buon funzionamento della Sesta sezione, consentendo la sollecita individuazione delle questioni nuove rimesse alle altre sezioni, ha dato un contributo al tempestivo espletamento delle funzioni di nomofilachia che dovrebbe anche assolvere, indirettamente, a una funzione deflativa dei ricorsi.
I buoni risultati, tuttavia, non rendono inutile ulteriori sforzi sul piano organizzativo.
Sarà necessario che, per una corretta individuazione dei ricorsi manifestamente fondati o manifestamente infondati l’Ufficio del massimario, una volta avutasi la copertura delle attuali intollerabili percentuali di scopertura dell’organico, aumenti e affini l’attività di massimazione, anche di qualche decisione della stessa Sesta sezione. Inoltre, ferma la necessità di calibrare gli interventi in relazione agli organici e alle materie di ciascuna delle altre sezioni, dovrà essere valutata accuratamente l’adeguatezza del numero di consiglieri da destinare alla Sesta sezione. Può essere opportuno, ancora, un apporto anche dei magistrati del Massimario, nelle forme organizzative idonee, al lavoro di “filtro” svolto dalla Sesta sezione.
Benefici, anche per l’organizzazione della Sesta sezione, potranno derivare infine dalla ridefinizione dei criteri di classificazione dei ricorsi attualmente vigenti, proposti da una gruppo di lavoro istituito con decreto del Primo Presidente del 17 luglio 2012.
Scopo dell’iniziativa è, secondo il decreto istitutivo, quello di meglio individuare lamateria dei ricorsi di nuova iscrizione, e di favorire una più equilibrata ripartizione del carico di lavoro tra le sezioni, nonché quello di conoscere con maggiore esattezza l’incidenza quantitativa esercitata sull’attività di ciascuna sezione (o sottosezione della Sesta)dalle singole materie alla medesima attribuite.
Il gruppo di lavoro nominato allo scopo ha completato i propri lavori e, una volta formalizzata l’approvazione dei nuovi criteri, questi potranno essere operativi in tempi molto rapidi. Il percorso seguito è stato quello di cercare, mediante l’utilizzo di un numero massimo di cinquanta voci gestibili dal sistema informatico, da un lato, di assimilare per quanto possibile (eccettuata la situazione della Sezione Tributaria, che costituisce un unicum nel sistema della Corte) i criteri di classificazione a quelli in uso per le corti d’appello, in modo da creare una continuità nel procedimento di classificazione; dall’altra di consentire attraverso una consultazione per via informatica delle voci di classificazione “accorpamento” dei ricorsi all’interno di ciascuna sezione (o sottosezione) per una piùagevole programmazione della relativa trattazione e una conseguente maggiore celerità (e
aumento) delle decisioni, favorita dalla contestuale trattazione di questioni analoghe.
6. L’attività di formazione in Cassazione.
L’attività di formazione in Cassazione nel 2012, sviluppando linee già delineate negli anni immediatamente precedenti, si è articolata in un ampio raggio di iniziative, offrendo ai magistrati della Corte, ma, in molte occasioni, anche ad un pubblico più ampio, strumenti di aggiornamento e di riflessione di diversa natura: incontri e convegni aperti ad un pubblico qualificato di avvocati e docenti universitari; momenti di confronto riservati ai magistrati della Corte e della Procura generale; seminari per i magistrati giunti in Corte nel corso dell’anno; corsi di apprendimento e perfezionamento della conoscenza delle lingue (inglese, francese, spagnolo; inglese giuridico); corsi di informatica e di documentazione giuridica.
Gli incontri pubblici hanno riguardato alcuni dei temi più problematici e discussi del dibattito giuridico ed hanno visto come relatori non solo presidenti e consiglieri della Corte, ma anche autorevoli esponenti del mondo accademico e forense.
