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Consiglio di Stato, adunanza plenaria, 4 agosto 2011 n. 17: exursus e riflessioni
a cura della redzione
 


Sono applicabili alle società controllate da società strumentali e costituite con capitale di queste gli stessi limiti che valgano per tutte le società controllanti, ove si tratti di attività inerenti a settori preclusi a queste ultime.
Con la decisione in epigrafe il Supremo Consesso amministrativo è intervenuto su una questione ormai da tempo nel mirino del dibattito dottrinale e giurisprudenziale ed oggetto di particolare interesse anche da parte del legislatore.
Tale questione, che si impone trattando del complesso fenomeno delle società in house e di quelle miste, è il dibattuto problema della possibilità per le società locali de quibus di svolgere attività extraterritoriali, ossia di estendere il loro raggio d’azione all’esterno del territorio di pertinenza dell’ente di riferimento, partecipando a gare per l’affidamento di servizi indette da altri enti.
La decisione offre, dunque, l’occasione per la disamina dell’approccio ricostruttivo seguito dalla giurisprudenza amministrativa nella definizione dei contorni dei presupposti che legittimano lo svolgimento di attività extra moenia da parte di società a partecipazione pubblica.
Peraltro, la piena comprensione dell’approccio sistematico seguito dall’Adunanza Plenaria impone un preliminare inquadramento del contesto normativo e giurisprudenziale, sia di derivazione comunitaria che nazionale, volto a favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito nazionale o locale ed al livello delle prestazioni secondo l’art. 117, comma 2, lett. e) ed m) Cost.
La tendenza che caratterizza maggiormente la parabola evolutiva della disciplina dei servizi pubblici è la progressiva attrazione, a partire dagli anni Novanta, di quest’ultimi all’interno del mercato.
Le ragioni di tale trasformazione sono da ravvisare essenzialmente nella spinta comunitaria al processo di liberalizzazione di interi settori economici, quali quello dell’energia elettrica, del gas, dei trasporti, dei servizi postali e delle telecomunicazioni, in passato monopolizzati dalle imprese pubbliche, e nel connesso e strettamente consequenziale fenomeno della privatizzazione degli enti erogatori.
Con particolare riguardo al primo fattore di mutamento è bene evidenziare come l’incidenza spiegata dal diritto comunitario sul regime tradizionale interno dei servizi pubblici ha determinato un meccanismo di diffusione capillare dei principi del mercato e della tutela della concorrenza.
Difatti, nel diritto dell’Unione europea la tutela della concorrenza e la garanzia che gli operatori economici non siano discriminati in ragione della loro nazionalità costituiscono i requisiti essenziali per la piena realizzazione della libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali e, dunque, per la creazione di un mercato interno fortemente competitivo.
In tale contesto, pertanto, l’intervento statale nell’economia – sia attraverso la gestione diretta di attività economiche, sia attraverso la rigida regolamentazione di alcuni mercati – è stata visto dall’Unione europea come un ostacolo concreto all’integrazione europea e una causa di possibili distorsioni della concorrenza.
Per questa ragione, il diritto e la politica dell’Unione europea hanno incoraggiato e, in alcuni casi, imposto un vero e proprio processo di liberalizzazione, che ha progressivamente consentito di sostituire numerosi monopoli pubblici con mercati aperti alla concorrenza di più operatori pubblici e privati.
Tale operazione di apertura alla competitività di settori tradizionalmente gestiti in regime di riserva si è realizzata con modalità ed intensità differenti, riconducibili con buona approssimazione ad un duplice ordine di strategie: la concorrenza nel mercato e la concorrenza per il mercato.
La concorrenza sottesa alla prima delle due eccezioni si risolve, in particolare, nella possibilità da parte di un numero di operatori economici indeterminabile a priori di essere presente e di competere in un settore, dal carattere “aperto e libero”, sulla base delle proprie competenze e professionalità.
La seconda formula, invece, evoca la libera competizione tra gli operatori in una fase prodromica, volta al conseguimento da parte degli stessi del diritto di svolgere in esclusiva un’attività economica nell’ambito di un mercato non libero.
La praticabilità dell’una o dell’altra opzione è nel concreto condizionata sia da fattori endogeni, quali le caratteristiche strutturali (fisico ed economiche) dei settori interessati, sia da fattori esogeni, quali le valutazioni politiche compiute anche in sede comunitaria. E, così, l’opzione della concorrenza per il mercato ha trovato una particolare realizzazione nell’ambito dei mercati dei cd “servizi a rete” (tipicamente telecomunicazioni, elettricità, gas e trasporti), che assumono
una configurazione “naturalmente monopolistica”, in quanto naturalmente non concorrenziali, ossia caratterizzati da infrastrutture “indispensabili”o “essenziali” non intercambiali, a motivo delle loro caratteristiche particolari e, segnatamente, del costo proibitivo della loro riproduzione e del tempo ragionevole a questo scopo.
Peraltro, tale processo di liberalizzazione, ancora in corso, di settori in precedenza gestiti dal monopolista pubblico in un regime di riserva, oltre a realizzarsi in maniera graduale e con una certa disomogeneità, stante il conferimento in taluni casi di diritti speciali o esclusivi, si è accompagnato alla previsione di una disciplina regolatoria, tesa a garantire il funzionamento di mercati nei quali, nonostante l’avvenuta liberalizzazione, permangono barriere tecniche e la determinazione delle condizioni di offerta è fortemente falsata dalla posizione dominante dell’ex monopolista. Condizioni tipicamente riscontrabili nei mercati di servizi a rete, in cui la regolamentazione economica, agendo sul piano della disponibilità della infrastruttura e, nonché sull’orientamento ai costi dei prezzi dell’offerta, si è atteggiata come misura complementare alla liberalizzazione del settore, al fine di riprodurre dinamiche e condizioni di offerta assimilabili a quelle di un virtuale mercato di concorrenza.
Nella cornice del diritto interno tale processo di liberalizzazione dei servizi a rete, unitamente alla predisposizione di una disciplina di carattere regolatorio, appare caratterizzato da un significativo collegamento con la privatizzazione sostanziale dei soggetti erogatori.
Viene, così, in rilievo il secondo fattore di trasformazione della disciplina dei servizi pubblici, ossia il fenomeno delle privatizzazioni, che, a partire dagli anni ’90, dopo un periodo caratterizzato dal massiccio intervento dello Stato nell’economia, ha determinato, in un’ottica di ottimizzazione dei risultati gestionali, una progressiva dismissione di buona parte di quote degli enti pubblici economici e delle aziende autonome.
Le ragioni di questa nuova politica legislativa vanno ricercate nell’ormai insostenibile debito pubblico, determinato, in buona misura, dalla cattiva gestione delle imprese pubbliche operanti nei diversi settori economici, ma soprattutto dalla spinta comunitaria alla liberalizzazione di interi settori economici, quali quello dell’energia elettrica, del gas, dei trasporti, dei servizi postali e delle telecomunicazioni, in passato monopolizzati dalle imprese pubbliche.
A sostegno del fondamento costituzionale della privatizzazione della gestione dei servizi pubblici viene addotto, da alcuni, il principio di “sussidiarietà orizzontale” enunciato dall’art. 118 della Costituzione.
Il collegamento tra sussidiarietà e privatizzazione dei servizi si fonda su un’interpretazione della sussidiarietà orizzontale che vorrebbe farne (anche) il principio regolatore del rapporto tra sfera pubblica e sfera privata dell’economia.
