Sbattere il mendicante in prima pagina può costituire reato
a cura del dott. Giuseppe Caristena
 

Sbattere il mendicante in prima pagina può costituire reato
a cura del dott. Giuseppe Caristena


Non credo si sarebbero mai aspettati di essere trascinati in giudizio i due soggetti protagonisti della vicenda che sto per raccontarvi. Si tratta dell’autore dell’articolo incriminato ed il direttore del giornale su cui lo stesso è stato pubblicato.
Non se lo sarebbero mai aspettati perché, avendo a che fare con una signora di origine rom, avranno probabilmente sottovalutato la gravità della loro azione.
A dar via al processo nei loro confronti è stata proprio la signora rom, la quale s’era ritrovata sul giornale perché una fotografia che la ritraeva era stata utilizzata per accompagnare il testo un articolo concernente il pacchetto sicurezza varato dall’Esecutivo. Il discorso rende meglio se si specifica che:
1) l’articolo conteneva commenti a favore del suddetto pacchetto, nonché delle ronde, considerandoli efficaci soluzioni ai problemi della prostituzione, dell’accattonaggio e di altri fenomeni che minano l’ordine pubblico e la tranquillità delle città;
2) l’immagine è stata pubblicata con didascalia una questuante all’opera nel centro storico di Trento.
Da ciò ben si comprendono le ragioni che hanno spinto la signora ad agire legalmente per tutelare la propria persona e veder condannati il direttore del giornale (1) e l’autore dell’articolo per il reato di diffamazione ai sensi dell’art. 595 cod. pen.
La Suprema Corte di Cassazione, difatti, le ha dato ragione. Con sentenza dell’1 ottobre 2011 (dep. 30 gennaio 2012) n. 3721 i giudici di Piazza Cavour hanno annullato la sentenza con la quale il g.i.p. di Trento, una volta negato il valore diffamatorio della condotta degli imputati, aveva dichiarato il non luogo a procedere per insussistenza del fatto. Gli ermellini hanno infatti considerato scorretta ed illogica la suddetta decisione.
Innanzitutto, in sede di legittimità è stata accertata la violazione dell’art. 425 cod. proc. pen. perché il g.i.p. avrebbe emesso sentenza di non luogo a procedere senza che in giudizio fossero emersi, in maniera incontrovertibile, elementi a sostegno dell’insussistenza del fatto (2) Inoltre, è stato accertato che il g.i.p. aveva pronunciato tale sentenza mancando di effettuare un corretto bilanciamento dei principi costituzionali in gioco: il diritto di stampa e la tutela dell’onore e della dignità della persona.
Prima di proseguire è bene aprire una breve parentesi sui suddetti principi.
Quanto al diritto di stampa (3), la giurisprudenza di legittimità ha fissato le condizioni che ne rendono legittimo l’esercizio:
1) l’utilità sociale dell’informazione;
2) la verità oggettiva dei fatti esposti;
3) la forma civile dell’esposizione dei fatti e della valutazione (4)
Quanto al secondo, in dottrina si afferma che ciò che ha rilevanza penale è il duplice riflesso, soggettivo e oggettivo, dell’onore. Rispettivamente, il sentimento del proprio valore sociale e la reputazione di cui un soggetto gode nella comunità (5). La giurisprudenza di legittimità ha a più riprese affermato che il bene tutelato nel delitto di diffamazione è dato dall’integrità morale della persona, e più precisamente “dalla reputazione dell'uomo, dalla stima diffusa nell'ambiente sociale, dall'opinione che gli altri hanno del suo onore e decoro”(6)
Ritornando al caso specifico, nel testo dell’articolo si sosteneva la tesi per cui il pacchetto sicurezza era idoneo a contrastare diversi fenomeni che minano l’ordine pubblico nelle città e raccontati in modo fortemente negativo. E dell’accattonaggio, per esempio, si raccontava che “dietro [ad esso] ci era (sia) una organizzazione malavitosa”.