In civile, vanno ricordati i seguenti incontri: “Questioni aperte in tema di giurisdizione in materia di responsabilità degli organi delle società a partecipazione pubblica” (19 gennaio); “Formazione
di principi giurisprudenziali in materia di pubblico impiego” (16 febbraio); “Il giudicato esterno nel processo tributario” (15 marzo); “Il controllo del giudice sul concordato preventivo” (11 ottobre);
“Perdita della vita e risarcimento del danno” (17 ottobre); “Famiglia, convivenza e possesso” (22 novembre). In penale: “Le misure cautelari reali” (1 marzo); “Cassazione penale e principio di legalità” (25 ottobre); “Gli epiloghi decisori del processo penale in Cassazione” (13 dicembre).
Di particolare rilievo sono stati alcuni incontri volti a studiare importanti novità legislative nell’immediatezza della loro introduzione: in un seminario svoltosi l’8 novembre si è approfondita la nuova normativa sul processo civile in Cassazione e, in particolare, la modifica concernente il ‘vizio di motivazione’ (“Il nuovo giudizio di Cassazione dopo la legge n. 134 del 2012”); l’11 dicembre si è esaminata la parte più discussa della riforma del mercato del lavoro, in un convegno dedicato alla memoria di Pasquale Picone (“La nuova disciplina dei licenziamenti”).
Alcuni consiglieri hanno svolto uno stage presso altre Corti di cassazione europee (francese, tedesca, spagnola e belga). Si è ritenuto di socializzare questa esperienza per comprendere come sono strutturate e come funzionano quelle Corti supreme e quali elementi utili possono trarsi dal confronto per migliorare l’organizzazione della Cassazione italiana. È stata questa la riflessione svolta con l’incontro del 12 aprile sul tema “Le Corti supreme degli altri”.
Una dimensione fondamentale, e destinata a sviluppi sempre più rilevanti, è quella del rapporto della Corte di cassazione con la Corte costituzionale e con le Corti di Lussemburgo e di Strasburgo. Sviluppando una riflessione avviata alcuni anni fa, si è organizzato un incontro volto a rifare il punto su tali relazioni, alla luce di una serie di
nuove decisioni di grande importanza di ciascuna di queste Corti e di un dibattito divenuto sempre più denso e serrato. Il 14 dicembre si è perciò discusso sul tema: “Giurisdizionenazionale e diritti fondamentali dopo il Trattato di Lisbona. Il dialogo tra le Corti europee, la Corte Costituzionale e la Corte di cassazione”.
Le relazioni, le sintesi del dibattito ed i materiali di tutti gli incontri su richiamati costituiscono un patrimonio importante, che è disponibile nel sito della Corte (www.cortedicassazione.it).
Tra le numerose altre attività svolte dai referenti per la formazione, una deve essere ricordata perché si proietta sul futuro della Cassazione: l’organizzazione del corso riservato ai nuovi consiglieri, giunti in Corte e in Procura generale durante l’anno in numero molto consistente. Si è riproposta e perfezionata un’esperienza fatta due anni fa, da cui è stato tratto un libro che raccoglie i contributi del settore civile. Il nuovo corso, articolato in quattro sessioni interdisciplinari, nonché sette sezioni specialistiche per il civile ed altrettante per il penale, è stato arricchito, da un lato con l’aggiunta di alcuni argomenti (in particolare una revisione critica del criterio di autosufficienza del ricorso), dall’altro richiedendo osservazioni ai consiglieri che seguirono il corso precedente e ne hanno sperimentato l’utilità nel passaggio dalla teoria alla prassi del giudizio di legittimità.
Notevole interesse, non soltanto nel quadro dell'attività formativa ma anche ai fini di un corretto esercizio della funzione nomofilattica, riveste anche l'iniziativa assunta dal Primo Presidente per lo sviluppo di forme di dialogo fra la Corte di cassazione ed i giudici di merito, in una prospettiva volta da un lato a favorire la ricognizione delle carenze più frequentemente riscontrabili nei provvedimenti che pervengono all'esame del Giudice di legittimità, e dall'altro a far emergere le criticità maggiormente avvertite dai giudici di merito rispetto ai diversi orientamenti della giurisprudenza di legittimità.