Il principio di sussidiarietà, che il testo costituzionale ha espressamente riferito alla dimensione civica dei soggetti, viene collegato alla libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), la quale, in questo collegamento, acquista un significato che trascende la libertà di impresa dei singoli e diviene strumento diretto per la realizzazione di interessi generali.
Così inteso, il principio di sussidiarietà orizzontale prescriverebbe la preferenza per l’impresa privata, ove non sussistano circostanze particolari che la rendano inadeguata alla gestione del servizio nel caso concreto. Dell’inadeguatezza deve essere data dimostrazione nella motivazione delle deliberazioni assunte al riguardo dagli enti locali, la quale deve avere ad oggetto non solo la scelta dell’assunzione in esclusiva dell’attività stessa (per la quale la giustificazione è già prescritta dall’art. 43 Cost. e dall’art. 106 TFUE), bensì anche la decisione successiva con la quale viene scelta la modalità di gestione dell’attività economica che è stata assunta come servizio pubblico.
Muovendo da questa interpretazione, i recenti ritocchi al sistema di gestione dei servizi pubblici locali, che - come vedremo meglio nel prosieguo della trattazione – rendono eccezionale la produzione interna, si presentano come l’espressione di una scelta organizzativa del legislatore ordinario, dettata da considerazioni sia di convenienza economica sia di doverosa attuazione del principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale.
Ne segue che gli interessi che vengono in considerazione in tale contesto sono l’interesse pubblico – definito dall’amministrazione a cui spetta provvedere al servizio – e l’interesse privato dell’impresa, che si impegna a produrlo.
Si veda, tra gli scritti più recenti, G. C. Salerno, “Servizi di interesse generale e sussidiarietà orizzontale fra ordinamento costituzionale e ordinamento dell’Unione europea”, con presentazione del prof. G. Pastori, Torino, 2010.
A norma del comma 3 dell’art. 23-bis della Legge n. 133 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15 della Legge n. 166 del 2009, la gestione in house è ammessa per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato. A ciò si aggiunga, altresì, la disposizione di cui al comma 1 dell’art. 2 D.P.R. n. 168 del 2010, la quale, in attuazione del disposto di cui al comma 10 lett. g) dell’art. 23-bis sopra menzionato,dispone che gli enti locali sono tenuti a “limitare, secondo criteri di proporzionalità, sussidiarietà orizzontale e razionalità economica, i casi di gestione in regime d'esclusiva dei servizi pubblici locali, liberalizzando le altre attività economiche di prestazione di servizi di interesse generale in ambito locale compatibili con le garanzie di universalità ed accessibilità del servizio pubblico locale”.
Ed è proprio la combinazione di tali interessi che ha determinato il dispiegarsi del fenomeno della privatizzazione secondo moduli parzialmente diversi dal modello tradizionale.
Il processo di privatizzazione si è realizzato sostanzialmente secondo due modelli, che rappresentano al contempo due distinte fasi temporali.
La prima fase, cd di “privatizzazione formale”, ha comportato semplicemente il mutamento della struttura organizzativa dell’ente pubblico, che, pur rimanendo sotto il controllo della mano pubblica, trasforma la propria natura giuridica in società per azioni.
Ciò è avvenuto, ad esempio, per l’ex azienda autonoma delle Ferrovie dello Stato, trasformata dapprima in Ente Ferrovie dello Stato e successivamente in Ferrovie dello Stato S.p.a.
Tale fase di privatizzazione non si è resa necessaria con riferimento alle imprese a partecipazione statale che già presentavano una struttura privatistica.
In tali ipotesi, il legislatore ha potuto procedere direttamente alla cd “privatizzazione sostanziale”, che costituisce sostanzialmente la seconda fase del processo in esame e si caratterizza per il fatto di realizzare l’effettivo passaggio della impresa in mano privata attraverso il collocamento sul mercato delle partecipazioni detenute dallo Stato.
Il fenomeno della privatizzazione sostanziale non si è realizzato in maniera “pura” nell’ordinamento italiano.
Difatti, il nostro legislatore, al fine di evitare che il venir meno del pieno controllo delle imprese pubbliche da parte dello Stato potesse determinare una sorta di vuoto di tutela degli interessi pubblici, ha, da un lato, subordinato l’avvio del processo di privatizzazione (sostanziale) alla costituzione di autorità indipendenti per la regolazione, il controllo della qualità dei servizi e della regolarità delle tariffe e, dall’altro, ha introdotto particolari istituti volti ad assicurare all’azionista pubblico poteri speciali, comprendenti diritti di gradimento, diritti di veto e poteri di nomina degli organi direttivi della società.
La previsione di tale ventaglio di poteri è stata, infatti, ritenuta strumentale alla protezione degli interessi pubblici, la cui realizzazione potrebbe essere compromessa da possibili fenomeni distorsivi del mercato, in particolare, quello dei servizi pubblici, protezione di cui in passato non si avvertiva l'esigenza stante la diretta gestione degli stessi da parte dello Stato.
In particolare, la dismissione delle partecipazioni azionarie dello Stato e degli enti pubblici nelle società esercenti servizi pubblici è stata subordinata, in linea con quanto descritto dalla
Commissione dell’Unione europea nel “Libro verde sui servizi di interesse generale”3, alla creazione di organismi indipendenti per la regolazione delle tariffe e il controllo della qualità dei servizi di rilevante interesse pubblico.
Tale disegno, che consente di escludere una correlazione tra privatizzazione e deregolazione, ha trovato concreta attuazione con l’approvazione della Legge n. 481 del 1995, che, nel dettare “norme sulla concorrenza e regolazione nei servizi di pubblica utilità”, ha previsto l’istituzione delle relative Autorità di regolazione, sebbene limitatamente ai settori dell’energia elettrica e del gas e delle telecomunicazioni, attesa l’espunzione, dall’originario progetto, dei settori idrici, postali e dei trasporti.
Di fatto, i poteri e il funzionamento dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas (AEEG) sono disciplinati nella stessa Legge n. 481 del 1995, mentre l’istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni (AGCOM) è avvenuta nel concreto solo due anni dopo con la Legge n. 249 del 1997.
I processi di privatizzazione e liberalizzazione non hanno coinvolto il complesso delle attività di servizio pubblico, permanendo con riferimento ad alcune di esse un regime organizzativo derogatorio all’ordinario funzionamento del mercato.
Si tratta, in particolare, dei servizi di interesse economico generale, espressamente contemplati già nello stesso Trattato istitutivo della CE ed ora nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), con riferimenti ai quali è prevista la possibilità per le autorità nazionali, nonostante il loro carattere economico, di sottrarle all’applicazione delle regole della concorrenza, nelle ipotesi di incompatibilità assoluta tra l’applicazione delle regole di concorrenza e le finalità extraeconomiche che il regime organizzativo del servizio mira a soddisfare.
In questo senso, l’art. 106 TFUE (ex art. 86 TCE), dopo aver disposto al primo paragrafo che “gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme dei trattati, specialmente quelle contemplate dagli articoli 18 e da 101 a 109 inclusi”, al secondo paragrafo, con tono derogatorio rispetto al precedente e alle altre disposizioni della Sezione I del Capo I, contenente le regole di concorrenza applicabili alle imprese, prevede che “le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in “Libro verde sui servizi di interesse generale”, Bruxelles, 21 maggio 2003, COM(2003).
Dalla lettura della norma si ricava il principio per cui, ai fini dell’applicazione delle norme comunitarie, è generalmente indifferente la natura pubblica o privata dell’impresa. Infatti, tanto per le imprese pubbliche, di cui al comma primo, quanto per le imprese incaricate della gestione di un servizio di interesse economico generale, indifferentemente pubbliche o private, di cui al comma secondo, vale in generale lo stesso regime giuridico basato sul rispetto delle norme sulla concorrenza.