Ora, è vero che è prassi, diffusa e utile, catturare l’attenzione del lettore con immagini associate al pezzo giornalistico, ma nel caso di specie “non è, invero, logicamente sostenibile che la fotografia della parte civile sia per così dire neutra e che sia servita soltanto a richiamare l’attenzione su uno dei temi trattati nell’articolo”. Non può considerarsi “neutra” l’immagine di una signora di origine rom, con una certa didascalia denigratoria, inserita all’interno di un articolo di denuncia di certi fenomeni riprovevoli, dal momento che chi legge sarà quasi certamente portato a collegare la persona raffigurata con i mali da combattere ed eliminare (i.e. l’accattonaggio e la malavita che lo gestirebbe) per riportare la tranquillità in città.
Inoltre, non è giusto rafforzare certi stereotipi diffusi nella coscienza comune, che già pone questi soggetti tra i gradini più bassi della “scala sociale”. E questa convinzione diffusa non può far passare l’idea che condotte come quella qui raccontata siano tollerabili perché considerate inidonee a mortificare e ferire l’onorabilità di chi per sopravvivere si trova costretto a mendicare. E già solo per questo disprezzato.
L’autore del pezzo giornalistico non ha rispettato il “decalogo del buon giornalista”, dal momento che non ha mostrato la giusta continenza nella formulazione dello stesso (7).
Più specificamente, i giudici hanno parlato di “censurabile incontinenza espressiva”.
Per evitare ciò, il giornalista avrebbe dovuto almeno sgranare il volto della signora per renderla non identificabile, così come si usa fare quando per narrare fatti di cronaca si utilizzano immagini di persone in qualche modo coinvolte in fenomeni negativamente giudicati dalla collettività, al fine di evitare che si crei un collegamento tra il problema di carattere generale raccontato nell’articolo e chi ritratto nell’immagine. Collegamenti del genere sono certamente irrispettosi e lesivi della persona.
In conclusione, i giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno attribuito rilevanza penale alla condotta del giornalista e del direttore, ritenendo che “l’accostamento tra la fotografia della parte lesa ed il testo dell’articolo contiene una forte carica diffamatoria perché induce il lettore ad individuare [la signora] come emblema del disordine cittadino e come accattona forse anche legata ad ambienti malavitosi”.
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1) Il direttore del giornale è responsabile in forza dell’art. 57 cod. pen., che statuisce quanto segue:“Salva la responsabilità dell'autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo”. Articolo così costituito dall'art. 1, L. 4.3.1958, n. 127, sui reati commessi a mezzo stampa, e che prevede oggi espressamente una responsabilità penale del direttore per fatto proprio e a titolo di colpa, in linea, così, con lo schema già sostenuto sia dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. II, 15 luglio 1953; Cass., sez. I, 20 maggio 1953) che dalla dottrina (Antolisei, Manuale di diritto penale, Milano, 1949, 211; Pannain, Manuale di diritto penale, 1942, 332) in relazione al testo previgente, nonostante in quest’ultimo si leggesse di una responsabilità del direttore, per il reato commesso dall’autore dell’articolo, per ciò solo, ossia per il solo fatto di ricoprire tale posizione, rendendo così possibile pensare a una responsabilità oggettiva per fatto altrui (Nuvolone, Il diritto penale della stampa, Padova, 1971, 106).
2) Gli ermellini tengono a sottolineare che ciò vale anche se la versione attuale della norma, a differenza di quella originaria, non menziona l’evidenza come caratteristica degli elementi sui quali fondare la sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste.
3 ) Diritto garantito dall’art. 21 Cost. e disciplinato dalla Legge 8 febbraio 1948 n. 47.
4) Cass. civ. 18 ottobre 1984 n. 5259, che fa da “decalogo del buon giornalista”.
5) Per tutti, Antolisei, Manuale di diritto penale, parte spec., Dei delitti contro la persona, Milano, 1999, 189.
6) Tra tutte Cass. pen., sez. V, 28 febbraio 1995, n. 3247.