Tale iniziativa, che ha preso la forma di una sollecitazione rivolta dal Primo Presidente al Vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, si è concretizzata nell'organizzazione, ad opera della Nona Commissione dell'Organo di autogoverno, di due incontri di studio (uno per il settore civile e l’altro per il settore penale) con la partecipazione congiunta di magistrati della Corte di cassazione e dei formatori decentrati delle corti d'appello, rispondenti alla duplice finalità di approfondire la conoscenza di tecniche di redazione dei provvedimenti giurisdizionali che, senza un eccessivo aggravio di lavoro, consentano di prevenire eventuali omissioni o incompletezze, e di acquisire consapevolezza della complessità talora eccessiva della motivazione delle pronunzie di legittimità, la quale, ostacolando una chiara ed immediata individuazione del principio di diritto enunciato dalla Corte, rende disagevole l'adempimento dell'obbligo di uniformarvisi da parte del giudice di rinvio.
Ai due incontri del CSM in forma seminariale (ciascuno svoltosi in due giorni) hanno fatto seguito diverse iniziative organizzate a livello distrettuale o interdistrettuale, alle quali hanno partecipato, unitamente ai giudici dei distretti interessati, consiglieri di cassazione, e qualche volta io stesso.
Le riunioni, centrali e decentrate, hanno rivelato un enorme interesse dei magistrati di merito ed anche di legittimità ad un incontro e ad un colloquio che coinvolga i rispettivi metodi di lavoro e faccia conoscere le reciproche esigenze. Anche attraverso questi strumenti può realizzarsi quella forma di nomofilachia non autoritaria che coinvolga anche i giudici di merito, di cui si è parlato all’inizio di questo capitolo dedicato alla Corte di
cassazione.
Vi è da augurarsi che la neonata Scuola della magistratura prosegua questo tipo di iniziativa ed istituzionalizzi forme di dialogo abituale tra la Corte di legittimità ed i giudici di merito che emanano le pronunzie ricorribili per cassazione.
7. Il Centro di elaborazione dati.
7.1. Riorganizzazione del CED.
Il processo di riorganizzazione del CED, tempestivamente avviato dal Primo Presidente su specifico mandato del Consiglio superiore della magistratura (risoluzione in data 28 luglio 2010) e conclusosi, all’esito di una complessa attività istruttoria svolta da un gruppo di lavoro appositamente istituito, con un decreto dello stesso Primo Presidente in data 1 giugno 2011, ha dato, nel corso dell’anno 2012, rilevanti risultati che saranno diseguito illustrati.
Com’è noto il citato decreto ha in primo luogo razionalizzato l’organizzazione delle attività informatiche prevedendo tre distinti settori (rispettivamente: a) informatica giuridica; b) informatica giudiziaria; c) infrastrutture tecnologiche e processi d’innovazione) e precisando il ruolo e i compiti assegnati al direttore amministrativo. Inoltre ha potenziato la presenza nel CED della componente magistratuale, prevedendo, oltre al Direttore, tre magistrati, uno dei quali con funzioni di vice-direttore.
Il nuovo assetto organizzativo, che tiene conto della complessità della struttura del CED, nel quale operano contemporaneamente, con ruoli diversi ma necessariamente complementari, magistrati, personale amministrativo ed esperti informatici, sta realizzando l'armoniosa convivenza dei diversi tipi d'esperienza di cui sono portatori, pur nella diversità di ruoli e di responsabilità, gli esponenti delle suddette componenti; tale convivenza costituisce, infatti, un presupposto essenziale per il buon funzionamento della struttura, non solo perché assicura livelli ottimali di efficienza e di razionalizzazione dell'attività, ma anche perché solo la diversità di culture garantisce il pieno raggiungimento dei molteplici ed articolati compiti affidati al Centro.
7.2. L’informatica giudiziaria.
L’obiettivo di migliorare e adeguare le procedure informatiche alle esigenze della Corte costituisce un impegno prioritario del CED.