Le imprese di cui al comma primo sono, secondo il diritto e la giurisprudenza comunitaria, “imprese pubbliche”, in quanto svolgenti un’attività economica di tipo imprenditoriale sotto il controllo di un soggetto pubblico.
Le imprese di cui al comma secondo, invece, possono indifferentemente essere pubbliche (enti o articolazioni di enti pubblici) o private (concessionari o appaltatori), ma si caratterizzano per l’esercizio di un servizio, che il trattato definisce di interesse economico generale.
Ne consegue, dunque, che l’espressione “servizi di interesse economico generale” (SIEG), utilizzata nella disposizione in parola, è indicativa sia della permeabilità di tali attività ai principi e alle regole che governano il mercato interno, attesa la loro natura economica, sia del perseguimento di obiettivi di carattere sociale attraverso l’offerta di prestazioni ritenute in grado di soddisfare bisogni essenziali della collettività.
Il carattere derogatorio della disciplina delle imprese in questione ha subito un ridimensionamento per effetto del fatto che, anche sulla scia dell’istituzione della cittadinanza ad opera del Trattato di Maastricht, il Trattato di Amsterdam ha introdotto nel testo del Trattato istitutivo della Comunità, l’art. 16, oggi confluito nell’art. 14 TFUE, a tenore del quale “in considerazione dell’importanza dei servizi di interesse economico generale nell’ambito dei valori comuni dell’Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, l’Unione e gli Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell’ambito del campo di applicazione dei trattati, provvedano affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni, in particolare economiche e finanziarie, che consentano loro di assolvere i propri compiti”.
Il reticolato delle disposizioni rilevanti viene completato dalla previsione contenuta nell’art. 73 TCE (ora art. 93 TFUE), a mente del quale “sono compatibili con i trattati gli aiuti richiesti dalle necessità del coordinamento dei trasporti ovvero corrispondenti al rimborso di talune servitù inerenti la nozione di pubblico servizio”. La disposizione si inscrive nel solco tracciato dall’art. 86 TCE, in quanto dispone, in sostanza, una sospensione delle regole poste a presidio della concorrenza – in questo caso il divieto di aiuti di Stato – finalizzata a garantire l’erogazione di prestazioni essenziali, per la parte in cui non vi provvedano gli ordinari meccanismi di mercato, trattandosi di attività antiremunerative, che in quanto tali vanno rimborsate.
In definitiva, dal quadro normativo appena delineato si deduce che nel concetto di “servizi di interesse economico generale” coesistono due istanze: la permeabilità dei servizi ai principi e alle regole che governano il mercato interno, attesa la loro natura economica, e il perseguimento di obiettivi di carattere sociale attraverso l’offerta di prestazioni ritenute in grado di soddisfare bisogni essenziali per la collettività.
Difatti, le disposizione in esame, esplicitazione della funzionalità del regime dei servizi di interesse economico generale alla promozione della coesione sociale e territoriale, costituiscono concretizzazione della filosofia di un ragionevole bilanciamento tra l’interesse degli Stati membri alla preservazione di misure di interesse generale e di tutela della sicurezza pubblica e quello dell’Unione europea a non veder pregiudicate da misure del genere le libertà di circolazione e il regime della concorrenza implicati dal processo di integrazione europea.
Ed in ragione della funzione appena esplicata, nonché della esigenza di un suo bilanciamento con i principi concorrenziali, la giurisprudenza comunitaria, con riferimento ai casi in cui un SIEG non concerna un settore oggetto di disciplina specifica ad opera di un atto di diritto comunitario derivato, ma ricada esclusivamente nell’ambito di applicazione dell’ex art. 86 TCE (ora art. 106 TFUE), ha riconosciuto un rilevante grado di discrezionalità allo Stato che ha concesso ad un’impresa un diritto speciale o esclusivo o ha imposto ad un’impresa un obbligo per la sua realizzazione, sia per quanto concerne la definizione della missione ad essa attribuita, sia per quanto riguarda le modalità di esercizio di questa e di determinazione dei finanziamenti in relazione alla stessa erogati. Discrezionalità che, tuttavia, deve essere contenuta entro termini ragionevoli al fine di evitarne gli abusi.
Nei Trattati comunitari, invece, non si rinviene la definizione di “servizi di interesse generale”, ma – come si evidenzia nella “Comunicazione al Parlamento, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni – Libro bianco sui servizi di interesse generale” è “Comunicazione al Parlamento, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni – Libro bianco sui servizi di interesse generale”, Bruxelles, 12 maggio 2004, COM(2004) 374, in http://eur-lex.europa.eu. Il cd. “Libro bianco” illustra la strategia adottata dalla Commissione per sviluppare un ruolo positivo dell’Unione europea come promotrice dello sviluppo
utilizzata nella prassi comunitaria quale espressione più ampia di “servizi di interesse economico generale”, in quanto comprensiva sia dei servizi di mercato che di quelli non di mercato che le autorità pubbliche considerano di interesse generale e assoggettano a specifici obblighi di servizio pubblico.
Il discrimen sarebbe, pertanto, rappresentato dal carattere economico o meno dell’attività: i servizi di interesse economico generale troverebbero regolamentazione nell’attuale art. 106 TFUE, mentre i servizi di interesse non economico esulerebbero da tale disciplina. La categoria dei servizi di interesse generale li comprenderebbe entrambi.
La distinzione tra attività di natura economica ed attività prive di tale natura, tuttavia, è molto controversa e sull’argomento sono intervenute tanto le istituzioni europee quanto la giurisprudenza, sia nazionale che comunitaria.
In particolare, la Commissione, nel Libro verde sui servizi di interesse generale5, ha definito attività economica “ogni attività che implica l’offerta di beni e servizi su un dato mercato” ed ammette espressamente che “servizi economici e non economici possono coesistere all’interno dello stesso settore e talora possono essere forniti dallo stesso organismo”.
Ne consegue, secondo quanto chiarito dalla Corte di giustizia nella sentenza 22 maggio 2003 C-18/2001, che non è possibile fissare a priori un elenco definitivo dei servizi di interesse generale di natura “non economica”. Spetta, pertanto, al giudice nazionale valutare circostanze e condizioni in cui il servizio viene prestato, tenendo conto, in particolare, dell’assenza di uno scopo precipuamente lucrativo, della mancata assunzione dei rischi connessi a tale attività ed anche dell’eventuale finanziamento pubblico dell’attività in questione.
Restano stralciati, almeno per il momento, dalla disciplina comunitaria alcuni servizi di interesse economico generale “finora esclusi”, i servizi di interesse generale non economico e i servizi pubblici locali, questi ultimo in forza del loro carattere localistico.
Peraltro, ciò non deve portare ad escludere che la tutela della concorrenza sia estranea al regime dei servizi pubblici locali. Difatti, a seguito della riforma intervenuta ad opera dell’art. 23-bis del D.L. 25 giugno 2008 n. 112, convertito con modificazioni dalla Legge 6 agosto 2008 n. 133, e successive modificazioni, si accede ad un quadro disciplinare improntato al principio della concorrenza.
Emblematica, al riguardo, è la nozione “servizi di interesse generale”, inserita dal legislatore nazionale nell’art. 23-bis D.L. n. 112 del 2008, al fine di indicare quelli che, nel nostro ordinamento, vengono definiti servizi pubblici nazionali o locali.