Una particolare attenzione è stata dedicata alla realizzazione di programmi
informatici finalizzati a rendere più efficiente la gestione del contenzioso. In particolare, con riferimento al settore civile, nel quale si pone in modo drammatico l’esigenza di abbattere l’arretrato e di ridurre i tempi di durata del processo, è stato realizzato, nel corso dell’anno 2012, un software che consente ai magistrati della Corte, oltre che ai funzionari di cancelleria, la piena utilizzazione dei dati conservati nel SIC (Sistema Informativo della Cassazione) relativi ai singoli fascicoli processuali. Il programma, nel consentire una efficiente “navigazione” all’interno del sistema e l’effettuazione in modo rapido, facile ed intuitivo di ricerche incrociate attraverso parole chiave e altri elementi identificativi, è destinato, in particolare, a facilitare gli accorpamenti dei ricorsi, a migliorare ulteriormente le capacità di gestione del contenzioso e ad evitare contrasti inconsapevoli di giurisprudenza. L’efficienza del programma è destinata inoltre ad aumentare in relazione alla capacità di sfruttamento, da parte delle singole sezioni, di una nuova funzionalità, appositamente sviluppata all’interno del SIC, che consente l’archiviazione informatica dei dati giuridici risultanti dall’esame preliminare dei ricorsi (cd. spoglio) eseguito da parte dei magistrati addetti. Il programma, già operativo nel settore civile, è in stato di avanzata realizzazione nel settore penale.
Gli strumenti sopra descritti sono destinati a integrarsi con la cd. “scrivania del magistrato”, che è infatti finalizzata a garantire ai giudici la piena utilizzabilità dei dati acquisiti dal sistema informatico in sede di iscrizione dei ricorsi come pure delle informazioni fornite dai magistrati addetti all’esame preliminare del ricorso nonché a supportare gli stessi nella redazione di alcune tipologie di provvedimenti. Allo stato il suddetto software è attivo e ampiamente utilizzato per l’intestazione delle sentenze nel settore civile.
Il Centro è da tempo impegnato nella realizzazione del processo civile telematico in Cassazione (di seguito PCT), che consentirà, in tempi ragionevolmente brevi, la gestione informatica dell’intero procedimento civile, dal deposito telematico del ricorso alla pubblicazione della decisione. Non può sfuggire il carattere strategico del progetto, checoinvolge non solo i magistrati e le cancellerie ma anche tutti gli altri attori del processo e, quindi, in primo luogo, gli avvocati. Alcuni segmenti del PCT sono già in fase avanzata di realizzazione (definizione delle specifiche tecniche concernenti il software per la redazione degli atti di competenza degli avvocati; busta elettronica contenente il ricorso introduttivo e altri atti assimilati in formato digitale; ricezione e gestione di tali atti da parte del SIC). Per quanto riguarda i segmenti informatici ancora da realizzare, il nuovo contratto di manutenzione del SIC, in vigore dal marzo 2013, garantisce le risorse tecniche e finanziarie adeguate. In sostanza può affermarsi che la Corte di cassazione è in linea con l’orientamento del legislatore, esplicitato da ultimo con l’art. 1, comma 19, della legge 24 dicembre 2012 n. 228 (legge di stabilità), di promuovere l’adozione generalizzata del processo telematico in tempi ragionevolmente brevi.
Per quanto riguarda il settore penale, la maggiore attenzione è stata dedicata alle procedure di iscrizione dei ricorsi per assicurare la completezza ed affidabilità dei dati acquisiti dal SIC, all’aggiornamento del catalogo dei reati e, sotto altro profilo, all’attuazione informatica dei criteri di redazione dei provvedimenti già fissati da apposita circolare del Primo Presidente.
Una parte delle informazioni contenute nel SIC è reso accessibile anche all’esterno, in primo luogo ai difensori delle parti che, mediante l’utilizzo di smart card, sono in grado di conoscere in tempo reale lo stato e l’esito dei ricorsi dagli stessi proposti alla Corte. Sono stati realizzati progetti (e le relative soluzioni sono già operanti), avviati a livello sperimentale con singole corti d’appello, finalizzati a consentire alle stesse di acquisire tutte le sentenze di legittimità che abbiano ad oggetto impugnazioni avverso decisioni emesse dalla Corte di merito interessata. In tal modo il giudice a quo viene messo in grado di conoscere sempre l’esito dell’impugnazione della propria decisione. Il successo di tale iniziativa, di cui è evidente la rilevanza sotto il profilo dell’esercizio della funzione nomofilattica da parte della Corte di legittimità, suggeriscono un’estensione del servizio a tutte le Corti d’appello e quindi una standardizzazione delle procedure di accesso agli archivi SIC.
7.3. L’informatica giuridica.
I servizi informatici offrono un contributo essenziale per l’efficacia della funzione nomofilattica della Corte in quanto agevolano la completa e tempestiva conoscenza delle decisioni adottate.
La completezza dell’informazione concernente il dato giuridico è assicurata da Italgiureweb, al quale sono iscritti oltre 39.000 utenti e che costituisce un servizio
internazionalmente conosciuto per la sua qualità. Il sito è ampiamente utilizzato dagli utenti, potendo vantare una media di 250.000 interrogazioni al giorno nei giorni feriali e di 100.000 interrogazioni nei giorni festivi e prefestivi.
Nonostante il protrarsi della situazione, già evidenziata lo scorso anno, di carenza di risorse umane, è stata realizzata una rilevante attività di manutenzione e di aggiornamento di alcuni archivi considerati prioritari. Sono stati aggiornati gli archivi Eurius ed Eurlex, contenenti, rispettivamente, la giurisprudenza della Corte di giustizia e la legislazione dell’Unione europea; particolare cura è stata dedicata all’aggiornamento e completamento degli archivi delle sentenze integrali della Corte di cassazione (SNCIV per il settore civile e SNPEN per il settore penale), rispetto ai quali sono allo studio soluzioni idonee a rendere più rapida e facile la ricerca documentale. Continua inoltre l’aggiornamento delle due più recenti banche dati (RELCIV e RELPEN), concernenti le relazioni (in particolare quelle sulle novità normative e sulle questioni di particolare rilevanza) prodotte dall’Ufficio del Ruolo e del Massimario, rispettivamente nel settore civile e nel settore penale. Per quanto riguarda la Corte europea dei diritti umani il CED, oltre a curare l’aggiornamento del proprio archivio (Cedu) con il testo originale di tutte le decisioni emesse dalla Corte (in lingua inglese e/o francese), continua ad arricchirlo (per facilitarne l’utilizzazione da parte degli utenti di lingua italiana) con un numero crescente di decisioni tradotte nella nostra lingua come pure con abstracts, sempre in lingua italiana, concernenti anche decisioni non tradotte. Tale attività viene seguita specificamente da un gruppo di lavoro, coordinato dai magistrati del CED, del quale fanno parte magistrati della Corte ed esperti designati dalla Corte costituzionale, dal Ministero della giustizia, dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e dalla Camera dei deputati. Il gruppo si è giovato del positivo contributo di stagisti laureati in giurisprudenza affidati alla Corte di cassazione nel quadro di convenzioni con l’università stipulate, fra l’altro, ai sensi dell’art. 37 decreto legge 6 luglio 2011 n. 98 convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011 n. 111. E’ stato infine completato, nel corso dell’anno 2012, l’aggiornamento degli archivi Eurius (concernente le decisioni della Corte di Giustizia) ed Eurlex (relativo alla normativa dell’Unione europea). Tale aggiornamento consente all’utente di Italgiureweb l’accesso immediato alle fonti normative e giurisprudenziali europee attraverso l’utilizzazione delle medesime chiavi di ricerca predisposte per gli altri archivi gestiti dal sistema. Più in generale deve sottolinearsi che tutto l’articolato sistema di Italgiureweb è stato sottoposto ad una complessa attività finalizzata a favorirne l’evoluzione in termini di semplificazione ed arricchimento dellefunzioni di ricerca e del miglioramento degli standards qualitativi, peraltro già molto elevati anche nel confronto con le esperienze degli altri Paesi dell’Unione europea.