L’uso di questa espressione, lungi dal costituire un mero errore materiale o una semplice svista, è sintomatica della volontà del legislatore nazionale di avviare un processo di tendenziale omogeneizzazione della nozione di servizio pubblico locale con quella, tutta comunitaria, di servizio di interesse generale.
Occorre, pertanto, verificare in quali modalità si atteggia la tutela della concorrenza nell’ambito della disciplina dei servizi pubblici locali. Ciò presuppone un preliminare inquadramento della disciplina di settore.
La definizione di “servizio pubblico locale” è ricavabile dall’art. 112 del TUEL, il quale stabilisce che “gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali”.
Il servizio pubblico assume, quindi, la qualificazione di locale quando è caratterizzato dal concorso dei seguenti elementi:
1. imputabilità del servizio all’ente locale (categoria in cui non rientrano le Regioni);
2. oggetto del servizio consistente nella produzione di beni ed attività destinati alla comunità locale;
3. scopo del servizio consistente nella realizzazione di fini sociali e nella promozione e sviluppo delle comunità locali.
La giurisprudenza amministrativa ha conseguentemente posto in luce che con l’espressione “servizio pubblico locale” si intende “qualsiasi attività che si concreta nella produzione di beni e servizi in funzione di un’utilità per la comunità locale non solo in termini economici, ma anche ai fini di promozione sociale” (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. V, 17 aprile 2003 n. 2024).
Quello dei servizi pubblici locali risulta un regime giuridico particolarmente instabile, oggetto di continui interventi da parte del legislatore alla ricerca dell’assetto definitivo.
Il legislatore è, da ultimo, intervenuto con l’art. 23-bis del D.L. 25 giugno 2008 n. 112, convertito in Legge n. 133 del 2008, integrato con l’art. 15 del D.L. n. 135 del 2009, convertito con modificazioni con la Legge n. 166 del 2009, ed ora ulteriormente definito con il Regolamento di cui al D.P.R. n. 168 del 2010, dettando una disciplina caratterizzata da una spiccata carica innovativa ed originalità.
Difatti, con la riforma di cui all’art. 23-bis l’intento del legislatore è stato quello di abrogare il regime giuridico previsto dall’art. 113 TUEL, al fine di favorire la più ampia diffusione dei principi di libera concorrenza e di libera prestazione da parte di tutti gli operatori economici interessati alla gestione dei servizi pubblici in ambito locale, nonché di garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed al livello essenziale delle prestazioni, secondo i principi di sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione.
L’assetto attuale prevede due modalità di gestione e di affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica: una ordinaria, l’altra eccezionale.
La prima è costituita dalle modalità di affidamento dei servizi pubblici locali mediante procedure competitive ad evidenza pubblica e di affidamento in favore di società a partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che la scelta del socio privato avvenga mediante procedure competitive ad evidenza pubblica a doppio oggetto (cioè qualità del socio ed attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio) e che al socio sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40%.
Rispetto a tale modulo ordinario il legislatore ha, invece, relegato entro i confini di un modulo eccezionale e derogatorio il secondo modello di affidamento, ossia quello in favore delle società in house.
Sembra, dunque, che il legislatore con la recente novella legislativa abbia inteso privilegiare una scelta politica in favore del regime privatistico e del regime misto pubblico-privato, mentre il modello dell’affidamento diretto in house viene posto come deroga ed eccezione, finendo per ampliare il divario tra la giurisprudenza comunitaria, che rinviene nell’in house un modello di autorganizzazione dell’amministrazione e di autoproduzione del servizio, e la nostra giurisprudenza amministrativa, che, relegando l’in house ad ipotesi derogatoria ed eccezionale, finisce con l’interpretare con maggior rigore i relativi requisiti, in quanto deroga alle regole generali del diritto dell’Unione europea imperniate sui principi del mercato e della libera concorrenza.
Risulta, dunque, evidente come, con la novella in parola, il legislatore ha imposto espressamente che la selezione del socio avvenga, nel rispetto dei principi del Trattato e di quelli relativi alla disciplina dei contratti pubblici, mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, che abbiano il duplice oggetto dell’attribuzione della qualità di socio e di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio (cd. gara a doppio oggetto).
La novella in esame ha, pertanto, equiparato la gara ad evidenza pubblica per la scelta del soggetto gestore alla fattispecie della società mista pubblico-privata con gara “a doppio oggetto” per la scelta del socio privato, riconoscendo quest’ultima procedura sufficiente a soddisfare le regole della concorrenza, senza la necessità di una seconda gara per l’affidamento dei servizi.
Dalla gara unica a doppio oggetto va distinta l’ipotesi in cui si intendano affidare ulteriori appalti ad una società mista già costituita. In questo caso, infatti, occorre una gara per l’affidamento degli appalti ulteriori e successivi rispetto all’originaria missione.
Oltre a ciò, lo stesso legislatore ha previsto che al socio privato spetti una partecipazione non inferiore al 40% del capitale sociale.
Tale percentuale non deriva direttamente da norme o orientamenti comunitari; tuttavia, la previsione di siffatta soglia minima mira, nell’intenzione del legislatore, a rafforzare il concetto di base, secondo cui con la selezione del partner privato si intende individuare il vero motore dell’impresa, il soggetto a cui rimettere la gestione dell’azienda e la responsabilità dei risultati conseguiti in termini di efficienza e di efficacia aziendale, residuando in capo alla parte pubblica un compito principalmente di controllo interno dell’operato del “socio operativo”.
Tale soglia minima manifesta, dunque, la ratio legis di coniugare l’efficienza del privato con la cura dell’interesse pubblico, il know-how tecnico operativo dell’impresa privata con il controllo pubblico sul servizio, la qualità con l’economicità del servizio e, in generale, l’apertura alla privatizzazione con i compiti pubblici di regolazione.
Con riguardo al rispetto degli obblighi motivazionali atti a rendere nota la valutazione comparativa tra le forme di gestione previste dalla legge e, in particolare, la scelta compiuta dall’Amministrazione, il legislatore, mentre non ha previsto particolari obblighi motivazionali con riguardo alle modalità di affidamento cd ordinarie, ossia tramite procedura, ha statuito, invece, con riguardo alla procedura di affidamento in house l’obbligo per l’ente affidante di motivarne la scelta in base ad un’analisi del mercato e contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all'Autorità garante della concorrenza.
Sul punto, peraltro, il Consiglio di Stato, sez. V, 8 febbraio 2011, n. 854 ha precisato che in materia di pubblici servizi “il principio che la scelta della forma di gestione per ciascun servizio deve essere effettuata previa valutazione comparativa tra le diverse forme di gestione previste dalle disposizioni in materia è applicabile in generale, a prescindere da apposita norma statutaria, ogniqualvolta debba essere effettuata una scelta tra il ricorso alle due forme di gestione di cui trattasi, anche se non espressamente previsto dall’art. 113 D.Lgs. n. 267 del 2000, in ossequio al principio di buon andamento costituzionalmente previsto”.
Per garantire la parità tra gli operatore economici e per limitare le posizioni di privilegio, il legislatore ha poi vietato ai soggetti beneficiari di affidamenti, in via diretta o indiretta, in Italia o all’estero, anche non appartenenti a Stati della Unione europea, di acquisire la gestione di ulteriori servizi o dello stesso servizio in ambiti territoriali diversi, nonché di svolgere servizi o attività per enti pubblici o privati, partecipando a gare. Tuttavia, ai sensi del comma 2, lettera b, dell’art. 15 della L. 166/2009, che ha modificato l’art. 23-bis del D.L. 112/2008, il divieto non si applica alla società mista costituita con le modalità indicate nel medesimo art. 23-bis, cioè quando il socio privato è stato selezionato all’esito di una gara ad evidenza pubblica “a doppio oggetto”, avente ad oggetto contemporaneamente la qualità di socio e l’attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio (lo stesso vale per il socio privato di una società mista).