Anche per rispondere a una crescente richiesta proveniente principalmente dalle diverse corti territoriali il Centro sta rilanciando l’attività di formazione concernente l’uso degli archivi informatici, attività che dovrà essere coordinata con gli organi preposti alla formazione dei magistrati. Analoghe iniziative saranno prese a favore degli utenti avvocati, nell’ottica di favorire la migliore conoscenza della giurisprudenza di legittimità.
Particolarmente intensa è la collaborazione del CED, insieme al Ministero della giustizia, con le istituzioni dell’Unione europea deputate all’implementazione del raccordo informatico tra Stati membri nell’ambito del diritto. Trattasi dello sviluppo di progetti (e.Law, e.Justice) di ricerca delle forme di coordinamento sovranazionale tra sistemi informatici giuridici e giudiziari, che tende ad aumentare la reciproca conoscenza degli ordinamenti al fine di armonizzarne i contenuti e le procedure nell’ambito delle materie dell’Unione. Ciò, per l’appunto, tramite l’elaborazione di linguaggi comuni e di portali informatici di accesso ai dati rilevanti, su cui l’esperienza del Centro è di propulsione per molteplici e valide soluzioni.
Il CED collabora inoltre a un importante progetto della Rete dei Presidenti delle Corti supreme dell’Unione europea, finalizzato alla realizzazione di un motore di ricerca che consenta all’utente di navigare negli archivi di giurisprudenza delle Corti supreme nazionali e di leggere nella propria lingua (grazie a meccanismi di traduzione automatica) i documenti trovati.
7.4. Il sito web della Corte di cassazione.
Il sito web della Corte (www.cortedicassazione.it), da tutti consultabile, è finalizzato tra l’altro a favorire la tempestiva conoscenza della più recente giurisprudenza di legittimità. A tal fine il “servizio Novità”, costantemente aggiornato dall’Ufficio del massimario, contiene le più recenti pronunzie delle Sezioni unite e delle Sezioni semplici, sia nel settore civile che in quello penale. Nel corso del 2012 il servizio è stato ulteriormente potenziato mediante l’inserimento delle ordinanze di rimessione alle Sezioni unite civili delle questioni di particolare importanza. Tale iniziativa, finalizzata a promuovere la conoscenza all’esterno delle problematiche giuridiche che le Sezioni unite sono chiamate ad affrontare, anche al fine di stimolare eventuali interventi della dottrina sulle problematiche stesse, è del resto coerente con quanto da tempo viene fatto per le ordinanze di rimessione alle Sezioni unite penali.
Il sito web contiene inoltre i testi integrali di tutte le relazioni tenute dal Primo Presidente per l’inaugurazione dell’anno giudiziario (per gli anni 2007 - 2012); nel corso del 2012, il sito, grazie alla collaborazione della Biblioteca centrale giuridica, è stato arricchito con un’apposita sezione, chiamata “archivio storico”, che contiene tutte le relazioni in precedenza svolte dai Procuratori generali fin dal 1886.
Il successo del sito appare evidente ove si consideri che, con riferimento agli ultimi tre anni, ha avuto una media di quasi quattro milioni di accessi per anno. Il numero di accessi complessivo dal momento della realizzazione del sito (ottobre 2004) ammonta a quasi 22 milioni e si è attestato, negli ultimi tre anni, su una media di circa 3,8 milioni di contatti per anno.
7.5. La nuova sala server.
Nel corso del 2012, con il sostegno della Prima Presidenza e con la decisiva collaborazione del Ministero della giustizia, è iniziata la realizzazione di una moderna ed efficiente “sala server” nel Palazzo di Piazza Cavour, realizzazione che sarà completata presumibilmente entro il primo semestre del corrente anno. Si tratta di un’infrastruttura fondamentale per gestire in piena autonomia e sicurezza, fra l’altro, la notevole massa di documenti digitali già esistenti e, per il prossimo futuro, la massa enorme di documenti che deriverà dai processi di digitalizzazione sopra descritti. Sarà possibile così garantire, fra l’altro, una maggiore continuità dei servizi di consultazione forniti ai magistrati (in particolare Italgiureweb), evitando le disfunzioni che si sono verificate nel recente passato.


9. Conclusioni


Signor Presidente della Repubblica,
nei due anni precedenti abbiamo cercato di offrire un coerente e sistematico panorama di analisi, di idee e, soprattutto, di proposte, muovendo dagli intollerabili lunghi tempi del processo ed evidenziando l’imprescindibile necessità di apprestare un organico piano per la giustizia, di cui ci siamo sforzati di indicare concreti elementi e tracciare graduali e successive tappe per un progressivo recupero di efficienza e funzionalità del sistema di giustizia.
Nella Relazione di quest’anno abbiamo posto al centro di questa giornata, come augurio per l’anno che ufficialmente oggi apriamo, il necessario contributo dell’amministrazione giudiziaria alla costruzione di un sistema di giustizia europeo, in analogia con quanto essa seppe fare per la progressiva realizzazione dell’ordinamento giuridico delineato dal Costituente.
Questo compete a chi, avendo responsabilità pubbliche, non può rimanere inerte di fronte alla difficile situazione che oggi vivono l’Italia e l’Unione europea ed è questo l’impegno di quanti, nella Corte di legittimità e in tutti gli uffici giudiziari italiani, sono quotidianamente tesi a realizzare l’adempimento di una funzione primaria dello Stato costituzionale di diritto e il funzionamento, al meglio delle concrete possibilità date, di un essenziale servizio pubblico.
Nella mia lunga attività professionale, prossima alla conclusione, mi è stato di stimolo e di guida l’insegnamento di un grande magistrato (e fecondo formatore di magistrati), Antonio Brancaccio, che da sempre ho assunto a maestro da imitare per la rettitudine, il rigore, l’equilibrio e l’indipendenza che caratterizzarono la sua vita professionale, sia nell’esercizio dell’attività giurisdizionale e giudiziaria (giudice e pubblico ministero), sia quando fu chiamato ad adempiere a compiti amministrativi o di governo presso il Ministero della giustizia e dell’interno.
Non solo per rendere un doveroso omaggio a chi guidò questa Corte dal dicembre 1986 al gennaio 1995, ma come ulteriore elemento che arricchisce la nostra odierna riflessione pubblica sul ruolo del giudice, voglio ricordare la risposta, nelle espressioni essenziali posta come esergo di questa Relazione, che Antonio Brancaccio diede a giovani uditori che gli domandavano quali fossero le qualità che si richiedono per un buon magistrato.
“Credo - egli disse - di dover segnalare tre qualità. Anzitutto occorre una grande e costante attenzione culturale. E’ un’attenzione che impegna in studi severi, che consentano di mantenere sempre aggiornata la propria preparazione professionale, e in riflessioni approfondite sulle proprie esperienze, sì da trarne il massimo giovamento per un processo di maturazione destinato praticamente a non concludersi mai.
Per i giudici davvero può dirsi che gli esami non finiscono mai: essi mentre giudicano sono giudicati, perennemente giudicati; e quanto più sapranno assumere il ruolo di giudicati, tanto meglio sapranno svolgere la funzione giudicante.
La seconda qualità è costituita da una forte tensione morale. Si esige, cioè, che si avverta che: il nostro lavoro non si può fare se non si è fortemente motivati, se non si ha la convinzione di seguire una vocazione che si attua nello spirito del servizio che si rende alla comunità, impegnandoci in un continuo scambio di idee e di sentimenti con la società che ci circonda.
La terza qualità, che si richiede perché un magistrato possa incamminarsi con la consapevolezza piena dei suoi doveri sulla lunga strada che lo attende, è l’umiltà”.



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