Pertanto, il divieto di extraterritorialità, già previsto dal comma 6 dell’art. 113 TUEL, è stato recentemente ribadito anche con riferimento all’affidamento dei servizi pubblici locali dall’art. 23-bis, comma 9, Legge n. 133 del 2008, nel testo novellato dalla Legge n. 166 del 2009, il quale ha individuato in maniera chiara e completa i confini – sia oggettivi che soggettivi – della sua operatività.
Difatti, la norma fa divieto ai soggetti titolari della gestione di servizi pubblici locali non affidati mediante le procedure competitive e ai soggetti a cui è affidata la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali degli enti locali, qualora separata dall’attività di erogazione dei servizi, di acquisire la gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, nonché di svolgere servizio o attività per altri enti pubblici o privati, né direttamente, né tramite loro controllanti o altre società che siano da essi controllate o partecipate, né partecipando a gare.
L’art. 23-bis, così come modificato dall’art. 15, amplia l’ambito oggettivo di applicazione del divieto rispetto all’originaria previsione dell’art. 113 TUEL precludendo agli affidatari diretti il mercato delle commesse pubbliche e private. Infatti, il divieto esclude non solo la gestione di ulteriori servizi pubblici o in ambiti territoriali diversi, ma esclude anche lo svolgimento di attività o servizi resi per altri enti pubblici o per soggetti privati.
Per quanto riguarda, invece, l’ambito soggettivo di applicazione, preme una puntualizzazione, in quanto il divieto opera nei confronti dei soggetti cui è affidata la gestione delle reti, degli
impianti e delle altre dotazioni patrimoniali, qualora separata dall’attività di erogazione dei servizi, nonché nei confronti delle società affidatarie dirette dei servizi pubblici locali, delle loro controllate, controllanti e controllate da un medesimo controllante.
Il divieto comporta, dunque, la totale esclusione dal mercato della società in house, quale affidataria diretta, organismo interno all’ente pubblico, che può gestire il servizio pubblico sia pure occasionalmente, nonché esclude dal mercato anche la società mista, allorché gestisca il servizio pubblico come affidataria diretta, senza essere passata per le regole dell’evidenza pubblica, cioè in difformità del modello organizzativo previsto dall’art. 23-bis, comma 2, lett. b) della Legge n. 133 del Legge n. 133 del 2008.
Statuisce, infatti, l’art. 23-bis, comma 9, che il divieto opera nei confronti dei soggetti che gestiscono servizi pubblici locali “in virtù di affidamento diretto, di una procedura non ad evidenza pubblica ovvero ai sensi del comma 2, lettera b)”.
In questo ultimo caso si fa riferimento solo alla società mista, ma nel senso di includere solo la società mista costituita a seguito di una procedura di gara non ad evidenza pubblica.
Tale è la lettura interpretativa della disposizione in parola data dal TAR Calabria, Reggio Calabria, 16 giugno 2010, n. 561, il quale ha precisato che “rientrano nel concetto di evidenza pubblica anche le forme previste dal comma 2, lettera b) dell’art. 23-bis citato”, per cui “detto divieto si applica solamente alle società che già gestiscono servizi pubblici locali a seguito di procedure non ad evidenza pubblica”, mentre “non risulta applicabile nei confronti della società aggiudicataria costituita per l’appunto in conformità al disposto dell’art. 23-bis, comma 2, lettera b) del D.L. 112/2008 e successive modifiche”.
Ne consegue che il divieto opera se vi è equivalenza tra società mista e procedura non ad evidenza pubblica, mentre non opera se vi è equivalenza tra società mista e gara pubblica e, dunque, che l’affidamento mediante gara e l’affidamento a società mista sono modelli organizzativi sostanzialmente equivalenti e, quindi, conformi ai principi di mercato e della concorrenza.
Il divieto, inoltre, non si applica alle società quotate in mercati regolamentati. Ciò comporta che le società quotate e le loro controllate, che sono affidatarie di servizi pubblici senza gara, possono acquisire (direttamente o indirettamente) la gestione di servizi ulteriori o in ambiti territoriali diversi sia partecipando a gare sia acquisendo direttamente servizi o attività per altri enti pubblici o per soggetti privati.
Infine, l’art. 2, comma 7, del D.P.R. n. 168 del 2010 precisa che “i soggetti gestori di servizi pubblici locali, qualora intendano svolgere attività in mercati diversi da quelli in cui sono titolari di diritti di esclusiva, sono soggetti alla disciplina prevista dall’articolo 8, commi 2-bis e 2-quater, della legge 10 ottobre 1990,n. 287, e successive modificazioni”, ossia devono operare mediante società separate e qualora rendano disponibili a società da esse partecipate o controllate nei mercati diversi beni o servizi, anche informativi, di cui abbiano la disponibilità esclusiva in dipendenza delle attività svolte ai sensi del medesimo comma 2, esse sono tenute a rendere accessibili tali beni o servizi, a condizioni equivalenti, alle altre imprese direttamente concorrenti.
Così fotografato l’attuale impianto normativo della materia dei servizi pubblici locali, occorre estendere il compasso della nostra indagine prendendo in esame la disciplina dettata dal legislatore in ordine al divieto di attività extramoenia da parte di società a partecipazione pubblica, ripercorrendo, in particolare, l’iter evolutivo.
Sul punto, preme evidenziare che la questione è stato oggetto di particolare interesse da parte del legislatore già con l’art. 35 Legge n. 448 del 2001, statuendo al termine del periodo transitorio il divieto di extraterritorialità, ossia il divieto delle società di capitali in cui la partecipazione pubblica era superiore al 50%, se ancora affidatarie dirette, di partecipare ad attività imprenditoriali al di fuori del proprio territorio.
Successivamente, tale divieto, abrogato dall’art. 14 della Legge n. 326 del 2003, è stato reintrodotto ad opera dell’art. 13 del decreto legge n. 223 del 2006 (Decreto Bersani), il quale, intervenendo sul tema della extraterritorialità dei servizi resi da parte delle società a capitale pubblico o misto, ha previsto che, al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza del mercato e di assicurare la parità degli operatori, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali o locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, debbono operare esclusivamente con gli enti costituenti e affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti.
Tali società devono avere, in base all’art. 13 del D.L. n. 223 del 2006, oggetto sociale esclusivo e non possono agire in violazione delle regole anzidette, a pena di nullità dei contratti eventualmente conclusi.
Peraltro, il legislatore, in sede di conversione del decreto in esame, ha esonerato dal suo rispetto la materia dei servizi pubblici locali: alle società appositamente costituite per la gestione di tali servizi era, pertanto, consentito svolgere la propria attività anche extra moenia, senza che ciò pregiudicasse la legittimità dell’affidamento.
La disposizione in esame si inseriva in un contesto giurisprudenziale, caratterizzato da una corrente interpretativa in controtendenza rispetto all’impostazione restrittiva affermata dal legislatore.
Difatti, la questione della extraterritorialità – come ricorda il Consiglio di Stato, sez. IV, 29 settembre 2004, n. 5204 - era stata risolta in senso affermativo dalla giurisprudenza, sia pure con paletti e limitazioni volti a snaturare il ruolo istituzionale delle società miste.
Si riteneva, infatti, già nel vigore dell’art. 113 TUEL, nel testo anteriore alle innovazioni introdotte con la Legge n. 448 del 2001, con il D.L. n. 269 del 2003 e con la Legge n. 350 del 2003, che “l’attività extraterritoriale, per tutte le figure per le quali esiste un vincolo teleologico al soddisfacimento dei bisogni della collettività locale, si appalesa subordinata alla dimostrazione che in tal guisa viene soddisfatta una specifica esigenza della medesima collettività, che non si traduca in un mero ritorno di carattere imprenditoriale, e va ritenuta non ammissibile se vi sia una concreta incompatibilità con gli interessi della collettività di riferimento, determinata da una distrazione di risorse e mezzi effettivamente apprezzabile e realisticamente in grado di arrecare pregiudizio allo svolgimento del servizio pubblico locale” (Cons. Stato, sez. V, 3 settembre 2001, n. 4586).
Tale soluzione era stata elaborata partendo dal principio basilare secondo cui la società mista, a differenza dell’azienda speciale la cui natura strumentale ed il cui regime normativo pretendono un collegamento molto saldo, seppur di natura funzionale, tra l’attività dell’azienda stessa e le esigenze della collettività stanziata sul territorio dell’ente che l’ha costituita, è innanzitutto un soggetto imprenditoriale, rientrante nello schema organizzativo gestionale proprio delle società di capitali e, pertanto, non sottoposto alle limitazioni territoriali di attività cui soggiacciono le aziende speciali.
Pertanto, si escludeva che costituisse automatica violazione del principio di parità di trattamento e della concorrenza l’ammissione alla partecipazione ad un procedimento di aggiudicazione di un pubblico appalto di organismi, che beneficiassero di sovvenzioni pubbliche (nel caso in esame sotto forma di sottoscrizione del capitale sociale), non sussistendo del resto a livello di normativa comunitaria un espresso divieto di partecipazione di tali organismi a dette procedure di appalto.
A tale principio la giurisprudenza amministrativa intersecava anche quello che riteneva la società mista, costituita da enti locali, strumentale al perseguimento degli interessi della collettività locale; conseguentemente, se, da un lato, non si poteva a priori escludere la possibilità di svolgimento di attività c.d. extraterritoriali, dall’altro lato, occorreva, comunque, verificare, caso per caso, con specifiche indagini e studi, che l’espletamento di tali attività, da un lato, contribuisse al miglior perseguimento dell’interesse della collettività locale, e, dall’altro lato, non si traducesse in un aumento di costi per tale collettività, in termini di aumento di tasse o tariffe o peggioramento del servizio.
Solo a tali condizioni, infatti, si riteneva soddisfatta la duplice esigenza che, da un lato, le attività extraterritoriali della società mista non si traducessero in pregiudizio e aumento di costi della collettività territoriale, in contrasto con i principi di efficienza e di equa misura di tasse e tariffe, e che, dall’altro lato, la società mista, una volta immessa sul mercato, vi operasse in condizioni di effettiva concorrenza e parità con gli imprenditori privati, senza costituzione di una posizione di privilegio derivante dalla possibilità di usufruire, in violazione delle norme comunitarie e nazionali sugli aiuti pubblici alle imprese, di una dote economico-finanziaria costituita da denaro pubblico e, dunque, in definitiva, a carico della collettività (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 7 settembre 2004, n. 5843).
In definitiva, anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 13 del decreto Bersani, la giurisprudenza amministrativa si era attestata sul principio in base al quale le società miste, pur legittimate in via di principio a svolgere la propria attività anche al di fuori del territorio dell’ente locale dal quale erano state costituite, in quanto munite dal legislatore di capacità imprenditoriale, erano pur sempre tenute, per il vincolo genetico-funzionale che le lega all’ente di origine, a perseguire finalità di promozione dello sviluppo della comunità locale di emanazione.
Peraltro, è bene chiarire che tale vincolo funzionale assumeva un carattere meramente residuale, venendo in rilievo soltanto al fine di evitare che l’attività extraterritoriale potesse arrecare pregiudizio a quella principale.
Il vincolo funzionale, dunque, non veniva ritenuto a priori un ostacolo allo svolgimento di attività che potevano essere compatibili con quella istituzionalmente svolta dalla società, dato che potevano, anzi, innescarsi sinergie utili mediante un miglioramento della gestione del servizio stesso ed assicurando anche un ritorno di capitale investito dai soci. Di contro, si riteneva che tale attività extraterritoriale dovesse essere inibita, qualora diventavano rilevanti le risorse e i mezzi eventualmente distolti dalla attività riferibile alla collettività di riferimento senza apprezzabili utilità di quest’ultime.
A queste aperture giurisprudenziali, il legislatore con la previsione di cui all’art. 13 del Decreto Bersani ha, dunque, opposto una restrizione.
Sulla struttura dell’art. 13 del decreto Bersani si sono pronunciati sia la Corte costituzionale sia il Consiglio di Stato. In particolare, la Corte costituzionale con la sentenza 1 agosto 2008 n. 326 ne ha difeso la costituzionalità, chiarendo che le destinatarie del divieto sono solo le società partecipate dall’Amministrazione, affidatarie di un ruolo strumentale (produzione di servizi o esercizio di funzioni ex lege), e non anche le società di proprietà pubblica, che operano, da imprese, in mercati concorrenziali.
La ratio del divieto va, dunque, ravvisata nella distinzione “tra attività amministrativa in forma privatistica e attività d’impresa di enti pubblici. L’una e l’altra possono essere svolte attraverso società di capitali, ma le condizioni di svolgimento sono diverse. Nel primo caso vi è attività amministrativa, di natura finale o strumentale, posta in essere da società di capitali che operano per conto di una pubblica amministrazione. Nel secondo caso, vi è erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza. Le disposizioni impugnate mirano a separare le due sfere di attività per evitare che un soggetto, che svolga attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d’impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione. Non è negata né limitata la libertà di iniziativa economica degli enti territoriali, ma è imposto loro di esercitarla distintamente dalle proprie funzioni amministrative, rimediando a una frequente commistione, che il legislatore statale ha reputato distorsiva della concorrenza”.
Dunque – ha precisato l’Adunanza Plenaria nella sentenza in epigrafe, commentando il costrutto esegetico della Corte costituzionale – “la disciplina delle società con partecipazione pubblica dettata dalla norma è rivolta ad impedire che dette società costituiscano fattori di distorsione della concorrenza, disciplina che non è stata ritenuta non irragionevole né sproporzionata rispetto alle esigenze perseguite”.
“La Corte – ha proseguito l’Adunanza Plenaria - ha poi ritenuto che il divieto imposto alle società strumentali di detenere partecipazioni in altre società o enti sia complementare rispetto alle disposizioni considerate, essendo volto ad evitare che le società in questione svolgano, indirettamente, attraverso proprie partecipazioni o articolazioni, le attività loro precluse. La disposizione in questione, peraltro, vieta loro non di detenere qualsiasi partecipazione o di aderire a qualsiasi ente, ma solo di detenere partecipazioni in società o enti che operino in settori preclusi alle società stesse. Dall’enunciato dell’art. 13, così come interpretato dalla Corte costituzionale, si evince che la limitazione alla legittimazione negoziale delle società strumentali si riferisce a qualsiasi prestazione a favore di soggetti terzi rispetto agli enti costituenti, partecipanti o affidanti, senza che a nulla rilevi la qualificazione di tale attività. La qualificazione differenziale tra attività strumentale e gestione di servizi pubblici deve essere, invece, riferita non all’oggetto della gara, bensì all’oggetto sociale delle imprese partecipanti ad essa (V Sez., 22 marzo 2010, n. 1651). Il divieto di fornire prestazioni a enti terzi, infatti, come si è detto, colpisce le società pubbliche strumentali alle amministrazioni regionali o locali, che esercitano attività amministrativa in forma privatistica, non anche le società destinate a gestire servizi pubblici locali che esercitano attività d’impresa di enti pubblici (IV sez., 5 marzo 2008, n. 946; V Sez., dec. n. 1651 cit.; 12 giugno 2009, n. 3767; 22 febbraio 2010, n. 1037; 16 novembre 2010, n. 8069)”.
Sulla medesima linea d’onda si pone anche la giurisprudenza comunitaria. Infatti, “pur avendo l’Unione europea previsto la necessità per gli Stati membri di provvedere alla regolamentazione dell’accesso al mercato degli appalti pubblici da parte di organismi di proprietà o partecipati da enti pubblici, proprio per evitare distorsioni della concorrenza nei confronti di soggetti privati (v. Direttiva n. 2004/18/CE del 31/3/2004), si è tuttavia escluso che il riconoscimento della legittimazione a concorrere extra moenia contrasti in qualche modo con i principi in materia di concorrenza e di parità di trattamento fra imprese pubbliche e private. È stato, invero, affermato che il solo fatto che amministrazioni aggiudicatrici ammettano alla partecipazione ad un procedimento di aggiudicazione di un pubblico appalto organismi che beneficiano di sovvenzioni pubbliche non costituisce automaticamente violazione del principio di parità di trattamento (e della concorrenza), non sussistendo a livello di normativa comunitaria un espresso divieto di partecipazione di tali organismi a dette procedure di appalto (così: Corte di giustizia 7/12/2002; V Sez., 27 settembre 2004, n. 6325; 12 giugno 2009, n. 3767), salvo procedere ad una accorta e puntuale valutazione della congruità dell’offerta, per evitare che un’offerta particolarmente bassa possa essere proprio il frutto della predetta particolare posizione dell’organismo a partecipazione pubblica che ha preso parte alla gara (V Sez., n. 3767 cit.; 3 settembre 2001, n. 6525; 7 settembre 2004; n. 5843; 3 ottobre 2005, n. 5304; C.G.A. 21 marzo 2007, n. 197)”.
Peraltro, evidenziano i Giudici di Palazzo Spada come proprio sulla nozione di strumentalità si riscontra l’esistenza di importanti arresti giurisprudenziali, che delineano un articolato e composito quadro interpretativo.
In particolare, afferma il Collegio, “partendo dalla distinzione fra società strumentali, perché destinate a produrre beni e servizi finalizzati alle esigenze dell’ente pubblico partecipante e società a partecipazione pubblico- privata, esercitate secondo modelli paritetici, in cui il ruolo degli enti territoriali corrisponde a quello di un azionista di una società per azioni (IV Sez., 5 marzo 2008, n. 946; V Sez. 16 novembre 2010, n. 8069), la giurisprudenza ha ritenuto applicabile solo alle prime la norma contenuta nel “Decreto Bersani”. Il divieto, in tal caso, è stato ritenuto giustificato dall’essere le società strumentali una longa manus delle Amministrazioni pubbliche, operanti per queste ultime e non già per il pubblico (V Sez., 4346/09; 3766/09; 1282/10; 8069/10; n. 77/2011). È stato, invece, ritenuto non operante nel caso di società a partecipazione pubblica che producono beni o servizi per il pubblico (consumatori o utenti) in regime di concorrenza (V Sez., n. 8069 cit.)”.
Più nello specifico, procedendo ad un’analisi più dettagliata degli arresti giurisprudenziali evocati dall’Adunanza Plenaria, Con particolare riferimento al requisito della strumentalità, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che esso sussiste “allorquando l’attività che le società sono chiamate a svolgere sia rivolta agli stessi enti promotori o comunque azionisti della società per svolgere le funzioni di supporto di tali amministrazioni pubbliche, secondo l’ordinamento amministrativo” (Consiglio di Stato, Sez. V, 7 luglio 2009, n. 4346) e per il perseguimento dei loro fini istituzionali, mirando, pertanto, il divieto in questione “ad escludere che le società strumentali possano svolgere, in relazione alla loro posizione privilegiata, altre attività a favore di altri soggetti pubblici o privati perché se così fosse si creerebbe un’alterazione o una distorsione della concorrenza o del mercato”.
Pertanto, “le limitazioni in parola riguardano le società costituite per svolgere attività finalizzate alla produzione di beni o servizi da erogare a supporto di funzioni amministrative di cui resta titolare l’ente di riferimento e con i quali questo provvede al perseguimento dei suoi fini istituzionali e sono rivolte, quindi, essenzialmente alla pubblica amministrazione e non al pubblico. Le società operanti nel campo dei servizi pubblici locali mirano, invece, a soddisfare direttamente esigenze generali della collettività, e sono escluse (il dato è testuale) dall’applicazione della normativa in commento” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 16 gennaio 2009, n. 215).
Deve, pertanto, affermarsi – alla luce di tali recenti interventi giurisprudenziali – che il divieto in parola non si applica alle società aventi una configurazione giuridica e una dimensione tali da rendere evidente come lo scopo sociale non sia limitato alla fornitura di servizi all’ente di riferimento, ma sia destinata ad offrire i propri servizi sul mercato.
Il principio di diritto dell’operatività extra moenia delle società miste è stato di recente ribadito dal Consiglio di Stato, Sez. V, 11 gennaio 2011, n. 77, il quale ne ha esteso l’ambito anche alle ipotesi in cui i moduli societari misti non hanno oggetto sociale esclusivo o limitato allo svolgimento di servizi pubblici locali, ma sono altresì chiamati a produrre beni o servizi strumentali all’attività degli enti costituenti e partecipanti, nonché a favore di altri enti o loro società o aziende pubbliche e private, in quanto “soggetti di diritto privato che devono comunque operare sul mercato nel pieno rispetto delle regole della concorrenza e possono conseguire l’aggiudicazione di detti servizi pubblici locali solo nel rispetto delle regole previste per le procedure di affidamento dei contratti pubblici”.
Ciò significa, in buona sostanza, che “mentre i divieti e gli obblighi imposti dal 1^e 2^ co. del predetto art.13 (con la sanzione prevista dal successivo 4^ co. della nullità dei contratti stipulati in violazione di detti divieti e di detti obblighi) trovano una ben ragionevole giustificazione per le società c.d. strumentali, non altrettanto ragionevole né fondata (sopratutto in base alla “ratio” della predetta norma) appare l’applicazione della stessa anche per quelle società c.d. “miste”(partecipate da soggetti pubblici e privati), che, pur non avendo un oggetto sociale esclusivo circoscritto come tale alla sola operatività con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti ( e quindi svolgendo sia servizi pubblici locali,sia altri servizi e forniture di beni a favore degli enti pubblici e privati partecipanti nonché a favore di altri enti o loro società o aziende pubbliche e private),operano comunque nel pieno rispetto delle regole di concorrenza imposte dal mercato ed altresì nel pieno rispetto delle regole previste per le procedure di affidamento dei contratti pubblici.”.
Alcune delle decisioni sopra menzionate – come ha chiarito dall’Adunanza Plenaria – “hanno focalizzato il ruolo svolto dalla specifica missione strumentale della società rispetto all’ente che l’ha costituita o la partecipa per giustificare il divieto legislativo di operare per altri soggetti pubblici o privati (V Sez., 5 marzo 2010, n. 1281; n. 8069 del 2010)”.
Inoltre, “alcune decisioni – ha proseguito il Collegio – hanno affermato che le preclusioni operanti per le società strumentali debbano essere estese anche alle società da queste costituite, anche per attività non strumentali (V Sez., 22 febbraio 2010, n. 1037; n. 8069/10 cit.)”.
“Alcune decisioni hanno, poi, ritenuto che il divieto di cui all’art. 13 si applichi anche alle cd. società di terzo grado (non costituite da enti pubblici e non destinate a soddisfare esigenze strumentali della P.A.), ove l’assunzione avvenga comunque con una quota di capitale pubblico (Sez. V, n. 4829/08), nonché che il divieto abbia portata generale per tutti i soggetti titolari di affidamenti diretti (ancorché preceduti da gara per la scelta del socio), indipendentemente da ogni considerazione sulla legittimità di tali affidamenti (Sez. V, n. 417/10)”.
Facendo applicazione di tali coordinate interpretative, il Supremo Consesso amministrativo ha formulato i principi di diritto in ordine alle questioni poste alla sua attenzione, statuendo in primis il principio per cui il divieto di cui all’art. 13 del D.L. n. 223 del 2006 non si applica alle ipotesi di società a capitale misto, con scopo statutario non esclusivo e che intenda operare, mediante una società interamente partecipata, in favore di enti locali non soci, concorrendo a gare per gli stessi servizi.
In particolare, ha affermato il Collegio che nel caso di specie la società ricorrente in primo grado e resistente in secondo grado, esclusa dalla partecipazione alla gara pubblica di appalto di rilevanza economica oggetto di contestazione, non rientrava nell’ambito del divieto di cui all’art. 13 D.L. n. 223 del 2006 non solo in quanto non aveva oggetto sociale esclusivo né risultava svolgere attività nell’ambito degli affidamenti diretti di qualsiasi genere, ma altresì in forza dell’irrilevanza della circostanza, indicata dal Comune appellante, che essa era controllata in termini di assoluta prevalenza (98,4%) da una società mista per la gestione di servizi pubblici locali a rilevanza economica, di cui numerosi enti locali sono soci, attesa la natura di quest’ultima società.
Difatti, ha precisato l’Adunanza Plenaria: “dalla lettura dell’oggetto sociale della società controllante, quale definito dallo Statuto, si evidenzia una missione complessivamente rivolta al pubblico piuttosto che una esclusiva riserva di attività per qualche Amministrazione pubblica locale”.
Si tratta, inoltre, di “una società mista conformata ai sensi indicati dall’art. 113, co. 5, lett. b), d. lgs n. 267 del 2000, affidataria, ad opera delle competenti Autorità d’ambito ottimale, del servizio idrico integrato e del servizio raccolta e trasporto rifiuti solidi urbani per i Comuni soci, avendo previamente espletato idonea procedura ad evidenza pubblica per la selezione del socio privato con gara pubblica a duplice oggetto: l’acquisizione della qualifica di socio (in particolare di socio titolare di azioni ai sensi dell’art. 2350 co. 2 c.c. correlato all’affidamento del servizio pubblico locale oggetto di gara) e l’assegnazione a specifici compiti operativi riguardanti la gestione del servizio medesimo (con l’attribuzione ex art. 2345 c.c. di prestazioni accessorie connesse alle suindicate azioni correlate all’affidamento del servizio, V Sez., 12 novembre 2009, n. 7048)”.
In conclusione, la società controllante non risulta essere qualificabile come società strumentale per l’attività istituzionale dei Comuni soci, da cui l’inapplicabilità alla stessa del divieto di partecipazione alle gare pubbliche previsto dall’art. 13 cit. (cfr. V Sez., n. 2012/11), né, d’altra parte, risulta avere affidamenti diretti da parte dei soci pubblici. “Deve, conseguentemente, escludersi che anche la controllata possa essere assoggettata ai limiti di legittimazione propri appunto della società strumentale e che alla stessa sia applicabile la normativa dettata dal medesimo articolo 13”.
Nonostante che la risoluzione data a tale nodo interpretativo comportasse di per sé l’infondatezza degli appelli proposti da parte del Comune e della società controinteressata aggiudicataria dell’appalto contestato, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto opportuno prendere in esame anche la seconda questione posta alla sua attenzione volta a stabilire se il divieto contenuto nel più volte citato art. 13 si estenda anche ad un’impresa partecipata da un’altra impresa, a sua volta controllata da un’amministrazione pubblica.
Sul punto, i Giudici di Palazzo Spada hanno formulato il principio di diritto per cui “sono applicabili alle società controllate da società strumentali e costituite con capitale di queste gli stessi limiti che valgano per tutte le società controllanti, ove si tratti di attività inerenti a settori preclusi a queste ultime”.
Infatti, ha chiarito il Collegio, “l’utilizzazione di capitali di una società strumentale per partecipare, attraverso la creazione di una società di terzo grado, a gare ad evidenza pubblica comporterebbe, sia pure indirettamente, l’elusione del divieto di svolgere attività diverse da quelle consentite a soggetti che godano di una posizione di mercato avvantaggiata”.
La ragione di tale approdo interpretativo va ravvisato nel fatto che “l’alterazione della libera concorrenza può realizzarsi anche in via mediata, ossia fruendo dei vantaggi derivanti dal’investimento del capitale di una società strumentale in altro soggetto societario costituito con finalità neppure indirettamente strumentali, ma anzi intrinsecamente imprenditoriali (cfr., in termini, V Sez., 22 febbraio 2010, n. 1037)”.
In definitiva, qualora la società costituita o posseduta dall’ente locale svolga servizi strumentali per lo stesso, la finalità del D.L. n. 223 del 2009, di evitare effetti distorsivi della libera concorrenza, si persegue non solo vietando le attività diverse da quelle classificabili come strumentali rispetto alle finalità dell’ente pubblico, ma anche vietando la partecipazione delle società strumentali ad altre società.
Tale principio si evince in particolare dalla decisione n. 326 del 2008 della Corte costituzionale, che ha ritenuto il divieto imposto alle società strumentali di detenere partecipazioni in altre società volto ad evitare che le società in questione svolgano indirettamente, attraverso proprie partecipazioni o articolazioni, attività loro precluse.
“Né – ha concluso l’Adunanza Plenaria - può costituire valido argomento a contrario la previsione dello scorporo di attività non più consentite alle società strumentali di cui al comma 3 dell’art. 13 del “Decreto Bersani”, dovendosi tale disposizione intendere nell’unico senso compatibile con il divieto imposto alle società strumentali di partecipare ad enti, sancito dal comma 1 del medesimo articolo e cioè come volta a costituire un nuovo soggetto societario, destinato a concorrere in pubbliche gare per lo svolgimento di un servizio di interesse generale, che non comporti l’intervento finanziario dell’ente strumentale (cfr. dec. n. 1037 cit.). Tale interpretazione trova del resto conferma nella circostanza che l’obbligo di cessione a terzi delle società e delle partecipazioni vietate, abrogato dalla legge finanziaria 2007 (art.1, co. 720, l. 27 dicembre 2006, n. 296), è stato poi ripristinato dalla legge finanziaria 2008 (l. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 3, comma 29), con la previsione di un termine di adempimento più volte prorogato, da ultimo con l’art. 71, co.1, lett.e) della l. 18 giugno 2009, n. 69 (V Sez., n. 8069 del 2010 cit.)”.



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